Deep sky di qualità da cieli fortemente inquinati

Ciao a tutti, ragazzi!

È da un po’ che mi riprometto di sottoporvi qualcosa di valore sul deepsky, ma in effetti, coi tempi (e gli inquinamenti) che corrono, questo tipo di ripresa diventa sempre più difficile da realizzare… Come tutti sappiamo bene, estremo rifugio dell’astrofotografo (e dell’astrofilo in generale) sono le vette delle nostre amate montagne, Alpi e Appennini, così come i più bui entroterra delle isole maggiori e più in generale tutte le zone a bassa antropizzazione. Tuttavia, operare da questi contesti è sempre più impegnativo: quand’anche volessimo escludere la complessità organizzativa che impone una sessione di ripresa in queste zone, tra i mille impegni lavorativi e familiari che tutti abbiamo, rimane pur sempre da constatare che anche questi luoghi sempre più sono intaccati dalla piaga dal dilagante spreco energetico legato alla illuminazione notturna, pubblica e privata…

Ebbene, proprio per questo non è di luoghi di frontiera per la civiltà, che oggi voglio parlare, ma più spiccatamente di comode e vicine città. Città certo nottetempo inquinate, e pesantemente anche, da luci di tutti i tipi. Insomma, degli ultimi luoghi in cui ci si aspetterebbe di trovare un astrofilo felice, men che meno un astroimager che si occupi di deepsky… E invece no. Perché, come ebbe a dire qualcuno, “la vita trova sempre un modo”, e noi astrofili, in questo senso, siamo dei veri eroi: un modo lo troviamo. Sempre! D’altro canto che sarà mai, per coloro i quali hanno fatto dell’osservazione di minuscoli, tenui e lontanissimi bagliori nel buio la loro grande passione, affrontare il “modesto” problema dell’avere qualche centinaio di lux al suolo in piena notte? Eccheccazzo!!!

Sarcasmo a parte, i più esperti certo lo sanno bene, per riprendere gli oggetti deepsky con risultati grandemente qualitativi esistono da diversi anni in commercio dei filtri, i filtri narrow band (a banda stretta), che permettono di realizzare ottime riprese anche dai medi cieli urbani. Il principio è molto semplice: sapendo che le sorgenti astronomiche emettono, un po’ come dei radiofari, soprattutto in alcune precise bande dello spettro elettromagnetico, è sufficiente “sintonizzarsi”, grazie a questi filtri, su quelle specifiche frequenze (idrogeno ionizzato, ossigeno ionizzato, zolfo ionizzato, ecc..), ancora abbastanza poco intaccate dall’IL, per ottenere una luce meno spuria, quasi inviolata. Una luce in presa diretta dallo spazio profondo.

Più in dettaglio, però, oggi andiamo a parlare di chi suole fare delle riprese narrow band un vero “sport estremo”, andando direttamente al cuore della questione: andiamo a parlare, cioè, di come sia possibile effettuare riprese deepsky di alta qualità persino dai pressi della più inquinata città della Pianura Padana, nonché, probabilmente, di tutta Italia: Milano! La splendida città meneghina, ricca di storia e bellezze è infatti, purtroppo, anche la patria nazionale dell’inquinamento luminoso, con una brillantezza media annua del cielo notturno che non teme il confronto con nessuna tra le maggiori megalopoli europee e mondiali. Per intenderci, Londra, Parigi e Berlino sono sovrastate da mostro luminoso che irradia il cielo notturno in maniera non dissimile da quanto avviene nella città della Borsa.

Come accennato, fare riprese in questi contesti può risultare un po’ uno “sport estremo”, ma non per questo risulta essere qualcosa di impossibile. Basta avere i giusti strumenti e la giusta passione.
Di questo stesso mio avviso, evidentemente, è anche l’amico e ottimo (astro)fotografo, Marco Formenton, che da lì opera: proprio dai pressi di Milano!

Le immagini che realizza testimoniano una passione evidente, ma quel che risulta molto meno evidente sono le lunghissime ore di lavoro necessarie per effettuare l’elaborazione e, ancor di più, le riprese stesse. Eh, sì, perché, per chi non lo sapesse, i filtri narrow band di qualità sono davvero stretti, e lasciano passare solo una minima quantità di luce (circa il 2% delle frequenze). Questo comporta ovviamente un aggravio notevolissimo delle difficoltà tecniche.

Certo, le riprese sono state realizzate con un setup di alta qualità, studiato da noi appositamente assieme a Marco; ma si tratta di un setup assolutamente tutt’altro che fantascientifico, di fatto alla portata di tutti!
Si tratta di un tripletto FPL53 TS TLAPO804 e di un tripletto FPL51 Tecnosky 115/800 V2, ridotti e/o spianati ed equipaggiato di una camera CMOS ASI1600MMC, dal costo davvero accessibile; il tutto, su una sempreverde montatura Skywatcher EQ6 moddata Astronomy Expert. Ah, sì, naturalmente anche dei filtri di buona qualità, sono un po’ indispensabili: perché qui i filtri fanno la differenza, letteralmente, tra la notte (o qualcosa che ci somiglia) e il giorno (o qualcosa che ci somiglia)… 🙂

Con ciò detto, non mi resta che passare la parola all’autore delle splendide foto che avrete certo già iniziato ad apprezzare con un veloce scroll di pagina. Altrimenti non credo vi sareste sorbiti questo mio polpettone introduttivo… :DDD

In nostri ringraziamenti vanno a Marco per il contributo e lo splendido lavoro svolto, che (ancora una volta in questa sede lo voglio ribadire) ci mostra come conti infinitamente di più una grande passione di tutto il resto. È questa passione, incontenibile, che dovrebbe guidare la vita di tutti noi: anche se ci porta al sacrificio di un meritato sonno in favore di lunghe ore di impegno e concentrazione; anche se ci costringe a stare al freddo vero, magari dietro a una guida che fa i capricci; anche se ci porta a passare il weekend a mordersi le unghie mille volte dietro a un monitor, alla ricerca della una elaborazione perfetta, che non viene mai…

Senza impegno, senza dedizione, senza sacrificio, non si va da nessuna parte, ragazzi! E anche allora, non è mai detto, fino alla fine, fino a risultato incassato, fino a quando ciò che cerchi non compare davanti ai tuoi occhi, e lascia stupito pure te…

Come sempre, l’astronomia è vera, grande maestra di vita!!!

Non solo quando siamo al telescopio.

Buona lettura a tutti.

LUCA ZANCHETTA – TELESKOP SERVICE ITALIA


Ho alzato per la primissima volta il naso all’insù nel settembre 2016 quando insieme all’amico Fabrizio Vicini ho scoperto lo spettacolo della Via Lattea alta nel cielo. Fabrizio, che già era appassionato di astronomia cominciò a farmi notare le costellazioni che ruotano lungo la polare, l’Orsa Maggiore e Cassiopea, poi fece uno scatto, per me a quell’epoca era uno scatto a casaccio nel cielo, poi mi fece vedere lo schermo della reflex, fece uno zoom e mi disse: “vedi quel batuffolo di cotone? Ecco quella è la galassia di Andromeda!”.

Rimasi sbalordito!

Da lì la voglia di scoprire cosa si celasse in ogni angolo del cielo si è insinuata nella mia mente, ho iniziato a documentarmi, a scoprire un mondo per me totalmente nuovo fino a quando, nel febbraio 2017 acquistai il mio primo Skywatcher Star Adventurer a cui affiancai la mia reflex Nikon D750.

Da questo momento cominciai a sperimentare.

Il primo scoglio fu metter in polare la strumentazione che per uno come me che mai si era dedicato all’osservazione astronomica era già un bel traguardo.

Poi i primi scatti alla Grande Nebulosa di Orione, M42, la più semplice, non fotograficamente, ma da centrare, perché non riconoscendo ancora le costellazioni non è per nulla semplice inquadrare soggetti invisibili al nostro occhio.

Cominciai a vedere i primi risultati verso marzo, passando ore ed ore in mezzo alle campagne del Pavese a provare e riprovare.

Lo Star Adventurer e la Nikon D750 cominciarono presto a starmi stretti.

Mi rivolsi allora ai ragazzi di Teleskop Service Italia dove acquistai la mia prima montatura equatoriale Skywatcher NEQ6 Pro con modifica Rowan cui affiancai lo splendido Skywatcher 200 f4.

Presto mi ritrovai in un ambiente nuovo, ma in cui ero a mio agio, dove ho conosciuto tante persone nuove ma soprattutto buoni amici, in particolar modo il fantastico team Eye In The Sky Astronomy di Caldonazzo che ammiro e stimo moltissimo!

A Luglio 2017 partecipai al mio primissimo star party organizzato proprio dai ragazzi dell’EITSA sul monte Panarotta e lì scoprii davvero la differenza di un buon cielo rispetto a dove riprendo abitualmente.

La passione si è sempre fatta più forte in me e decisi di fare il grande salto verso sensori più performanti, ma in un momento di trasizione forte come questo è stato arduo scegliere tra sensore CCD oppure CMOS.

Ad oggi, a distanza di un anno, parecchie ore di sonno in meno e tanti sacrifici ecco il mio setup (spero) definitivo:

Montatura: Skywatcher AZEQ6 GT
Camera: Zwo ASI1600MM-C
Filtri: ZWO LRGB – HAlfa 7nm – SII 7nm – OIII 7nm
Guida: QHY5-LII su OAG TS-Optics Off-Axis Guider TSOAG9
Telescopio: TS Photoline Triplet FPL-53 Super Apo – 80mm aperture / 480mm focal length (f/6)
Tecnosky Rifrattore ApoTripletto 115/800 V2
Riduttore/Spianatore: TS-Optics PHOTOLINE 2″ 0,79x Reducer 4-element for Astrophotography
Spianatore: TS-Optics PHOTOLINE 2″ 1.0x Flattener for Refractors and Apos

Il luogo delle mie riprese è per il 99% il terrazzo di casa mia, in provincia di Pavia, ad una trentina di minuti a sud di Milano, da qui il mio uso smodato dei filtri narrowband che permettono la ripresa di soggetti deboli con buoni risultati.

In alternativa, lavoro e famiglia permettendo mi sposto sulle colline dell’oltrepò, a meno di un’ora da casa dove il cielo raggiunge un SQM di 21.

Ma le serate più belle restano quelle trascorse in Trentino, in compagnia di Andrea, Silvano, Roberto, Simone e tutto il fantastico gruppo EITSA a cui sono molto affezionato!

Ancora sulla spettroscopia di base

Lo abbiamo visto insieme qualche tempo fa: la spettroscopia sta iniziando a diventare una attività molto apprezzata dagli astrofili!

Certamente questo è dovuto alla maggior disponibilità di strumenti di qualità a un prezzo abbordabile (camere CCD mono di buona fascia e filtri per spettroscopia, come gli Star Analyzer) ma anche al crescente interesse degli astrofili verso il sottile, ma netto, confine che divide ricerca scientifica (magari anche solo amatoriale) dalle osservazioni astronomiche fotovisuali tradizionali.

A mio parere questo cambiamento nasce da una sommatoria di fattori.

In parte, come appena visto, si tratta di precondizioni tecnico-strumentali, commerciali se si vuole, ma non credo che questo esaurisca il tutto….

A pesare, infatti, iniziano ad essere anche profili ulteriori, quali certamente quelli ambientali! La presenza di un IL sempre più invasivo sui cieli della nostra bella penisola, infatti, sta facendo emergere la necessità di ricercare qualcosa di più compatibile con l’astronomia dalla città, rispetto al tradizionale deepsky a colori. Un buon deepsky full-range richiede davvero cieli da paura, per essere fatto al meglio; e cieli come quelli, oramai, stanno diventando una rarità, non solo in Italia, ma un po’ in tutta Europa! Dimostrazione, in tal senso, di una ricerca da parte degli astrofili di qualcosa di differente e di più city-friendly, la si ha semplicemente guardando l’esplosione dell’imaging narrow band, avvenuta negli ultimi anni. Grazie a questa tecnica, è possibile da tempo ottenere grandi immagini anche sotto cieli pesantemente inquinati. E a costi, tutto sommato, ragionevoli…

Ma anche qui, qualcosa ancora pare sfuggire, a mio avviso. In parte, credo, a condurre verso delle scelte astronomiche un po’…border-line…è anche un fattore sociale e culturale. Mi spiego meglio: negli ultimi anni, proprio la grandissima diffusione dei CCD di qualità e dei filtri interferenziali a banda stretta ha permesso di effettuare riprese deepsky davvero pazzesche; del resto anche i software di elaborazione e acquisizione, sempre più potenti e accurati, se ben usati, permettono di ottenere con piccoli diametri immagini un tempo del tutto impensabili!!! Queste immagini, naturalmente, ottengono il giusto e meritato risalto sul web, correndo in punta di social network, e in una frazione di secondo, da un capo all’altro del mondo. Ecco, forse il nodo gordiano è proprio questo. Che è bello confrontarsi e misurarsi con gli altri, condividere e valutare i limiti delle proprie capacità, cercando di migliorarsi e di imparare sempre da chi ne sa di più; ma questo incredibile proliferare di immagini strepitose su internet, con risultati qualitativamente a volte davvero inavvicinabili per l’astrofilo comune, forse da un lato un po’ intimorisce, e fa sorgere il desiderio di praticare una astronomia un po’ più a passi lenti. Un po’ la versione astronomica dello slow-food, se vogliamo. Potremmo chiamarle osservazioni slow-sky…

Sia ben chiaro, di foto ne abbiamo fatte tantissime tutti, e siamo tutti fieri dei piccoli, medi e grandi risultati ottenuti: ma forse questi segnali di interesse verso il mondo dell’astronomia scientifica meritano di essere valorizzati più di altri. Proprio perché una foto può far moltissimo clamore, ma il picco di una riga di emissione….quello no….. E a mio personale avviso, quei pochi dati, salvati in un angolino del nostro stipatissimo hard disk, hanno un bellezza senza clamore. Ma eterna! Che perdurerà a dispetto delle innovazioni tecniche e tecnologiche che sicuramente il prossimo futuro ancora ci riserverà.

In conclusione, scrivo tutto questo per presentarvi quest’oggi un interessantissimo contributo, nel campo degli spettri, dell’amico Massimo Di Lazzaro, che ci illustra passi compiuti e i risultati ottenuti. Con la convinzione che questa sua esperienza da neofita, in crescita, della spettrofilia, unita ad altri contributi già pubblicati e ad altri ancora che verranno, possa permettere a tutti di assaggiare un pochino le sensazioni e le emozioni che questo peculiare modo di approcciarsi al cielo veicola.

E magari, chissà, faccia sorgere anche in qualcuno il desiderio di provare e di cimentarsi.

Buona lettura.

LUCA ZANCHETTA – TELESKOP SERVICE ITALIA


Spettroscopia amatoriale….una nuova avventura

Qualche mese fa ho cominciato ad interessarmi di spettroscopia, un mondo interessante, complesso forse, ma pieno di belle sorprese! Chi si sarebbe mai aspettato che da una semplice serie di riprese avrei potuto scoprire cosa si nasconde dentro a quel raggio di luce remoto, capire come è fatta e come si comporta una stella!!!

La curiosità si è accesa osservando qualcosa di semplice, bellissimo ma quasi banale, come un arcobaleno; mi sono sorpreso ad interrogarmi in dettaglio sulla esatta modalità con la quale si formano i colori, sulla natura di ciò che vediamo realmente, sul perché!

Avevo quindi bisogno di documentarmi, leggere un po’ di testi di fisica, apprendere il più possibile: in rete ho trovato moltissime informazioni, ed ho potuto studiare un po’ di astrofisica (l’ABC intendiamoci…) e iniziare da lì a capire che tipo di strumentazione mi sarebbe servita con esattezza! Un contributo essenziale mi è stato dato proprio qui, da TS Italia: mi hanno seguito e consigliato su tutto, dal telescopio più adatto allo scopo ed alle mie esigenze (un RC8”: uno strumento eccezionale, versatile e soprattutto pressoché privo di aberrazioni), compresa montatura (Neq6 Pro), camera CCD (QHY5LIII-178 monocromatica)…

Ecco qui a dire il vero è stato il difficile. Ho avuto diverse perplessità, perché non è così semplice, a livello pratico, capire da subito e in un ambito così particolare, quale è la camera più adatta! Anche in considerazione di un budget che non poteva essere illimitato…Nella fotografia tradizionale scegliere è abbastanza più semplice devo ammettere (sempre budget permettendo); ma qui l’esigenza era di una camera con dei requisiti davvero particolari. Ebbene, nella nuova QHY li ho trovati! Non è qui il caso di stare a descriverli nel dettaglio, per quelli basta andare sul sito di TS Italia e si trovano tutti… Però anche qui della scelta finale sono soddisfatto!

Poi, la vera grande scelta: spettroscopio o Star Analyzer 100? La scelta è stata facile: SA100! Un reticolo di diffrazione semplice da usare, che si avvita direttamente sulla camera e in grado di restituire da subito lo spettro della stella che si sta riprendendo. Certo, è a bassa risoluzione, quindi alcune cose sono precluse, ma per iniziare è davvero il massimo!!! Anche perché gli oggetti da poter riprendere sono ugualmente moltissimi.

Poi il software: anche qui la scelta è stata dettata dalla facilità di utilizzo, in primis, ed ho scelto quindi R-Spec. Devo davvero spendere due parole su questo software: è molto completo e di facile utilizzo, grazie anche ai numerosi tutorial inseriti già nella barra degli strumenti; fantastico! Permette di salvare i profili all’interno del software, in apposite cartelle, così da essere sempre pronti quando si vuole ritrovarli, senza andare a spulciare manualmente nel PC. E sei hai bisogno di assistenza il progettista del software è sempre a disposizione! Ogni tanto gli scrivo, siamo rimasti in contatto, anche se ha sede in America, e sono davvero soddisfatto anche di questa scelta.

Ora non rimane che “andare a caccia di spettri” ed appena il tempo lo permette ne approfitto per recarmi al sito astronomico della mia associazione: il Gruppo Astrofili Galileo Galilei di Tarquinia per fare le prime acquisizioni spettroscopiche. Qui giunti, non resta che preparare il setup e riprendere; dopo aver ultimato la preparazione di tutto, ho cominciato con lo spettro di Sirio. L’alta risoluzione della QHY in questo mi ha aiutato tantissimo, e mi ha permesso di avere degli spettri di ottima qualità. Ho effettuato le riprese in formato video, per poi estrarre dal filmato i singoli frame più utili, e passare quindi ad analizzare ed elaborare il profilo della stella:

a

b

Quello si va qui ad analizzare, è l’idrogeno nelle sue varie lunghezze d’onda, che è ovviamente l’elemento principale di una stella. All’inizio è stato piuttosto complicato comprendere con esattezza come elaborare lo spettro poiché i tutorial, anche se molto intuitivi, erano comunque tutti in un inglese piuttosto tecnico! Con l’aiuto di alcuni amici, però, alla fine ce l’abbiamo fatta e la soddisfazione è stata davvero tanta! Sirio è la stella scelta per la calibrazione dello spettro di Betelgeuse, una supergigante rossa, cui ho dedicato molto più tempo: nuovamente, sono stato soddisfatto dei risultati ottenuti! Nelle due immagini a seguire, vediamo lo spettro calibrato in lunghezza d’onda e poi il profilo finale.

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d

Ho preso sempre più confidenza con il software e dopo aver passato in rassegna le due stelle più belle dell’inverno sono passato a quelle estive: cominciamo quindi con Vega, bellissima stella nella costellazione della Lira. Anche qui spettro calibrato in lunghezza d’onda e profilo finale.

e

f

Tutte queste sono ovviamente stelle piuttosto facili da analizzare: Sirio e Vega sono di classe spettrale A e Betelgeuse è di classe spettrale M. Sono quindi stelle alla portata di tutti!

Non appena avrò maturato abbastanza esperienza, passerò certamente ad altri e più impegnativi obiettivi, come le stelle Wolf-Rayet e le supernove…

Per me il viaggio è appena incominciato: ho in programma numerosi spettri da riprendere ed elaborare, e spero di poterveli mostrare il prima possibile.
A presto
Massimo Di Lazzaro

 

Appunti di spettroscopia, qualche risultato

Negli ultimi tempi i contributi su questo blog sono fioccati, con risultati davvero notevoli ed articoli di assoluto rilievo! Dai contributi del nostro eccellente Daniele Gasparri a quelli di profilo scientifico di Albino Carbognani: non ci siamo davvero fatti mancare nulla. O quasi….

In effetti, ci abbiamo pensato un po’ su, ma tra la grande divulgazione tecnica e i profili scientifici più alti qualcosina, ancora, mancava… Mancava il contributo di astrofili comuni, astrofili come noi, magari molto specializzati! Contributi di profilo tecnico, con un taglio operativo, ma sempre con uno sguardo, una strizzata d’occhio, al mondo scientifico. Ad avviso di chi scrive, interventi come quello che vi sto introducendo, dovrebbero rappresentare, specie in tempi in cui è molto ampia la possibilità di accesso e di condivisione paritaria delle informazioni, un vero riferimento per tutti gli astrofili, e forse indicare quello che si potrebbe considerare come il solo, vero obiettivo tecnico finale, per una ampia parte degli astrofili amatoriali: fornire un proprio, personale, preziosissimo ed apprezzatissimo contributo alla ricerca scientifica! Naturalmente, ciò non può che riguardare soprattutto e in particolare gli astrofili con un po’ più esperienza alle spalle, ma senza escludere mai nessuno.

Certo, i contributi di profilo scientifico vengono spesso forniti in silenzio, senza clamori, senza luci della ribalta, e forse anche per ciò finiscono con l’essere interesse solo di pochi. Non fanno sgranare gli occhi ai bambini, alla vista di tutti quei colori. E non sono comprensibili direttamente ad una vasta platea di uditori generalisti. Ma sono proprio questi contributi a rendere il maggior servizio alla scienza e a far progredire DAVVERO il sapere umano!

Passo quindi a presentarvi, quest’oggi, il contributo di un grande astrofilo, oltre che di un grande amico e di un vero e proprio vulcano di idee, risorse ed ingegno: Claudio Balcon. Nel ringraziarlo personalmente, e a titolo di TS Italia tutta, per aver dedicato parte del suo, pur già ridotto, tempo libero per redigere questo articolo, mi limito a concludere rimarcando il fatto che, qui, si ha a che fare con una passione vera e profonda, di quelle che ci mostrano come la grandezza, per un astrofilo, non si misuri col portafogli, ma soprattutto con l’orologio, oltre che con la testa e con il cuore!

Grazie Claudio!

Buona lettura.

 

LUCA ZANCHETTA – TELESKOP SERVICE ITALIA

 

 


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Innanzitutto una piccola introduzione di storia della spettroscopia. A dispetto di quanto si potrebbe pensare, la spettroscopia ha avuto inizio molto molto tempo fa, fin dai tempi di Tolomeo, o addirittura prima: nonostante l’altissimo valore del contributo dato da Tolomeo, infatti, non si può scordare che egli condusse i propri studi riprendendo il lavoro effettuato già molto prima di lui da Ipparco, il quale classificò le stelle non solo per intensità ma anche per colore, in particolare distinguendole tra bianche e rosse.

Tuttavia lo scopo di questo articolo è molto più attuale e richiede, quindi, un salto temporale in avanti di almeno un paio di millenni! Nel mondo contemporaneo non ci sono di certo difficoltà ad avere accesso ad articoli, lezioni universitarie, trattati di varia natura in tutti i campi della scienza. C’è una cosa però che in nessun caso riusciremo a trovare preconfezionata in forma digitale, ovvero l’emozione! La scarica di adrenalina pura che ti investe quando sei proprio tu, di persona, quello che ha conseguito un risultato tecnico e scientifico che fino a prima ti sembrava impossibile; e che magari è anche una prima volta, in termini di risultato, dal punto di vista scientifico.

Quando guardiamo un oggetto scarsamente luminoso, il nostro occhio non riesce a percepirne i colori, in quanto attiva dei recettori a maggior sensibilità in grado di discernere solamente vari livelli di grigio. Se osserviamo la nebulosa di Orione con un binocolo o un piccolo telescopio, ad esempio, notiamo solamente un chiarore blu-verde, ben lontano dalle complesse dominanti cromatiche che emergono nelle immagini fotografiche più profonde che libri, riviste e internet ci offrono a pioggia; immagini che forse, in prima battuta, da neofiti, anche noi speravamo di vedere, immergendoci nel tripudio di una molteplicità di brillanti colori.

L’avvento della pellicola fotografica prima, e della camera CCD/CMOS poi, ci ha consentito, tuttavia, di arrivare laddove il nostro occhio non può assolutamente arrivare. I sensori elettronici a colori consentono di ottenere tre immagini nelle bande di colore rosso, verde e blu (RGB) che, una volta composte, riproducono la gamma cromatica tipica della nostra capacità visiva. I vantaggi di questi dispositivi sono molteplici: dalla possibilità di poter impostare tempi di esposizione enormemente superiori al tempo equivalente alla nostra capacità visiva, a quella di utilizzare una efficienza quantica fino a oltre 100 volte superiore a quella dell’occhio e persino a quella della pellicola fotografica. Fra i sensori a colori, tuttavia, non esiste di fatto uno standard rigoroso per quanto riguarda la curva di risposta delle bande RGB, ed è pertanto difficile confrontare misure fotometriche riprese con camere a colori diverse tra loro.

A differenza dei micro-filtri RGB integrati, nonché dei tradizionali kit RGB di filtri in cella ad uso ritrattistico, quelli fotometrici UBVRI sono normalizzati e consentono di ottenere misure calibrate secondo standard riconosciuti in ambito scientifico mondiale. Naturalmente la standardizzazione di questi filtri pone anche dei limiti: qualora volessimo, infatti, aumentare la risoluzione spettrale sarebbe necessario incrementare il numero di filtri con bande passanti più strette e contigue. Il vantaggio di questo sistema, anche se crea qualche lineamento di complessità in fase di ripresa, è quello di coprire tutta l’area geometrica del sensore, consentendo quindi di analizzare più soggetti contemporaneamente, ma in questo caso ciò va a scapito nuovamente della praticità operativa, in quanto diventa necessario provvedere a realizzare un numero elevato di pose per ciascun campo inquadrato.

Prendendo in considerazione, ad esempio, dei filtri dotati di una banda da 1nm, e volendo coprire tutto lo spettro del visibile, sarebbero necessari centinaia e centinaia di filtri, per ciascuno dei quali diventa indispensabile effettuare altrettante riprese. Questa strada, perciò, risulta essere una decisamente improponibile…

Per avere risoluzioni spettrali superiori a quelle ottenibili con i filtri fotometrici si utilizzano quindi gli spettroscopi. Le caratteristiche di questi strumenti, come quelle dei telescopi ai quali sono collegati, dipendono fortemente dagli obiettivi che si vogliono raggiungere, ad esempio: classificazione spettrale delle stelle, misura della velocità di rotazione delle galassie, analisi chimica delle nubi interstellari, ricerca di pianeti extrasolari o altro ancora.

Personalmente ho scelto di operare nel campo della spettroscopia a bassa risoluzione. La strumentazione che utilizzo è quindi composta da un telescopio Newton da 8” F5, da un acromatico 80/400 di guida, da uno spettroscopio, da una camera di guida CMOS e una camera di ripresa CCD di buona qualità.

Lo spettroscopio è composto da una fenditura regolabile, da un collimatore da 32mm di focale, da un reticolo di diffrazione a trasmissione da 100 righe/mm, rimovibile dal percorso ottico, e da un obbiettivo da 32mm.

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Figura 1

 

Con il reticolo rimosso, agendo sulla fenditura, si agisce selezionando l’oggetto da analizzare; per essere più precisi, più che di fenditura dovremmo parlare di una “maschera” poiché, data la corta focale del telescopio, una fenditura propriamente detta non dovrebbe essere più ampia di pochi micron: risulta quindi evidente che mantenere un soggetto, spesso dotato di una luminosità superficiale molto debole, perfettamente centrato su una fenditura propriamente detta per i lunghi tempi necessari ad effettuare una acquisizione di segnale di valore, non è cosa semplice… Pertanto, al suo posto, una più semplice “maschera” viene impiegata, al solo ed esclusivo scopo di evitare la presenza di stelle luminose e di disturbo laddove si andrà poi a disperdere lo spettro.

La figura 1, di cui sopra, è stata ripresa durante la fase di iniziale aggiustamento della posizione delle lame della fenditura, per centrare il nucleo di due galassie (NGC7319 e NGC7320) appartenenti al famoso quintetto di Stephan.

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Figura 2

 

La figura 2 è stata ottenuta con la stessa strumentazione, ma senza l’interposizione dello spettroscopio, con un tempo di integrazione di circa due ore. La larghezza della maschera, simulata con il rettangolo rosso, è di circa quindici pixel, approssimativamente cinque volte il valore del FWHM delle stelle presenti.

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Figura 3

 

La figura 3, rappresenta lo spettro ottenuto con circa novanta minuti di integrazione, chiaramente risultante dall’interposizione del reticolo di diffrazione tra OTA e camera di ripresa. Per allineare le immagini, realizzate con pose da cinque minuti, è stata utilizzata una stella presente all’interno della fenditura e visibile nell’ordine zero dello spettro. Le righe verticali sono dovute all’atmosfera terrestre, generate prevalentemente dalle lampade dell’illuminazione pubblica. Le righe orizzontali sono gli spettri degli oggetti selezionati.

In particolare, il riquadro individuato con la lettera A, evidenzia lo spettro della galassia NGC7319, mentre quello indicato con la lettera B individua quello relativo alla galassia NGC7320. Le altre righe orizzontali sono spettri di stelle appartenenti alla nostra galassia. La galassia NCG7319 presenta delle intense righe di emissione, evidenziate nella foto con le frecce, caratteristica che contraddistingue la presenza di un nucleo attivo: si tratta quindi di una galassia di tipo Seyfert.

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Figura 4

 

Il grafico della figura 4 è stato ottenuto elaborando la figura 3, togliendo il contributo del cielo e, successivamente, tarando la sola dispersione. Per effettuare la taratura è stata presa come riferimento una stella di classe A, nel caso specifico Vega, che è caratterizzata da righe di assorbimento dell’idrogeno ben evidenti. In verde sono riportate le righe di emissione di alcuni elementi in quiete e le barrette orizzontali evidenziano lo spostamento verso il rosso della NGC7319. La velocità di allontanamento indicativamente risulta essere di 6700km/s. Il segnale disperso dello spettro della galassia NGC7320 è basso e rumoroso e non presenta righe che emergono dal continuo.

La spettroscopia a bassa risoluzione di oggetti deboli, effettuata con piccoli telescopi, può fornire informazioni scientificamente di grande interesse, qualora la dispersione del poco segnale raccolto sia in buona parte concentrata in poche righe di emissione.

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Figura 5

 

La figura 5 è stata ottenuta con una integrazione di dieci minuti ed è relativa al quasar 3C273. Rispetto alla figura 3, la mascheratura qui utilizzata è stata più larga e, come conseguenza, la risoluzione spettrale del fondo cielo è risultata un po’ meno definita. La risoluzione limitata dalla maschera di soggetti estesi è indipendente dal seeing, mentre quella relativa a soggetti puntiformi è direttamente condizionata dal seeing e dagli errori di inseguimento.

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Figura 6

 

La figura 6 è stata ottenuta eliminando dalla figura 5 il fondo cielo e tarando lo spettro sia in dispersione che in ampiezza. Per eseguire le tarature è stata utilizzata la stella Denebola. Le prime tre righe della serie di Balmer dell’idrogeno sono particolarmente intense rispetto alle altre e risultano spostate verso il rosso. La velocità di allontanamento è di poco inferiore al 16% della velocità della luce, che corrisponde, secondo la legge di Hubble, ad una distanza di oltre 2 miliardi di anni luce.

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Figura 7

 

La notte del 22 dicembre scorso, nella galassia CGCG58-57 è stata segnalata una probabile supernova di magnitudine 16,4 da parte del ASAS-SN, denominata AT2016izg. La sera del 23 dicembre ho deciso di verificare le modifiche che avevo apportato allo spettroscopio, puntando proprio quella probabile supernova. La figura 7 è la ripresa effettuata con circa un’ora di posa; le barrette rosse evidenziano la supernova in questione.
La sera stessa ho estratto lo spettro della SN e, dopo aver eseguito le necessarie tarature in dispersione ed ampiezza, ho osservato un profilo che avevo già visto altrove: si poteva riconoscere l’ampia e profonda banda di assorbimento del silicio. Successivamente mi sono collegato a “GELATO”, ho caricato il file dello spettro della probabile supernova e dopo pochi secondi è comparso l’esito dell’analisi: supernova Ia, al 100%.

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Figura 8

 

La figura 8 è stata scarica da “GELATO”. Qualche giorno dopo è arrivata la conferma ufficiale con ATEL 9904 da parte del Mayall/KOSMOS che si trattava proprio di una supernova tipo Ia.

Questa è solo una piccola panoramica di risultati ottenibili con strumentazione amatoriale ed uno spettroscopio fatto in casa. L’emozione provata in quell’istante, ovviamente, è il vero motore di tutto, è quell’emozione di cui accennavo all’inizio, ed è ciò che sprona uno spettrofilo a portare avanti le sue ricerche, migliorando la propria strumentazione e migliorandosi sempre!

Fotografiamo la superficie di Venere!

Venere sta dominando queste serate di fine inverno e dominerà le albe di tutta la primavera, quindi non possiamo non parlare di questo faro del cielo. Non sarà però il solito post che ci insegna a osservare le solite fasi di Venere, anzi, tutt’altro!

Il nostro gemello, con dimensioni e massa molto simili, è in realtà una vera e propria Nemesi: l’atmosfera è decine di volte più densa, composta quasi per intero da anidride carbonica e con minacciose nuvole di acido solforico. Sulla superficie la temperatura, di giorno come di notte, ai poli come all’equatore, è stabile, da chissà quanto tempo, allo stratosferico valore di +460°C. Venere è un forno inospitale per qualsiasi forma di vita e per di più la sua superficie è del tutto nascosta alla nostra vista da chilometri di nuvole che non lasciano mai neanche uno spiraglio ai nostri telescopi.

Per centinaia di anni dopo l’invenzione del telescopio, nessun essere umano è riuscito a capire cosa si nascondesse sotto le nuvole venusiane, fino a quando negli anni ‘60 le prime sonde sovietiche giunsero sull’inospitale superficie.

La mappatura completa di Venere è stata effettuata dalla sonda Magellano che negli anni ’80, grazie a un radar, ha composto la prima mappa geologica e altimetrica del pianeta. Anche se noi non lo possiamo vedere, Venere ha crateri da impatto, montagne, pianure, colline, scarpate e valli. Ma siamo sicuri che non ci sia alcun modo per sbirciare la superficie venusiana senza dover friggere a bordo di un’improbabile astronave che tenta di superare quelle fitte nuvole? La Natura in questo caso ci dà una grossa mano.

La superficie di Venere, a causa dell’enorme temperatura, emette radiazione elettromagnetica, proprio come un pezzo di ferro rovente. Con un picco verso i 4 micron ma una coda di emissione che arriva anche a 800 nm, questa radiazione termica riesce a uscire in parte dalla spessa atmosfera. Attorno alla lunghezza d’onda di 1000 nm (1 micron), infatti, l’atmosfera venusiana diventa trasparente e il calore della superficie può uscire nello spazio ed essere quindi osservato. La radiazione termica di Venere è molto più debole della luce solare riflessa dall’alta atmosfera ma se ci concentriamo sul lato non illuminato quando il pianeta mostra una fase molto sottile, allora l’impossibile diventa possibile.

Con un filtro infrarosso da un micron (1000 nm) e una camera planetaria, meglio se monocromatica, o una camera CCD per profondo cielo e un telescopio da almeno 15 cm su montatura motorizzata, è possibile fare una serie di fotografie a lunga esposizione, bruciando la falcetta di Venere e lasciando che la più debole radiazione termica del lato non illuminato venga alla luce. Non potremo mai osservarla all’oculare del telescopio perché i nostri occhi non sono sensibili agli infrarossi, ma abbiamo appena scritto la ricetta per una fotografia molto speciale.

La tecnica migliore prevede di acquisire immagini a una focale non troppo elevata, poiché si tratta a tutti gli effetti di una ripresa deep-sky e non più in alta risoluzione. Focali comprese tra i 2 e i 3 metri sono ottime per questo scopo. Dobbiamo aumentare l’esposizione e/o il guadagno, senza curarci della luminosità della parte illuminata.
La magnitudine superficiale del lato non illuminato è di circa 12 su ogni secondo d’arco quadrato, circa come quella del pianeta Nettuno e molto più alta di ogni oggetto del profondo cielo. Sebbene quindi si possa osservare la debole radiazione anche con tempi di posa brevi, di circa 0,2 secondi, per avere un ottimo segnale è meglio fare tante esposizioni con tempi compresi tra 2 e 5 secondi. Se la montatura è ben stazionata al polo non si avranno neanche problemi di inseguimento. Più frame si acquisiscono e meglio è, tanto non ci sono problemi di rotazione del pianeta. L’unica limitazione è rappresentata dal fatto che è necessario fare una ripresa del genere con il Sole tramontato e con il fondo cielo scuro.

Luce cinerea? Sì, ma di Venere e non è riflessa!

Luce cinerea? Sì, ma di Venere e non è riflessa!

Se siamo bravi e pazienti e magari disponiamo di una camera CCD per le riprese del profondo cielo, oltre al suggestivo chiarore della parte non illuminata, che renderà Venere simile alla luce cinerea lunare, potremo mettere in evidenza anche strutture superficiali. Il principio è semplice: le montagne e gli altopiani avranno temperature minori rispetto alle valli e alle grandi pianure, quindi emetteranno meno radiazione termica.

In effetti, con esposizioni lunghe, telescopi da almeno 15 centimetri, una fase della parte non illuminata inferiore al 25%, un cielo ormai scuro e acquisendo qualche centinaio di frame, è possibile mostrare la traccia inequivocabile di dettagli superficiali. Questa è una piccola rivoluzione per noi: con la nostra strumentazione possiamo fotografare la superficie di Venere, in barba a tutti quei tossici e infernali strati nuvolosi!

Non ci credete? E allora osservate questa foto che ritrae i principali dettagli superficiali, che ho composto con le immagini ottenute nel 2009 e il 18-19 febbraio scorsi. Questo è l’aspetto del nostro pianeta gemello e questo è quello che si potrà vedere da qui a pochi giorni prima della congiunzione con il Sole del 23 Marzo. Ma poi, all’alba, i giochi potranno ricominciare di nuovo e almeno fino alla metà di maggio potremo ancora cacciare questa elusiva “luce cinerea” venusiana con i nostri strumenti. Non lasciamoci sfuggire questa ghiotta occasione, altrimenti dovremo aspettare più di un anno per riprovare l’impresa!

Dettagli superficiali di Venere

Dettagli superficiali di Venere

 

Campionamento e focale equivalente nella fotografia astronomica

Nelle osservazioni visuali le immagini vengono ingrandite attraverso gli oculari. Nella fotografia astronomica non ha più senso parlare di ingrandimento, perché al posto dell’occhio si inserisce un sensore digitale senza obiettivo e l’immagine, a rigor di logica, non viene ingrandita. In questi casi si parla di scala dell’immagine o campionamento, le grandezze che determinano “l’ingrandimento” delle immagini digitali.

Il campionamento, o scala dell’immagine, rappresenta la dimensione angolare di cielo che riesce a riprendere un singolo pixel del sensore. Quindi, questo determina anche il più piccolo dettaglio che è possibile, in teoria, risolvere. Una scala dell’immagine di 2”/pix (secondi d’arco su pixel) indica che ogni pixel inquadra una porzione di cielo con lato di 2”. Poiché i pixel sono i punti che formeranno l’immagine digitale, tutto quello che ha dimensioni inferiori a 2” non sarà mai risolto dal sensore. Questo prescinde dalla turbolenza atmosferica e da diametro dello strumento e rappresenta una specie di potenziale. È infatti certo che un’ipotetica scala dell’immagine di 40”/pixel non risolverà mai delle strutture di galassie o nebulose inferiori a questo valore. D’altra parte non è detto, anzi, non è proprio possibile dai nostri cieli, che un campionamento di 0,5”/pixel riesca a mostrarci dettagli di questa dimensione angolare perché saranno rovinati dalla turbolenza atmosferica, anche se usassimo un telescopio in grado di mostrarceli. Il campionamento, quindi, non determina direttamente la risoluzione dell’immagine ma ci permette di capire parametri fondamentali come il campo di ripresa che si ha con una certa accoppiata telescopio – sensore, quindi dà indicazioni su quali soggetti possiamo riprendere al meglio e se saremo limitati o meno dalla turbolenza atmosferica.

Calcolare il campionamento di un’immagine è facile utilizzando la seguente formula:

C = (Dp /F) x 206265,

dove C = campionamento (in secondi d’arco su pixel) , Dp = dimensioni dei pixel del sensore utilizzato e F = focale del telescopio. Dp e F devono avere le stesse unità di misura; 206265 è il fattore di conversione tra radianti e secondi d’arco. Di solito le dimensioni dei pixel sono espresse in micron, mentre quelle della focale in millimetri. Niente paura: un micron corrisponde a 0,001 millimetri.

 

Campionamento ideale nelle fotografie a lunga esposizione

Un principio, detto criterio di Nyquist, applicato al campo ottico afferma che per sfruttare una determinata risoluzione occorre che il più piccolo dettaglio visibile cada almeno su due pixel adiacenti. Se consideriamo che nel mondo reale è meglio se il più piccolo dettaglio risolvibile cada su almeno 3 pixel, possiamo giungere a importanti conclusioni su quale possa essere il massimo campionamento efficace nella fotografia a lunga esposizione. Se la risoluzione massima a cui possiamo ambire è determinata dalla turbolenza media ed è intorno ai 2,5-3”, a prescindere dal diametro del telescopio, significa che le scale dell’immagine più basse che possiamo usare prima di avere l’effetto delle stelle a pallone e dettagli sempre sfocati sono dell’ordine di 0,8”-1”/pixel. Nelle condizioni medie, di fatto non conviene quasi mai lavorare con scale più piccole di 1”-1,5”/pixel.

L’effetto più grave di quello che si chiama sottocampionamento, cioè lavorare con scale più grandi, è mostrare stelle così piccole che potrebbero diventare quadrate, perché questa è la forma dei pixel, ma d’altra parte avremo sempre dettagli degli oggetti estesi ben definiti e contrastati, con una profondità in termini di magnitudine ancora ottima. L’effetto di un sovracampionamento, cioè di una scala dell’immagine più bassa di quella limite, è quello di restituire stelle sempre molto grandi e dettagli degli oggetti estesi sfocati e indistinti. Come se non bastasse, un sovracampionamento produce anche una perdita, a volte notevole, di profondità perché la luce si espande su più pixel invece di venir concentrata in una piccola area. Il mio consiglio, quindi, è di non esagerare con la scala dell’immagine e di preferire immagini “meno ingrandite” ma più definite a improbabili zoom che mostrerebbero nient’altro che un campo confuso e molto rumoroso. Questo ragionamento vale sia per le riprese telescopiche, in cui si dà per scontato che il seeing sia il limite alla risoluzione rispetto al diametro dello strumento, che per le fotografie attraverso obiettivi e teleobiettivi, in cui il limite deriva dal potere risolutivo dell’ottica.

Conoscendo il campionamento e il numero di pixel dei lati del sensore, possiamo subito comprendere quanto sarà grande il nostro campo di ripresa e capiremo se sarà possibile riprendere al meglio un’estesa nebulosa o una debole galassia.

Districandosi in questa specie di giungla, potremo costruire un setup più specifico per la tipologia di oggetti che più ci piace. A livello generale e personale, finché useremo delle semplici reflex digitali non vale la pena farsi troppi conti perché tanto per queste non c’è molta scelta a livello di dimensioni dei pixel e del formato del sensore. Quando invece parliamo di CCD (o CMOS) astronomici, che dobbiamo scegliere con molta attenzione, il campionamento che otterremo con il nostro setup rappresenta il punto più importante per la scelta. Sarà infatti inutile, e frustrante, usare un sensore con pixel di 5 micron su un telescopio Schmidt-Cassegrain da 1,5-2 metri di focale, che ci darà un campionamento di 0,70-0,50”/pix e potrebbe venir sfruttato in pieno solo dal deserto di Atacama. Nelle nostre località otterremo sempre stelle a “pallone” e oggetti diffusi molto deboli e rumorosi, tanto da richiedere ore e ore di integrazione per mostrare dettagli interessanti. Un risultato simile si sarebbe ottenuto con una scala dell’immagine anche tre volte superiore e un tempo di integrazione totale dalle 4 alle 9 volte inferiore.

Avere pixel molto piccoli comporta anche una perdita di sensibilità e dinamica, perché un pixel più piccolo raccoglie meno luce e può contenere molti meno elettroni di uno più grande, con la conseguenza che il range dinamico del sensore si può ridurre anche di 5 volte tra pixel da 5,6 micron e da 9 micron. Poiché un sensore astronomico è qualcosa che dovrebbe durare per molti anni e le serate buone si possono contare in un anno sulle dita di due mani, è meglio sceglierne uno che si accoppi in modo perfetto al nostro telescopio. Se ci piacciono primi piani di galassie è meglio ingrandire le immagini in elaborazione che lavorare a una scala piccolissima.

 

Campionamento ideale nell’imaging in alta risoluzione

Quando parliamo di fotografia in alta risoluzione le cose cambiano drasticamente perché, grazie a pose molto brevi e un enorme numero di frame catturati, possiamo sperare di abbattere il muro eretto dalla turbolenza atmosferica media e spingerci verso la risoluzione teorica dello strumento, fino a un limite di circa 0,3” nelle zone più favorevoli e nelle migliori serate. Quando il seeing collabora, quindi, possiamo impostare la scala dell’immagine sui limiti di risoluzione teorica dello strumento che stiamo utilizzando. Una buona relazione per determinare la risoluzione alle lunghezze d’onda visibili è quella di Dawes:

PR = 120/D

Dove PR = potere risolutivo, in secondi d’arco, e D = diametro del telescopio espresso in millimetri.

Come già detto, affinché il sensore sia in grado di vedere questa risoluzione occorre che questa cada su 3-4 pixel: né molto più, né molto meno. In queste circostanze, allora, il nostro obiettivo sarà quello di lavorare a cavallo del campionamento ottimale, che può essere espresso dalla semplice formula:

Cott= 37/D

Dove D = diametro del telescopio espresso in millimetri e Cott = campionamento ottimale, espresso in secondi d’arco su pixel. Come possiamo vedere dal confronto con la formula di Dawes, cambia di fatto solo il coefficiente numerico, che è inferiore di poco più di tre volte, proprio come abbiamo detto con le parole. Il valore ottenuto, come quello della formula di Dawes, rappresenta un punto di riferimento alle lunghezze d’onda visibili e non un numero da rispettare in modo rigoroso. Scostamenti del 10-20% sono ancora accettabili e, anzi, incoraggiati, poiché ogni sensore, telescopio e soggetto possono preferire valori leggermente diversi dalla semplice teoria con cui abbiamo ottenuto questi.

I valori che raggiungiamo sono tutti piuttosto piccoli ed ecco spiegato il motivo per cui nell’imaging planetario è preferibile usare sensori con pixel di dimensioni ridotte, tra i 3 e i 7 micron al massimo: l’opposto di quanto si preferisce fare nella fotografia a lunga esposizione.

Nonostante questo, i rapporti focale tipici si aggirano tra f20-22 (per pixel da 3,7 micron) e f 30-35 (per pixel da 5,6 micron) e si rende necessario inserire oculari o lenti di Barlow per aumentare la focale nativa del telescopio. Invece di fare complicati calcoli sul rapporto focale raggiunto con un certo oculare o Barlow, per capire a quale campionamento reale si sta operando il modo migliore è fare dei test riprendendo un pianeta, ad esempio Giove. Misurando l’estensione in pixel e confrontandola con il diametro apparente che si può leggere da ogni software di simulazione del cielo, possiamo trovare il campionamento reale della ripresa applicando questa formula:

Ccalc = dang/dlin

Dove dang  sono le dimensioni angolari (in secondi d’arco) e dlin  il diametro misurato dell’immagine, espresso in pixel. Il campionamento restituito sarà in secondi d’arco su pixel. A questo punto la focale con cui è stata fatta la ripresa sarà:

Feq = (Dp/ C) x 206265

Dove Dp  sono le dimensioni dei pixel del sensore, espresse in millimetri e C il campionamento (calcolato sull’immagine o stimato, non cambia). La focale restituita sarà in millimetri. Il rapporto focale sarà dato dalla semplice relazione Feq / D, con D = diametro del telescopio, in millimetri. Queste formule sono valide in generale, quindi anche per le riprese del profondo cielo.

Anche in questa circostanza, avere a disposizione miliardi di pixel è dannoso, e molto più rispetto alla fotografia del profondo cielo (in cui il danno principale è l’esigenza di avere telescopi dall’enorme capo corretto, quindi molto costosi). Poiché il campionamento ideale è fissato e i pianeti hanno dimensioni angolari ridotte, per ottenere ottime immagini non potremo avere, ad esempio, Giove esteso per 4 milioni di pixel. Il sovracampionamento nell’imaging in alta risoluzione è distruttivo e sarebbe sempre da evitare, molto più che nella fotografia a lunga esposizione nella quale, almeno, possiamo sperare di allungare il tempo di integrazione per sopperire in parte al danno che abbiamo fatto.

Nella fotografia in alta risoluzione “ingrandire” troppo l’immagine ci allontanerà sempre da un risultato ottimo. Anche se all’inizio potrebbe sembrare che ottenere delle “pizze” ingrandite a dismisura possa essere entusiasmante, in barba ai teorici del campionamento ideale, stiamo osservando un risultato che è sempre peggiore rispetto a quanto avremmo ottenuto con “l’ingrandimento” giusto. Non è un’opinione, è un fatto e anche se non piace non si può cambiare.

Se i pianeti saranno estesi al massimo qualche centinaio di pixel (se abbiamo strumenti oltre i 20 cm), che ce ne facciamo di un sensore che ne possiede diversi milioni? Niente, a meno che non ci vogliamo dedicare espressamente a panorami lunari, ma anche in queste circostanze ci sono comunque dei limiti. Usare sensori con più di 2-3 milioni di pixel per fare imaging in alta risoluzione non è una buona soluzione perché si riduce di molto il framerate, cioè la frequenza con cui si acquisiscono le immagini, che in alta risoluzione è fondamentale avere almeno a 15-20 frame al secondo (fps).

La calibrazione delle immagini digitali

Per fare ottime fotografie a lunga esposizione degli oggetti del cielo profondo servono pochi ingredienti ma ben amalgamati: 1) Un cielo ottimo lontano dalle luci della città, 2) Una montatura equatoriale precisa che possa fare anche autoguida, 3) Una camera digitale, 4) Una buona tecnica di ripresa. In questa ricetta non trova posto l’elaborazione e non è un caso, perché una buona tecnica di elaborazione si impara con il tempo e può solo far uscire al meglio tutto il segnale raccolto durante la fase di acquisizione. Se non abbiamo fatto tutto per bene potremmo essere anche i maghi di Photoshop ma dai nostri scatti non uscirà niente di buono.

Una delle fasi più importanti della fotografia astronomica a lunga esposizione (quindi no imaging planetario) è la cosiddetta calibrazione, una tecnica che prevede di acquisire due – tre set di particolari immagini che hanno il compito di correggere gli inevitabili difetti del sensore e del campo. Sono passaggi che si potrebbero fare anche in fase di elaborazione, si potrebbe pensare, ma non daranno mai e poi mai gli stessi risultati di frame di calibrazione genuini ottenuti sul campo. Volenti o nolenti dobbiamo imparare come ottenere questi scatti perché fanno parte integrante della tecnica di ripresa. Ecco allora quali sono i frame di calibrazione e le loro caratteristiche. In seguito vedremo come applicarli.

 

Dark frame: sono immagini ottenute con il CCD al buio, con la stessa sensibilità, temperatura e durata delle immagini del cielo (che chiameremo anche immagini di luce) e servono per eliminare parte del rumore, cosiddetto termico, che si ripete uguale da una foto all’altra, spesso come pixel più luminosi della media. Il rumore termico si riduce con l’abbassarsi della temperatura del sensore, ma non sparirà mai a meno di usare l’azoto liquido e arrivare ad almeno -100°C. I dark frame, quindi, vanno ripresi (quasi) sempre, anche se sembra che non ve ne sia bisogno. Ce ne potremo pentire quando vedremo comparire, sulle immagini di luce sommate, il temutissimo rumore a pioggia anche con CCD molto evolute. Se il sensore ha il controllo della temperatura possiamo riprendere i dark frame anche con calma a casa e creare una vera e propria libreria da rinnovare una volta l’anno, risparmiando quindi molto tempo. Con le reflex digitali, che non hanno il controllo di temperatura del sensore, fare i dark frame è difficile e creare una libreria impossibile, per questo motivo si potrebbero preferire altri frame di calibrazione.

Un master dark frame ottenuto con una camera CCD ST-2000XCM, temperatura di -10°C e 720 secondi di esposizione.

Un master dark frame ottenuto con una camera CCD ST-2000XCM, temperatura di -10°C e 720 secondi di esposizione.

 

Bias frame: sono immagini ottenute con la stessa sensibilità dei frame da calibrare e con tempo di esposizione pari a zero o comunque il più basso possibile, con il sensore al buio. Questi frame hanno lo scopo di catturare solo il rumore introdotto dall’elettronica del sensore. Possono sostituire i dark frame in quelle circostanze in cui a dominare non è il rumore termico ma quello elettronico (pose brevi, sensore raffreddato a oltre -30°C, riprese fatte con reflex senza controllo di temperatura).

Un master bias ottenuto mediando 50 frame. Da notare il confronto con il master dark precedente. ebbene nascoste dai pixel caldi, anche in quello sono presenti le colonne di pixel caldi tipici del rumore dell'elettronica. Questa è la prova che un dark frame contiene anche l'informazione catturata dai bias e che i due set di calibrazione sono complementari.

Un master bias ottenuto mediando 50 frame. Da notare il confronto con il master dark precedente. ebbene nascoste dai pixel caldi, anche in quello sono presenti le colonne di pixel caldi tipici del rumore dell’elettronica. Questa è la prova che un dark frame contiene anche l’informazione catturata dai bias e che i due set di calibrazione sono complementari.

 

Flat field: sono essenziali per ogni fotografia, a volte persino quando si fanno riprese in alta risoluzione di oggetti estesi come il Sole, o riprese a grande campo con obiettivi grandangolari. Pochi astrofotografi sono consapevoli della trasformazione che subisce la propria foto quando viene corretta con degli ottimi flat field. Di questi, comunque, ne abbiamo già parlato, quindi non mi dilungherò. Sono delle speciali immagini ottenute con la stessa configurazione di quelle che vogliamo calibrare, in cui si punta una sorgente di luminosità fissa e uniforme su tutto il campo. I flat field mappano la sensibilità del campo inquadrato, includendo la differente risposta dei pixel, vignettatura e polvere lungo il treno ottico. Non possono quindi essere ripresi con calma a casa perché necessitano dell’identica configurazione ottica delle immagini di luce, compresa messa a fuoco ed eventuali filtri. Un buon flat field si ottiene con la sensibilità al minimo e impostando un tempo di esposizione tale per cui il picco di luminosità nell’immagine cada a circa 1/3 della scala per le reflex, a ½ per le CCD senza antiblooming (25-30 mila ADU) e circa 1/7 (8000 ADU) per le camere CCD (e CMOS) dedicate all’imaging estetico, quindi con porta antiblooming. L’unico legame con le immagini di luce è la stessa configurazione ottica: esposizione, sensibilità e temperatura possono variare, anche se per le camere CCD dotate di otturatore meccanico è meglio esporre per almeno 4-5 secondi ed evitare di riprendere quindi parte dell’otturatore che si apre.

Master flat field ottenuto facendo la media di 37 scatti da 5 secondi calibrati con master bias. I flat field devono essere sempre calibrati con i relativi dark o con i bias.

Master flat field ottenuto facendo la media di 37 scatti da 5 secondi calibrati con master bias. I flat field devono essere sempre calibrati con i relativi dark o con i bias.

 

Come nel caso delle immagini di luce, non si acquisisce una sola esposizione per ogni set di calibrazione, piuttosto almeno 10, meglio 20 immagini per ogni categoria. Il numero dipende da noi e non ha alcun legame con la quantità di immagini da correggere. Questo è molto importante per non introdurre nuovo rumore nei frame che vogliamo calibrare. La media (o mediana, nel caso di dark e bias) dei frame di calibrazione va a comporre quello che si chiama master. Ogni singolo scatto di luce deve venir calibrato, prima che sia combinato, con i relativi master (dark e/o bias, flat). Anche i flat field, che sono speciali immagini di luce, devono venir calibrati, prima di essere mediati e creare il relativo master, con un master dark frame o master bias frame. Di solito a questo intricato intreccio ci pensa il software usato ma meglio essere consapevoli di quello che andrà a fare.

Come si usano i frame di calibrazione? Quali servono per le nostre esigenze? Ci sono diverse combinazioni possibili. Ecco quelle consigliate, anche se ognuno di noi può fare le prove che vuole.

 

  • Camera CCD raffreddata con controllo della temperatura, con pose di luce più lunghe di 5 minuti e flat field esposti per non più di 20 secondi.

In questa situazione la combinazione migliore è quella di acquisire tutti i frame di calibrazione. I dark frame correggeranno le immagini di luce e i bias frame correggeranno i flat field. Poi i flat field calibrati verranno mediati e il master flat verrà applicato alle immagini di luce a cui sarà stato sottratto il master dark. I dark frame contengono anche l’informazione dei bias frame, cioè il rumore dell’elettronica, quindi quando li sottraiamo stiamo togliendo anche il bias. Il bias frame può sostituire i dark frame su pose di breve durata come quelle tipiche dei flat field. In questo modo evitiamo di dover riprendere dei dark frame anche per correggere i flat e possiamo usare i bias che sono sempre uguali poiché non dipendono dalla durata dell’esposizione, né dalla temperatura;

  • Camera CCD raffreddata con controllo temperatura, pose di luce più lunghe di 5 minuti e flat field più lunghi di 3 minuti.

Un’eventualità del genere si verifica quando si fanno riprese in banda stretta. In questi casi è meglio lasciar perdere i bias e riprendere dark frame sia per le pose del cielo che per i flat field. I due set sono indipendenti perché legati alla temperatura e al tempo di posa delle rispettive immagini da correggere. Si correggeranno quindi i flat field con i relativi dark frame e le immagini di luce con gli altri, poi si applicherà il master flat field a ogni singola immagine di luce;

  • Camera CCD raffreddata con esposizioni più brevi di 3-5 minuti. In questi casi i dark frame possono essere superflui, se la camera lavora a temperature molto basse. Flat field e immagini di luce possono quindi venir calibrati solo con i bias frame.
  • Reflex digitale.
    In queste circostanze i dark frame potrebbero non essere la scelta migliore perché se la temperatura del sensore cambia, anche di un paio di gradi, i benefici saranno sostituiti dai danni. L’unico rimedio è riprendere sempre flat field e bias frame, in buone quantità, e affidarsi anche alla tecnica del dithering in fase di acquisizione delle immagini di luce, per evitare il rumore a pioggia tipico di queste situazioni.

Sembra tutto molto complicato ma in realtà non lo è, grazie anche ai software che ci evitano di dover creare noi stessi i file master. L’importante, comunque, è prendere mano con la tecnica di acquisizione perché una mancanza sul campo ci potrebbe far buttare l’intera sessione. Per capire come fare poi la calibrazione attraverso i programmi astronomici avremo tante, troppe, notti nuvolose per studiare, tanto i file acquisiti non scapperanno dal pc.