Collimazione facile e precisa di un Newton

Collimazione facile e precisa di un Newton

Nella grande panoramica dei telescopi, il Newton è da sempre considerato uno schema ottico che offre una buona apertura in rapporto al costo, grazie alla facilità nella costruzione, rispetto ad altri schemi (rifrattori, SC, etc).
Però la bestia nera della maggior parte degli astrofili è sempre lei: la collimazione.

“Il Newton è bello, tanta apertura, veloce anche in foto, universale, si, ma….”

Ma.
Ma collimiamolo facilmente! Da anni si legge su internet della collimazione dei newtoniani usando la barlow abbinata al collimatore laser. Personalmente ho sperimentato a fondo una combinazione delle 2 cose che vorrei proporvi, senza imbarcarsi in costosi collimatori dalle mille funzionalità, perché a volte si può avere molto con poco!

Setup usato:
Collimatore laser TSLA: http://www.teleskop-express.it/collimazione/226-tsla-ts-optics.html
Lente di barlow…qualsiasi! Io ne ho usata una molto economica: http://www.teleskop-express.it/barlow-e-riduttori/170-tsb21-ts-optics.html

Se poi proprio vogliamo giocarcela ancora meglio, sarebbe fantastico modificare il Newton con uno dei kit di collimazione Astronomy Expert ora disponibili per i GSO (in arrivo anche quelli Skywatcher a fine ottobre!)
http://www.teleskop-express.it/collimazione/2560-ae-collimation-tool-per-newton-gso-passo-metrico-astronomy-expert.html

collimatore per newton e barlow per collimazione telescopio newton

 

Step 1: collimazione del secondario

Iniziamo a collimare il secondario come sempre: inseriamo solo il laser nel focheggiatore e muoviamo le 3 vitine di regolazione del secondario, in modo portare il puntino rosso del laser al centro del bollino bianco incollato sul primario

collimazione_secondario_newton

Bene, ora siamo pronti per la collimazione del primario:

 

Step 2: collimazione del primario

Non tocchiamo il laser (assicuriamoci di averlo montato con la finestrella che guardi dalla nostra parte, mentre siamo posizionati sulla cella del primario) e dobbiamo operare come segue:

Sbloccare le viti di blocco del vostro newton, cella del primario (fare riferimento al manuale di istruzioni..o a noi!)
Portare il raggio laser verso il foro centrale di ritorno, come da immagini, usando le viti di collimazione della cella del primario (come prima, fare riferimento alle istruzioni o a noi per un aiuto)

collimazione_primario_1_newton

collimazione_primario_2_newton

A questo punto siete abbastanza collimati, ma non perfettamente, perché il laser ed i vari riduttori da 2” a 31,8mm hanno delle tolleranze meccaniche tra di loro che rendono la collimazione con il laser, sul primario, buona, ma non perfetta.

Raggiungiamo la perfezione!

 

Step 3: la collimazione fine del primario

Adesso rimuoviamo il laser e montiamo la nostra barlow sul telescopio, inserendo poi nuovamente il laser come se fosse un oculare. Accendiamo il laser e dovremmo vedere qualcosa di molto interessante.
La barlow ha l’effetto di “spalmare” il fascio del laser, che andando a proiettarsi sull’anellino bianco che va ad indicare il centro del primario, produce un’ombra. Essendo circolare il nostro bollino adesivo sul primario, il cerchio avrà anche un suo centro..ovviamente!
Guardate la figura: si vede la macchia del laser, con l’ombra del bollino del primario. Notate anche che al centro dell’ombra ci sono 3 cerchietti concentrici di diffrazione che vanno ad indicare il centro della nostra riflessione (se il bollino è posizionato bene è anche il centro del primario).

Dobbiamo portare questi cerchietti nel centro del foro di ritorno, usando le viti di collimazione del primario, in modo da avere una collimazione a prova di star test!

collimazione_primario_3_newton

notate come non è detto che l’ombra sia concentrica al foro, dalle mie esperienze ho potuto notare come è sempre meglio fare riferimento ai cerchietti centrali di diffrazione per ottenere un’ottima collimazione.

collimazione_primario_4_newton

Adesso facciamo la prova del nove, nel nostro caso posizionando il newton sul nostro banco ottico e..vediamo come va!

Come potete vedere dall’immagine, il telescopio è veramente molto ben collimato, semplicemente guardando il laser e le ombre di ritorno, senza andare ad impazzire con altri sistemi più o meno difficili o costosi.

collimazione_newton_star_test

ATTENZIONE: i giochi meccanici nella chiusura dei raccordi e del laser possono determinare un disassamento dello stesso con l’asse ottico del telescopio. Come potete vedere dalle immagini, nel newton di prova c’è un portaoculari classico con 2 viti di blocco. Con alcuni accorgimenti possiamo ottenere buoni risultati, senza dover andare ad adoperare dei sistemi di chiusura autocentranti (che avrebbero anche cattive ripercussioni sul backfocus disponibile).

Il riduttore da 2” a 31,8mm posizionatelo in modo che la vite vada tra le 2 del portaoculari da 2” del focheggiatore
Prima di serrare il riduttore da 31,8mm, con la mano, tenetelo per premuto sul portaoculari da 2” del focheggiatore, in modo da garantire la massima planarità
Quando inserire il laser e la barlow, il discorso è lo stesso: premeteli sempre nel portaoculari

Cosa succede se collimo bene, ma poi vedo che le figure di intra ed extra sono diverse? Avete il focheggiatore che non è montato in modo parallelo all’asse ottico!
Si può rimediare? Certamente, però è una bella rottura…soluzione? Semplice: se fate foto collimate con il focheggiatore in posizione di messa a fuoco, se fate visuale fatelo con il focheggiatore estratto nel punto di fuoco dato dall’oculare più potente che avete. In questo modo andate ad ottimizzare la collimazione nella posizione di fuoco durante l’utilizzo, avendo così la miglior resa possibile.

Se avete qualche domanda, dubbio, non esitate a scrivermi: rc@teleskop-express.it

I Newton odierni sono strumenti ottimi, che costano poco e possono dare tanto, usiamoli nel modo giusto!

Come, dove e quando ammirare le magnifiche aurore boreali

Da Settembre a inizio Aprile di ogni anno, per una nicchia di osservatori dell’emisfero boreale che vivono nei pressi del circolo polare artico, si apre la stagione più bella dell’anno, quella delle aurore boreali. Mentre alle medie latitudini dobbiamo fare i conti con la stagione delle piogge per antonomasia, l’autunno e l’inizio della primavera, o con le nebbie dell’inverno, c’è una parte del mondo e una crescente schiera di appassionati di cielo e Natura che attendono con ansia il periodo migliore per fare l’esperienza naturalistica più bella della propria vita. Questo post rappresenta una piccola guida per tutti coloro che almeno una volta nella vita vorranno ammirare lo spettacolo più bello e impressionante che potremo mai vedere su questo piccolo pianeta azzurro.

 

Cosa sono le aurore secondo la scienza

A livello prettamente fisico, le aurore polari sono delle chiazze di luce, tipicamente verde, che si mostrano nei cieli notturni a latitudini molto settentrionali (aurore boreali) o meridionali (aurore australi), estremamente variabili in forme, colori e intensità e che a volte possono diventare più luminose della Luna piena e muoversi con una rapidità pari a quella di un fulmine.

Alla base di questo particolare fenomeno ci sono due ingredienti: il Sole e il campo magnetico terrestre. Senza entrare in nozioni troppo tecniche, le aurore si producono quando le particelle cariche espulse dal Sole e chiamate vento solare vengono incanalate verso le regioni polari dalle linee del campo magnetico terrestre e arrivano a impattare con gli strati più alti della nostra atmosfera. Ogni volta che una particella di vento solare, che viaggia a diverse centinaia di chilometri al secondo(!), collide con un atomo o una molecola che compone la nostra aria (tipicamente ossigeno e azoto) strappa degli elettroni e ionizza l’atomo colpito. Circa un miliardesimo di secondo più tardi l’atomo riacquista l’elettrone perso e questa transizione fa emettere luce. Le aurore polari sono quindi il modo in cui gli atomi cercano di tornare al loro stato iniziale dopo essere stati letteralmente sconvolti da collisioni violentissime. Ma mai una ferita causata da una collisione a centinaia di migliaia di chilometri l’ora si manifesta con uno spettacolo tanto sublime. Sì, perché al di là della sterile spiegazione fisica, le aurore sono uno spettacolo che deve essere visto, anche se non si conosce la teoria di fondo; deve essere contemplato in rigoroso silenzio e mostrando un doveroso rispetto per la magnificenza della Natura, che si rivela a noi con un’eleganza senza eguali spesso proprio in risposta a eventi dall’enorme violenza.

Dinamica per la formazione delle aurore: alcune particelle cariche provenienti dal Sole riescono a penetrare il campo magnetico terrestre nei pressi dei poli e dallo scontro con le molecole d'aria si innescano le aurore.

Dinamica per la formazione delle aurore: alcune particelle cariche provenienti dal Sole riescono a penetrare il campo magnetico terrestre nei pressi dei poli e dallo scontro con le molecole d’aria si innescano le aurore.

 

Cosa sono le aurore, secondo la nostra vista

Ecco allora che esiste un’altra spiegazione alla domanda “Cosa sono le aurore?” che trascende qualsiasi razionalità, qualsiasi oggettività e lascia libero sfogo alle emozioni e alle descrizioni di chi quel fiume di luce irrequieto nel cielo l’ha visto con i propri occhi e l’ha subito con tutto sé stesso.

In una normale serata nel circolo polare artico si potrà sempre osservare un debole arco verdastro, simile a una striscia di foschia o a una nuvola illuminata dai lampioni, come è comune osservare dalle nostre inquinate città. “E’ quella lì l’aurora? Una striscia lattiginosa che somiglia alla Via lattea estiva o al cielo di Milano quando sta per arrivare la nebbia? E i colori delle foto non ci sono?” Sono queste le domande che ho sentito da chi si è spinto fin lassù, in Islanda o in Lapponia, e non è stato particolarmente fortunato. Togliendo il punto interrogativo, invece, si trasformano in affermazioni spesso dette da chi le aurore, quelle vere, non le ha mai viste e, forse, non si è mai spostato oltre i 60° di latitudine nord.

Le aurore, infatti, possono essere lievi e potenti, appena accennate o illuminare il paesaggio circostante, sembrare statiche o muoversi con la violenza di un fiume in piena. Tutto dipende dal Sole e, in parte, anche dalla Terra. Le aurore possono spingersi fino a latitudini medie, a Londra o Parigi, persino in Italia (l’ultima aurora italiana risale al 2003) ma sono solo una blanda copia di quello che si vedrebbe nella giusta località, lì nel grande nord.

Ecco allora che durante i momenti di maggiore attività, quando si verificano delle tempeste geomagnetiche, l’aurora diventa più spettacolare di qualsiasi fotografia, perché uno scatto statico non può catturare il movimento rapidissimo di strutture di luce che si espandono su tutto il cielo e che mostrano dettagli fini impossibili da immortalare in una fotografia esposta per qualche secondo. Nei momenti in cui l’attività è almeno moderata le aurore diventano uno spettacolo che non si può dimenticare, che sovrasta qualsiasi altra cosa vista fino a quel momento, in grado di proiettare senza problemi ombre in terra o di rendersi visibili quando ancora c’è la luce del tramonto. Immaginate una tavola bianca sulla quale far scorrere in modo casuale e caotico tre grossi pennelli imbevuti di colore fino a gocciolare: verde, giallo, rosso, e tutte le sfumature che si formano quando quelle strisciate si incontrano, si sovrappongono, si fondono insieme creando mulinelli di colore che all’improvviso sembrano aprirsi come un ombrello e cadere come pioggia su di noi. Non c’è ombrello che possa ripararci da tanta bellezza, né, per fortuna, alcun timore che giustifichi una fuga al riparo. Non c’è pericolo, se non quello di esporre i nostri occhi a una bellezza che in pochi riescono ad assimilare senza emozionarsi, senza far scendere una lacrima, senza gridare di gioia al cielo e abbracciare a caso tutte quelle sconosciute persone che impavide si sono ritrovate a osservare insieme lo stesso fenomeno. In un momento, quando lo decide il cielo a suo insindacabile giudizio, tutto cambia, tutto si accende. Il freddo scompare, il tempo si ferma, il cuore inizia a far rumore e niente sarà più lo stesso. Un secondo o dieci, un’ora o 5 minuti: nessuno sa quanto durerà ma basterà comunque a impressionare quell’immagine sin nella parte più profonda della nostra anima, per sempre. Altro che fotografia: le aurore, quelle vere, sono molto più belle, evidenti e spettacolari se ammirate a occhio nudo!

C'è davvero bisogno di descrivere a parole la bellezza dell'aurora?

C’è davvero bisogno di descrivere a parole la bellezza dell’aurora? Per capire quanto è brillante, questa foto  stata fatta al tramonto. In primo piano Venere, in alto a sinistra le Pleiadi.

 

Dove, quando e quanto tempo?

Il dove è semplice: la massima frequenza (e spettacolarità) di attività aurorale si verifica proprio a cavallo del circolo polare artico. Per noi europei ci sono solo due possibilità: la parte settentrionale della Scandinavia o l’Islanda, entrambi dei luoghi incantevoli anche a livello paesaggistico. Se cerchiamo la vacanza della vita allora bisogna andare in Islanda, girarsi l’isola a bordo di un’auto e allontanarsi dalla capitale se si vuole vedere per bene l’aurora. Durata consigliata: da 10 giorni in su.

Per un’esperienza meno impegnativa dal punto di vista temporale ed economico, la regione della Lapponia attorno al parco nazionale di Abisko è perfetta e gode a detta di molti delle condizioni meteo più favorevoli dell’intero nord. In questa, che è la zona meno abitata dell’Europa, ci sono pochi hotel, ma tutti sono attrezzati per l’osservazione delle aurore (e molti hanno anche splendide piste da sci, per gli amanti), con ampi piazzali bui, baite con vetrate e riscaldate, e visite guidate (molto costose però!). In effetti posso confermare che il microclima attorno ad Abisko è unico e assicura molte più nottate serene dell’Islanda o dell’alternativa più economica di tutte: Tromsø. Questa cittadina è situata sulla costa norvegese ed è immersa nei tipici fiordi che caratterizzano questa terra. Sebbene in linea d’aria disti poche centinaia di chilometri dall’entroterra lappone, gode di un clima molto diverso: il freddo non è mai eccessivo perché risente della corrente del golfo, ma in compenso il meteo è in media molto più brutto e instabile dell’entroterra. Può capitare anche una settimana di cielo totalmente coperto: e che ce ne facciamo di temperature più clementi se poi l’aurora non la possiamo vedere? In ogni caso questa è la meta più economica: a titolo di esempio, un viaggio di 3 notti e 4 giorni compreso di volo, hotel, abbigliamento termico e automobile a noleggio può costare circa 500 euro a persona a Tromsø e fino al doppio ad Abisko. Per l’Islanda i prezzi sono ancora più alti.

Percentuale di notti in cui si vede l'aurora: né troppo a nord, né troppo a sud. In Islanda e nella parte settentrionale della Scandinavia l'aurora, anche minima, c'è sempre.

Percentuale di notti in cui si vede l’aurora: né troppo a nord, né troppo a sud. In Islanda e nella parte settentrionale della Scandinavia l’aurora, anche minima, c’è sempre.

 

Per il quando, invece, le cose si complicano un po’.

Le tempeste magnetiche e i momenti in cui le aurore sono più intense si possono provare a prevedere con al massimo 2-3 giorni di preavviso, quindi a meno di non essere degli avventurieri disposti a prenotazioni last minute, dobbiamo arrenderci all’idea che in questo tipo di viaggio serva anche un po’ di fortuna. Può succedere che in una settimana non si riesca a vedere quasi mai un’aurora decente e poi questa esploda il giorno che siamo tornati a casa (o il giorno prima di arrivare.. Una triste storia vera). Oltre a programmare un soggiorno più lungo di un paio di notti, ci sono degli accorgimenti che potrebbero migliorare le nostre possibilità.

L’attore principale di questa opera teatrale ricca di meravigliosi e improvvisi colpi di scena è il Sole, con la sua attività. Ci sono due principali meccanismi con cui si possono innescare spettacolari aurore e il più importante è causato dai CME, espulsioni di massa coronale, e dai brillamenti; entrambi sono fenomeni generati dalle grandi macchie solari. Non si possono prevedere ma è indubbio che più macchie ci sono sul Sole e maggiore è la possibilità che qualche particella in più venga scagliata nello spazio e arrivi fino alla Terra. Ragionando quindi sul lungo periodo, i momenti in cui le aurore sono più intense sono a cavallo dei massimi di attività del Sole. La notizia brutta è che il massimo solare è passato nel 2012-2013 e ora siamo diretti verso un minimo dell’attività. Le grandi aurore sono quindi più rare perché a reggere la baracca c’è in pratica solo il secondo, e più debole, meccanismo: i buchi coronali. Si tratta di veri e propri buchi nell’atmosfera del Sole (corona solare) dovuti alla debolezza locale del campo magnetico solare. In questo modo le particelle di vento solare che partono dalla superficie non vengono intrappolate o deviate dalla corona in modo efficiente e possono raggiungere la Terra in maggiori quantità, scatenando tempeste magnetiche anche con un Sole privo di macchie, quindi senza il motore principale che alimenta il fenomeno. Per ritrovare aurore molto brillanti per gran parte del tempo, quindi andare quasi a colpo sicuro, bisogna aspettare il prossimo massimo solare, previsto per il 2023-2024. Se non siamo così pazienti e accettiamo il rischio di non riuscire a vedere una tempesta ma ci accontentiamo di una modesta attività aurorale (sempre presente), allora tutti gli anni sono buoni, anche se ci sono periodi più favorevoli di altri.

Sembra una banalità ma meglio chiarire anche questo aspetto per chi magari non è proprio esperto del grande nord: di sicuro dobbiamo andare quando esiste la notte astronomica, escludendo i mesi da aprile ad agosto, in cui la luce solare non abbandona mai la scena e vedere l’aurora è impossibile. I momenti migliori, sia dal punto di vista climatico che dell’attività, si verificano a cavallo degli equinozi, quindi seconda metà di settembre o seconda metà di marzo. Si potrebbe anche pensare di fare una follia: andare a dicembre quando è sempre notte e si possono vedere le aurore 24 ore al giorno (o quasi) ma io lo sconsiglio. Le temperature sono basse, anche -40°C in Lapponia (più clementi lungo la costa norvegese e islandese ma siamo sempre molto sotto lo zero); la Natura, che è favolosa, non si può ammirare in pieno, girare in auto è certamente più pericoloso, il clima è peggiore e le aurore tendono a essere un po’ più pigre rispetto ai periodi a cavallo degli equinozi, quando si può godere di 12 ore di luce e altrettante di buio. Alcuni fotografi preferiscono le notti con la Luna perché illumina il paesaggio ma io consiglio di scegliere dei periodi a cavallo della Luna nuova. Mai andare con la Luna piena perché le aurore, anche quelle intense, saranno sovrastate dalla luminosità del nostro satellite naturale e rese meno spettacolari.

La durata del soggiorno dipende dai nostri impegni: si può fare un week end lungo di 3 notti, come ho fatto io per due anni di seguito, e avere una fortuna sfacciata di trovare sia il sereno che una tempesta magnetica che ha illuminato a giorno il paesaggio (ma era a cavallo del massimo solare, in pratica era più difficile non trovare un’aurora intensa che trovarla!), oppure optare per un soggiorno più lungo e con ritmi più blandi. Una settimana, quindi, sembra essere il compromesso ideale tra spesa, impegno e possibilità di trovare un’aurora in forma e tempo bello.

Per godersi lo spettacolo in sicurezza e con le maggiori possibilità di trovare tempo bello, è meglio seguire qualche semplice consiglio.

Tempesta magnetica, con indice Kp pari a 7: il cielo si accende di colori in movimento.

Tempesta magnetica, con indice Kp pari a 7: il cielo si accende di colori in movimento.

Come organizzare il viaggio

Il viaggio inizia almeno 2-3 mesi prima, se vogliamo trovare condizioni economiche vantaggiose. Se sappiamo muoverci su internet, si può organizzare tutto da soli. Quello che ci serve sono:

  • Voli di andata e ritorno per la località scelta. expedia.it o www.skyscanner.it per trovare le migliori tariffe;
  • Dove soggiornare. Anche qui possiamo controllare expedia.it o www.booking.com ad esempio. Il consiglio è scegliere un hotel attrezzato non nel centro di una città, così se il tempo sarà bello potremo ammirare l’aurora addirittura dalla finestra della camera, come è capitato a me una notte di quasi tre anni fa. In alternativa, se preferiamo spendere meno, potremo scegliere una sistemazione in città, ad esempio Tromso, ma dobbiamo essere coscienti che dovremo comunque spostarci, anche di diversi chilometri, per vedere bene l’aurora;
  • Noleggio auto. Stiamo andando in luoghi selvaggi e con spazi enormi: è impensabile cercare di spostarsi con mezzi pubblici (che spesso neanche ci sono). Un’automobile è obbligatoria, quindi, sia per raggiungere l’hotel dall’aeroporto che per visitare le zone alla ricerca della natura diurna e dell’aurora notturna. Le condizioni meteo infatti non sono stabili e può capitare, soprattutto se ci troviamo lungo la costa norvegese, di dover affrontare centinaia di chilometri di guida per trovare un cielo sereno. Dobbiamo quindi essere mentalmente pronti al nostro obiettivo: se vogliamo vedere l’aurora potremo doverla cercare con le unghie e con i denti. Le strade sono generalmente tenute bene ma nei mesi invernali, fino ad aprile, sono spesso coperte di ghiaccio. Le auto noleggiate hanno equipaggiamento invernale e sono dotate di ruote chiodate per affrontare quasi ogni terreno (persino laghi e fiumi ghiacciati, ho già provato), quindi la guida, se condotta con molta prudenza, è di certo più sicura di quanto accade nelle nostre città quando cade il primo nevischio misto ad acqua. Nei principali aeroporti: Kiruna se si sceglie Abisko, Tromso se si sceglie la costa, Reykjavik per l’Islanda, sono presenti le principali agenzie di noleggio, quindi possiamo dare un’occhiata a expedia.it o www.rentalcars.com per noleggiare la nostra auto, orientativamente quando scegliamo di prenotare il volto. Se abbiamo un hotel nel centro di una città, l’auto serve a prescindere dal meteo perché dobbiamo allontanarci dalle luci il più possibile per ammirare al meglio lo spettacolo (l’ho già detto, ma se l’ho ripetuto anche qui un motivo c’è!);
  • Noleggio abbigliamento termico. Per quanti vestiti pesanti decideremo di portare in valigia, non saranno mai abbastanza per proteggerci dalla notte artica. Il consiglio è quindi semplice: lasciare a casa l’armadio della roba pesante e noleggiare direttamente sul posto l’abbigliamento adatto. Per circa 30-40 euro al giorno si può prendere tutto l’occorrente: scarponi da neve, tuta imbottita simile a quelle degli astronauti, guanti, cappello ed eventualmente maschera per gli occhi. Su internet si trovano molti negozi di noleggio nelle principali città. Alcuni hotel, soprattutto nella zona di Abisko, forniscono direttamente il servizio di noleggio dell’abbigliamento: basta contattarli (tutti parlano inglese).
    Un consiglio è d’obbligo se avete intenzione di fare molti spostamenti, soprattutto in Scandinavia. L’abbigliamento che noleggiate in città più miti come Tromso non è adatto alle rigide notti della Lapponia, pur essendo vicine in linea d’aria e quindi raggiungibili in auto in un paio d’ore: tenetelo presente per non dover soffrire il freddo per tutta la notte e nel caso fate presente al negozio di noleggio che volete abbigliamento adatto anche per climi più freddi.
  • Tour guidati. In Islanda, ma soprattutto in Scandinavia, ci sono molte agenzie che organizzano tour guidati per osservare le aurore. La realtà, secondo me, è che non servono: basta un’auto e un posto scuro per ammirare l’aurora senza l’aiuto di una guida che vi chiederà prezzi stratosferici. Questa è una costante di quelle regioni: tour, escursioni e visite guidate potrebbero costare anche ben oltre 100 euro a persona; valutate quindi bene se ne vale la pena o meno.
  • Cellulare e un piano dati adatto all’estero. Probabilmente vi sconvolgerà la cosa, ma anche nel posto più remoto della Lapponia, in mezzo a un lago ghiacciato che si perde a vista d’occhio, senza la minima presenza di civiltà per decine e decine di chilometri, il vostro cellulare segnerà piena ricezione della rete 4G. Se avevate in mente di staccare dalla vita di tutti i giorni, allora meglio spegnere il telefono perché non siete in un paese sufficientemente arretrato da permettervi l’isolamento completo. In realtà, scherzi a parte, la ricezione cellulare in posti deserti e difficili come la Lapponia è estremamente comoda e importante, perché di fatto non saremo mai isolati dal mondo e in caso di aiuto basterà fare una telefonata. Il consiglio, quindi, anche per avere a disposizione mappe della zona e un collegamento a internet per controllare meteo e previsioni dell’aurora, è quello di attivare un’offerta internet valida per l’estero con il proprio operatore e affrontare quindi il viaggio avventuroso in maniera molto più tranquilla.
Il magnifico deserto di ghiaccio della Lapponia.

Il magnifico deserto di ghiaccio della Lapponia.

 

Altri spiccioli consigli per un viaggio indimenticabile

  • In caso di problemi, tenete presente che siete in un posto estremamente civile: se le sporadiche auto vi vedranno a bordo strada con le 4 frecce accese o con gli abbaglianti di notte, si fermeranno tutte per assicurarsi che state bene e che non vi serve aiuto. Se non volete essere disturbati o creare falsi allarmi, quindi, spegnete frecce e fari: è il modo per dire che non vi serve aiuto.
  • La popolazione è generalmente molto disponibile e cordiale. Se vi serve qualcosa non abbiate paura a chiedere. Se siete in macchina lungo la Northern Lights road, nel mezzo della tundra lappone, e non sapete dove fermare la vostra auto e scendere per ammirare l’aurora perché la neve ai lati della strada è alta un metro, potrete parcheggiare nel cortile di una delle poche casette che incontrerete sul percorso. E sebbene per noi appaia impossibile che un proprietario di casa accolga tre auto piene di gente incappucciata, che parlano una lingua straniera e che hanno occupato il suo suolo, con un saluto, una lunga chiacchierata e un invito a parcheggiare di fronte alla sua porta e restare a osservare l’aurora lì tutta la notte, in Lapponia questo succede davvero e non si rischia un colpo di fucile, come può invece capitare nelle nostre ben più pericolose campagne;
  • L’attività dell’aurora si può tenere sotto controllo in tempo reale e si possono avere anche previsioni abbastanza accurate fino a 48 ore. Ci sono tanti siti da controllare quindi per capire cosa ci aspetta nel futuro prossimo. Eccone un paio: spaceweather.com e http://www.aurora-service.eu/aurora-forecast/ . Le intensità delle aurore si misurano spesso con un indice denominato Kp: valori inferiori a 3 indicano un’aurora molto debole. Da 3 a 5 indicano un’attività moderata che comincia a essere spettacolare e oltre 5 assicurano uno spettacolo tanto luminoso da abbronzare, di quelli che non si scorderanno mai più. Più è intensa la tempesta magnetica e più a sud scendono le aurore. Ecco allora che se l’indice Kp arriva a 9 queste si possono vedere, seppur tenui e in lontananza, persino nel nord Italia! I valori possono cambiare nel giro di un’ora, quindi teniamoli sott’occhio sempre: le previsioni a breve termine, come in meteorologia, sono decisamente più affidabili, quindi se entro qualche ora è prevista una tempesta è molto probabile che ci sarà!
Una spettacolare aurora al tramonto, dal cortile di casa di un ospitale abitante di quelle fredde e spettacolari regioni.

Una spettacolare aurora al tramonto, dal cortile di casa di un ospitale abitante di quelle fredde e spettacolari regioni.

 

Come osservarle e fotografarle

Le aurore sono uno spettacolo che non richiede strumenti per essere ammirato: serve solo un cielo libero da nuvole e lontano dalle luci delle città. Per questo motivo, se siamo muniti di auto e di una mappa sul cellulare, possiamo scegliere i posti più belli e suggestivi per godersi lo spettacolo. Possiamo scegliere un suggestivo lago ghiacciato, come mi è capitato due anni fa, o un fiordo non ancora congelato in cui si rifletteranno le luci dell’aurora: le opportunità per rendere ancora più indimenticabile la nostra avventura sono tantissime e le possiamo trovare con le nostre forze, perché questo è un viaggio in cui possiamo decidere noi cosa fare, dove e in che modo, in piena libertà. Se abbiamo l’abbigliamento giusto la notte non sembrerà molto fredda, grazie anche all’umidità in genere sempre bassa e potremo starcene fuori per ore. Le aurore in generale si vedono meglio nella prima parte della notte, ma sono sempre molto imprevedibili, un po’ come le stelle cadenti. Anche nella serata in apparenza più tranquilla può verificarsi un momento

Quando l'aurora fa sul serio diventa più luminosa delle stelle più brillanti, cancellandole letteralmente dal cielo.

Quando l’aurora fa sul serio diventa più luminosa delle stelle più brillanti, cancellandole letteralmente dal cielo.

in cui di punto in bianco tutto si accende come se ci fosse un incendio in cielo. E in effetti questo è quanto è accaduto a me ormai quasi due anni fa. Di ritorno da una bella serata in Lapponia, l’aurora sembrava ormai essersi spenta, con il cielo che era diventato nero come la pece a causa dell’assenza totale di luci. Dopo un rifornimento di carburante in una remota stazione, a un certo punto, guardando dal parabrezza, notai che il cielo si era improvvisamente tinto di verde. Gettata l’auto su una provvidenziale piazzola di sosta e scesi senza nemmeno indossare i pesanti abiti termici, abbiamo assistito a uno spettacolo di indescrivibile potenza, che riesco ancora ad ammirare nitidamente mentre sto scrivendo queste parole, con il cuore che ricomincia a battere all’impazzata e le mani che sudano, proprio come in quel momento, in cui a -18°C in felpa e scarpe da ginnastica sentivo tutto tranne che freddo.

Se vogliamo tentare di immortalare uno spettacolo del genere, ci basta una camera digitale, meglio una reflex con obiettivo grandangolare da 8-14-18 mm, su un modesto treppiede da pochi euro. A seconda della potenza dell’aurora possiamo impostare 800 ISO, diaframma tutto aperto e scatti da qualche secondo fino a 30 secondi. Andare oltre non conviene anche con aurore deboli perché le foto verrebbero mosse a causa del moto della Terra e dell’aurora stessa. Nei momenti più intensi ho visto un mio amico scattare a mano a 3200 ISO e 1/15 di secondo a f3.5 e bruciare alcune parti della foto a causa della potenza dell’aurora!

Se volete vedere altre mie foto delle aurore, cliccate qui.

Se volete leggere il resoconto del mio ultimo viaggio, scritto in tempo reale, cliccate qui.

 

 

Sistemi portatili per la fotografia astronomica..a confronto!

Chi si dedica alla fotografia astronomica, sia i più esperti che chi è agli inizi, deve fare i conti con l’autoguida e con la necessità di collegare la camera di guida a un computer che gestisca questa importantissima fase. Un notebook è obbligatorio per chi usa una camera CCD per fare riprese, mentre chi impiega le reflex ha a disposizione una soluzione chiamata autoguida standalone che permette, previa molta pazienza e/o denaro, di non utilizzare il computer.

Qualsiasi sia la vostra situazione, a meno di non disporre di un osservatorio privato (magari), usare un computer durante le sessioni di fotografia astronomica ha molti inconvenienti, tra cui:

  • Dover trasportare un pesante e ingombrante notebook con noi e sistemarlo in un luogo sicuro, che nel buio della notte e nelle impervie situazioni in cui piazziamo i telescopi (erba alta, alberi, terreno scosceso…) non è proprio semplice;
  • L’alto consumo di corrente, che supera spesso i 3-4 ampere e costringe a essere dipendenti dalla corrente elettrica o a viaggiare con ingombranti e pesanti batterie da auto per non rimanere a secco durante la notte.
  • Inoltre i notebook di solito hanno un’alimentazione superiore a 12V, il che rende necessario collegare un inverter ad una batteria (= altro esborso economico)

Fino a qualche anno fa non c’erano molte alternative: o un notebook, magari piccolino, o un’autoguida standalone che spesso, però, rappresenta quasi un terno al lotto perché è sicuramente più difficile da gestire rispetto a quanto possano fare software come MaxIm DL o PHD.

Oltre un anno fa, PrimaLuceLab ha introdotto sul mercato Eagle, un sistema che racchiude all’interno di un unico case modulare, un bridge di alimentazione, un vero e proprio computer desktop con Windows 10 Enterprise modificato e ottimizzato per Eagle e quindi per l’uso astronomico e la possibilità di installarlo in diversi punti tra montatura e telescopio grazie al sistema Plus. Eagle non è solamente un “contenitore”, ma al suo interno contiene una suite di diversi software oltre al fatto che possiamo installare tutti i programmi che vogliamo, inoltre potendo essere montato in modo solidale con il nostro strumento, possiamo staccare tutto insieme, riporre e…in 2 minuti abbiamo smontato e rimontato! Ovviamente come in tutte le cose ci sono i pro ed i contro, andiamo ad analizzarli.

Se Eagle rappresenta, al momento attuale, la più avanzata soluzione dedicata per l’astrofotografo itinerante, è anche vero che il costo non è detto che sia alla portata di tutti vista la mole di caratteristiche avanzate implementate. La domanda posta è: si riesce ad alleggerire lo stesso il setup, perdendo ovviamente di funzionalità complessive, ma ad un minor prezzo?

Ora ci sono i Windows Tablet, dei tablet che montano una versione ottimizzata (=depotenziata) di Windows, ma che sono pratici quanto un normale tablet Android o iOS. Una soluzione del genere permette di avere una versatilità simile a quella di un di un pc, sul quale possiamo installare i nostri programmi per la gestione della ripresa e della guida, con la comodità di un tablet, compreso un consumo nettamente ridotto rispetto ai notebook. Di fatto possiamo trasformare, almeno la fase di autoguida, come se fosse fatta con una camera standalone, solo che avremo la potenza di un software installato come PHD, l’economicità di una camera usb  con porta ST4 e la comodità di uno schermo LCD da almeno 7 pollici, senza gli ingombri e i problemi tipici di un computer, anche se dobbiamo vedere dove sistemare il tablet dato che non prevede sei sistemi di montaggio nativi sul nostro telescopio.

Ma se invece vogliamo tenerci il nostro PC/Tablet e abbiamo solo l’esigenza di ottimizzare il più possibile il setup (cavi, hub usb, bridge di alimentazione..), abbiamo una reale alternativa senza doverci autocostruire qualcosa noi?  Per fortuna si, ci ha pensato Geoptik con il Various power supply, che è un bridge di alimentazione avanzato con un hub usb integrato. Offre 4 prese USB 2.0, 1 uscita da 5A (jack 2.1×5.5), 2 uscite jack da 2A (2.1×5.5), 2 uscite per fasce anticondensa kendrik compatibili, 2 prese accendisigari, 1 uscita con regolazione del voltaggio (ideale per alimentare le reflex usando una falsa batteria) e di serie viene fornito con un cavo di alimentazione che si collega direttamene ad una batteria da auto, dato che il Varius alimenta tutto, dalla montatura alle camere CCD. Il various si può installare sul telescopio (non in modo solidale come Eagle, ma comunque ha una basetta per rimuoverlo facilmente) e tutti i device sono connessi a lui. Quindi esce un cavo usb che andrà al nostro PC/Tablet.

Per scrivere questo post mi sono indirizzato sul tablet più economico che si possa trovare in giro: si chiama Mediacom WinPad W700, un oggetto con schermo da 7 pollici, dotato di Windows 10 e dal prezzo di circa 40 euro (sì, 40 euro!). Dopo averlo provato per più di un mese posso dare qualche consiglio per farlo funzionare al meglio e per gestire, proprio come se fosse un normale pc, le fasi di guida e persino di acquisizione delle immagini, sebbene con qualche limite.

Il tablet ha un processore quadcore da 1,33 GHz, un GB di RAM e solo 16 GB di spazio disco, che può essere aumentato grazie allo slot per una microSD. Il punto debole di questa soluzione è la presenza di una sola porta micro-usb, quella che in pratica si usa per ricaricarlo. Come facciamo allora per farlo funzionare? E un GB di RAM basta per la nostra sessione di riprese?

Le risposte sono affermative, a patto di comprare qualche altro economico accessorio e di ottimizzare un poco il sistema operativo.

Il tablet Windows Winpad W700: la soluzione più economica per gestire le nostre sessioni di fotografia astronomica

Il tablet Windows Winpad W700: la soluzione più economica per gestire le nostre sessioni di fotografia astronomica

Ottimizzazione del sistema operativo

Windows 10, al contrario degli immediati predecessori, è un sistema leggero e stabile, che non ha problemi anche con driver vecchi (ci ho fatto girare camere SBIG del 2005). Il GB di RAM di cui è dotato il tablet è più che sufficiente se si disattivano servizi inutili come l’assistente vocale Cortana e si eliminano le (poche) animazioni grafiche. In questo modo il sistema operativo usa solo mezzo GB di RAM; il restante è tutto per noi e vista la leggerezza dei programmi di guida e di acquisizione è una quantità più che sufficiente. A meno che non si abbiano dei problemi di instabilità nativa che però non ho riscontrato sui due esemplari che ho testato, ci sono tre operazioni importanti da fare per rendere Windows ancora più veloce e stabile:

  • Disattivare l’avvio rapido del sistema operativo, che è attivato di default e che a volte può causare il riavvio improvviso del tablet poco dopo che è stato acceso (nelle opzioni di risparmio energia, alla voce Scegliere cosa fanno i pulsanti di accensione, si clicca su Modifica le impostazioni attualmente non disponibili e su Impostazioni di arresto deselezionare Avvio Rapido);
  • Se si utilizza solo per le sessioni fotografiche, il consiglio è di tenerlo scollegato dalla rete internet e in questo modo NON fargli mai scaricare gli aggiornamenti di Windows, che tendono a essere pesanti e a riempire il poco spazio disponibile. Questo non toglie che sul campo potremo collegarlo via wireless a una rete locale e così controllare con il nostro smartphone da dentro la macchina o dentro casa come sta andando la sessione di ripresa (su questo tornerò alla fine del post);
  • Disattivare la sospensione automatica dopo qualche minuto e attivare solo lo spegnimento dello schermo. In questo modo eviteremo la possibile sospensione dell’attività durante le sessioni di fotografia e allo stesso tempo faremo spegnere lo schermo al tablet quando tutto andrà bene durante la serata e non ci sarà bisogno di toccarlo;
  • Attivare la modalità Desktop di default (Impostazioni à Sistema à Modalità tablet e alla voce All’accesso impostare Vai al desktop). Windows può essere usato anche in modalità tablet ma questa soluzione per i nostri scopi è molto scomoda; meglio usare il classico ambiente che abbiamo a disposizione su ogni computer.

 

A confronto:

  • Eagle: è un sistema completo e modulare, che si monta direttamente sul nostro telescopio, ottimizzando trasportabilità, funzionalità e possibilità di automazione
  • Tablet: può gestire solamente ed in modo “basilare” le funzionalità di acquisizione e autoguida, inoltre non si può montare sul nostro telescopio in modo solidale.
  • Varius: essendo un bridge avanzato di alimentazione con hub usb integrato, esce solo un cavo verso il nostro PC/Tablet (il Tablet può essere anche quello proposto, per dire). Il Varius ha una basetta per poterlo installare sul nostro strumento, ma poi va rimosso, non essendo solidale come Eagle.

 

L’ alimentazione

La batteria del tablet dura poco, circa 3 ore se si utilizza in modo normale e per di più non ci sono porte usb per collegare la nostra strumentazione. Come facciamo? C’è una soluzione rapida, leggera ed economica.

Per l’alimentazione possiamo comprare un economico power bank. Il tablet in autoguida e con schermo spento consuma circa 0,7 Ampere. Un power bank da 5 Volt (il tablet va a 5 Volt) e 13-15 Ampere costa una ventina di euro (https://www.amazon.it/EasyAcc-Brilliant-Caricatore-15000%C2%A0mAh-Smartphone/dp/B00M8UFTQA/ref=sr_1_2?s=electronics&ie=UTF8&qid=1474975624&sr=1-2&keywords=power+bank+15000) e consente di avere l’alimentazione per circa 18 ore, a cui aggiungere le tre ore della batteria del tablet, per un totale di almeno 20 ore, a essere piuttosto conservativi: in pratica ci possiamo fare tranquillamente due notti senza ricaricarlo. Ovviamente questo calcolo si applica solamente alla batteria del tablet, se ci colleghiamo altri device (montatura, etc) la durata si ridurrà.

A confronto:

  • Eagle: avendo un bridge di alimentazione integrato, alimenta dalla montatura alla camera ccd raffreddata, basta collegarlo ad una fonte di alimentazione adeguata. Tutti i cavi di alimentazione dei nostri device partono da Eagle. Può fornire una potenza di alimentazione di 3A e 5A a seconda della porta utilizzata.
  • Tablet: non prevede nativamente di alimentare il nostro setup, quindi dobbiamo prevedere di creare un sistema per alimentare i device che però non richiedono un’assorbimento di oltre 500mAh, dato che saranno collegati all’hub usb esterno, mentre se richiedono alimentazione superiore (camere ccd raffreddate, montatura, etc) dovremo prevedere di aggiungere un altro sistema di alimentazione.
  • Varius: basta collegare il cavo fornito ad una batteria da auto con un Amperaggio adeguato (consiglio minimo 50Ah per una nottata fredda di astrofotografia) e collegare tutti i device al Varius, che li alimenterà oltre a collegarli al nostro PC/Tablet.

 

Porte USB e collegamenti

Come facciamo invece per le porte usb? E magari tenere il tablet collegato al power bank contemporaneamente? C’è un piccolo trucco. Dobbiamo comprare, per pochi euro un cavo OTG a Y, come questo: https://www.amazon.it/gp/product/B00M1H5348/ref=oh_aui_detailpage_o01_s00?ie=UTF8&psc=1 (io ho esattamente questo modello).

Agganciato alla presa micro usb del tablet, permette di collegare delle periferiche e di alimentare sia queste che il tablet. Il cavo funziona solo se alimentato da una fonte esterna: dal tablet non esce corrente come nei normali cavi OTG (ma vi può entrare). La fonte esterna sarà il nostro power bank. All’unica porta USB di questo cavo possiamo collegare un piccolo hub a 4 o 6 porte e il gioco è fatto. L’hub riceve infatti l’alimentazione dal power bank, che alimenterà tutte le periferiche che ci collegheremo, compresa una camera di guida e potremo quindi usare la nostra configurazione come se fosse un normale computer. Il consiglio è quello di acquistare anche mouse e tastiera wireless: per circa 20 euro avremo un piccolo ricevitore da collegare a una delle porte USB, che ci permetterà di usare mouse e tastiera al posto del touch, che è pure piuttosto impreciso (per 40 euro non si può pretendere di più). L’uso di mouse e tastiera wireless, oltre a eliminare due cavi, consente di occupare solo una delle porte usb del nostro hub e quindi di avere a disposizione una maggiore potenza di fuoco per collegarci quello che vogliamo.

A questo punto il nostro setup è pronto: il tablet funziona esattamente come un normale computer, quindi non c’è molto altro da aggiungere. Possiamo collegare le periferiche che vogliamo e installare driver e programmi, scaricandoli da internet o, meglio, importandoli da una chiavetta USB (così teniamo il tablet sempre scollegato dalla rete per impedire installazione di aggiornamenti e/o rallentamenti vari: non vorremo mica che si blocchi installando degli aggiornamenti durante la serata con il cielo migliore della nostra vita, vero!?). Tenete conto che se collegate device che richiedono ulteriore alimentazione rispetto a quella fornita dalle porte USB, dovrete collegarci una fonte di alimentazione supplementare.

Ecco la configurazione con porte USB e alimentata da un power bank da 26 Ampere pronta per la serata di fotografia astronomica. Autonomia stimata: 40 ore

Ecco la configurazione con porte USB e alimentata da un power bank da 26 Ampere pronta per la serata di fotografia astronomica. Autonomia stimata: 40 ore

 

Risultati

Ho provato il WinPad W700 con diverse configurazioni e sottoponendolo anche a qualche stress. Ho installato senza problemi i driver delle camere CCD che utilizzo, una ST-7XME e un ST-2000XCM della SBIG e quelli di una camera planetaria che ho utilizzato come autoguida attraverso PHD. Ho fatto girare la versione 5 di MaxIm DL, che gestisce sia la fase di ripresa che di autoguida, senza particolari problemi, oltre a PHD. Anche i driver ascom funzionano, così come programmi quali Cartes du Ciel. Non ho provato Stellarium perché è troppo pesante e in generale non consiglio di installarci software per il fotoritocco come Photoshop e PixInsight: questo tablet infatti va bene solo per gestire l’autoguida e al limite la fase di ripresa, mentre Eagle permette di eseguire qualsiasi tipo di operazione, essendo un computer vero e proprio.

Non ho provato a utilizzarlo per l’imaging planetario ma posso affermare senza problemi che NON è indicato, sia per la poca RAM che per l’esiguo spazio di archiviazione. In ogni caso consiglio di acquistare una micro SD da 32GB, che si trova a una decina di euro, per avere così spazio a sufficienza per accumulare molti dati durante le serate di ripresa del profondo cielo.

Uno screenshot direttamente dal Winpad W700 di MaxIm DL durante l'acquisizione e la guida sul finire di una serata di fotografica.

Uno screenshot direttamente dal Winpad W700 di MaxIm DL durante l’acquisizione e la guida sul finire di una serata di fotografica.

In commercio ci sono tablet più performanti, naturalmente, ma ho voluto testare la soluzione più economica per capire quali fossero le sue potenzialità. Per chi usa una reflex digitale rappresenta un’alternativa molto economica e migliore rispetto alle camere autoguida standalone (che devono essere alimentate comunque!) e gestire quindi la sola fase di guida. In generale anche per gli astrofotografi itineranti che desiderano togliere peso e cavi dalla loro macchina è una valida alternativa per gestire anche la fase di acquisizione. Ovviamente dovremo vedere dove e come appendere i vari cavi, power bank, tablet, dove posizionare la tastiera, etc.

A confronto:

  • Eagle: ovviamente è molto più performante di un economico tablet e consente di svolgere tutte le operazioni desiderate, oltre a fornire la flessibilità di utilizzo grazie al bridge di alimentazione integrato. Non ha problemi per eseguire qualsiasi software, così come per elaborare e acquisire filmati planetari con camere dotate anche di porta USB 3.0.
  • Tablet: ideale se abbiamo un setup molto leggero anche in termini di assorbimento della corrente, infatti le ccd raffreddate andrebbero comunque alimentate a parte, così come anche la montatura va alimentata a parte. In sostanza dovremo prevedere di alimentare ogni device in modo autonomo tranne quelli puramente USB. Questo porta a preferire il tablet se si riprende con una reflex non raffreddata, gestendo solamente l’autoguida e al massimo le riprese tramite un programma di terze parti.
  • Varius: può gestire tranquillamente, come alimentazione, montatura, camere raffreddate, fasce anticondensa. E’ stato pensato per le sessioni deepsky, mentre l’uso con camere planetarie sarà limitato dalla presenza di un hub usb 2.0 e dalla lunghezza del cavo derivante, oltre al limite fisico del la nostra macchina di ripresa. I software da eseguire dipendono dalla potenza del nostro PC/Tablet

 

Bonus: controllare il tablet in remoto

Queste poche righe in realtà sono generiche e consentono di visualizzare il desktop del computer/tablet che sta facendo le riprese da qualsiasi dispositivo, anche uno smartphone. Ci sono diversi metodi, ma il mio preferito è il seguente. Quello che serve è una rete locale che può essere creata con un piccolo router wifi da collegare a una presa USB (non serve internet!) e il programma VNC. Sul computer/tablet si installerà il software gratuito chiamato tight VNC, mentre sullo smartphone un’applicazione gratuita chiamata VNC Viewer. Si collegano entrambi i dispositivi alla rete locale, sul computer che controlla la sessione di ripresa si avvia Tight VNC e ci si annota l’indirizzo IP che gli è stato assegnato (Nella finestra di ricerca digitare cmd e premere invio; poi dal prompt dei comandi che si apre digitare Ipconfig, premere invio e leggere la voce IPv4 Adress); questo indirizzo deve essere immesso nell’applicazione VNC Viewer quando si deve configurare il computer a cui vorremmo connetterci. Il WinPad W700 si controlla in remoto che è un piacere e non ha mai mostrato rallentamenti.

A confronto:

  • Eagle: genera di automatico una rete WiFi e basterà connettersi con il device che vogliamo usare per controllarlo. Il tempo di latenza è inferiore rispetto al VNC, perchè usa un sistema differente.
  • Tablet: dobbiamo creare noi la nostra rete VNC, operazione consigliata a chi ha almeno un po’ di esperienza informatica. Sicuramente per i meno esperti si può usare TeamViewer come alternativa al VNC.
  • Varius: stesso discorso del Tablet, possiamo scegliere se affidarci ad un cavo sub 2.0 con lunghezza max 3mt circa, oppure creare anche qui una rete per il controllo in remoto.

 

Il Tablet è il Sacro Graal per la fotografia astronomica? Non proprio

La soluzione proposta qui comporta una spesa minima ma ha naturalmente delle limitazioni. Il tablet ha una risoluzione dello schermo di soli 1024X600 pixel e con appena 7 pollici di diagonale richiede una buona vista. L’hardware funziona e sembra stabile, ma nulla si sa sulla sua durata nel tempo. Il touch screen su uno schermo così piccolo non è comodo da usare, tanto che è indispensabile una tastiera e un mouse esterni. I collegamenti sono affidabili ma richiedono un minimo di manualità ed è necessario seguire le indicazioni per l’assemblaggio e l’ottimizzazione del setup proposte nel post. Insomma, si tratta di una soluzione che funziona certamente ma che non si può sostituire a oggetti di maggiore potenza, eleganza e affidabilità, come il sistema Eagle di PrimaLuceLab, che è molto più potente, versatile e pronto all’uso e ha materiali di ben altra fattura rispetto alla plastica e allo schermo minuscono di un tablet economico. La soluzione di Eagle, per chi fa della fotografia itinerante il suo stile di vita, possiede camere CCD con grossi sensori e magari vuole controllare focheggiatori elettrici, plate solving e in generale una complessa sessione di fotografia astronomica è sicuramente da preferire a un tablet dalla limitata potenza di calcolo e di memoria che non ce la farebbe proprio se si carica oltre la gestione della guida e della semplice acquisizione delle immagini.

E’ anche vero che il Varius della Geoptik è una buona soluzione per avere tutti i nostri device alimentati, collegati e con solo 1 cavo che va verso il nostro PC/Tablet.

D’altra parte si tratta di due soluzioni molto diverse; sarebbe come confrontare una vecchia reflex Canon 350D che si trova usata a meno di 200 euro con una nuovissima full frame Canon 7D Mark II: entrambe sono in grado di produrre dei risultati, ma la 7D possiede una potenza inarrivabile per la vetusta 350D e con la seria possibilità che questa potrà durare per ben più a lungo della configurazione più economica. Il Varius si colloca a metà tra i 2, come prezzo, funzionalità e possibilità.

A confronto:

  • Eagle: in un unico oggetto racchiude un vero e proprio pc, un bridge di alimentazione per tutti i nostri device e la possibilità di montarlo sul nostro setup, senza poi smontarlo ad ogni utilizzo. E’ in grado di fare tutto, dal deepsky alle riprese planetarie, specie nella versione Observatory. Inoltre è tutto integrato a livello software.
  • Tablet: ha dalla sua l’economicità e la compattezza, ideale per operazioni di base come autoguida e gestire l’acquisizione, ma per alimentare i nostri device (tranne quelli USB) dobbiamo pensare ad altre fonti di alimentazione. Va bene per gestire sessioni “semplici” sul deepsky, mentre per le riprese planetarie il framerate della camera si abbasserà moltissimo per via dell’hardware economico.
  • Varius: essendo solamente un bridge di alimentazione con hub usb 2.0 integrato, richiede sempre e comunque di essere collegato al nostro PC/Tablet. Offre molte possibilità di alimentazione, in pratica può alimentare qualsiasi cosa vogliamo connetterci. Rispetto al tablet, se ci colleghiamo un PC performante, possiamo eseguire tutte le operazioni che vogliamo, con limitazioni per l’uso con camere planetarie in fase di acquisizione. Si può montare e rimuovere dal nostro setup con la basetta fornita di serie.

 

 

Testiamo la linearità del nostro sensore digitale

Uno dei grandi vantaggi dei sensori digitali è la cosiddetta linearità, o risposta lineare. Di cosa si tratta? In pratica un sensore produce un’immagine la cui intensità è direttamente proporzionale alla luminosità dell’oggetto o al tempo di esposizione. Se ad esempio facciamo una foto di una stella non variabile, questo implica che se si raddoppia l’esposizione raddoppierà il segnale (la luminosità) che il sensore avrà registrato dalla stella. Detto in questi termini sembra la scoperta dell’acqua calda e si fatica persino a capirne l’utilità; anzi, gli astrofotografi più esperti neanche lo vedono come un vantaggio e vedremo presto il perché.

Che i sensori abbiano una risposta lineare all’intensità luminosa che li colpisce non è una cosa scontata. L’altro strumento che usiamo per osservare il mondo, l’occhio, NON possiede una risposta di questo tipo, ma logaritmica: in pratica l’intensità percepita da tutti gli occhi umani cresce con il logaritmo dell’intensità luminosa che lo colpisce. In questo modo, quindi, quando vediamo una sorgente che ci appare il doppio più luminosa di un’altra, la reale differenza di luminosità non è di due volte ma molto più alta. Il caso classico è rappresentato dalla scala delle magnitudini, in cui tra una stella di magnitudine 2 e una di magnitudine 4 non c’è una differenza di 2 volte come suggerisce l’occhio ma di ben oltre 6 volte. Questa curva di risposta meno ripida di una retta consente al nostro occhio di sopportare enormi differenze di luminosità senza avere particolari problemi perché di fatto schiaccia le reali differenze di luminosità e ce le fa percepire come se fossero molto più ridotte di quanto siano. Di fatto, per chi conosce un po’ il gergo della fotografia astronomica, l’occhio umano opera uno stretch logaritmico automatico su ogni immagine che registra.

Perché allora i sensori digitali possiedono una risposta lineare, così differente da quella dell’occhio umano? E perché questa sembra così importante tanto da dedicarle un post? La risposta è semplice: la linearità nella risposta è fondamentale se si vogliono effettuare precise stime di luminosità degli astri. L’introduzione dei sensori digitali nell’astronomia (professionale) ha prodotto una grande rivoluzione che ha consentito di arrivare persino a scoprire la debolissima traccia lasciata da un pianeta extrasolare in transito di fronte al disco luminoso della propria stella.

In ambito prettamente astrofotografico questo che è un enorme vantaggio viene ribaltato e si trasforma in uno svantaggio: gran parte dell’elaborazione di una foto estetica si basa infatti sui cosiddetti stretch, ovvero sull’alterare la risposta portandola da lineare a logaritmica. Questa operazione consente di osservare sullo schermo del computer sia dettagli molto deboli che molto brillanti. Se si fosse avuto un sensore già con una risposta logaritmica come il nostro occhio sarebbe stato quindi più facile ottenere fotografie estetiche, in un certo senso!

In realtà la risposta lineare del sensore serve anche per chi fa fotografia estetica e permette di correggere i principali difetti delle immagini attraverso i dark frame e i flat field. Quest’ultimi sono importantissimi nel poter disporre di un’immagine da elaborare priva di difetti macroscopici e dalla quale potremo discernere molto bene dettagli reali da artefatti dovuti a polvere sul sensore o alla vignettatura del telescopio. Se il sensore non ha risposta lineare per certi livelli di luminosità, i flat field potrebbero non correggere le immagini e il risultato potrebbe essere disastroso.

Chi si dedica alla ricerca, anche in ambito amatoriale, soprattutto fotometrica, ha l’assoluta necessità di sapere se e quanto è lineare la risposta del proprio sensore, altrimenti rischia di misurare magnitudini del tutto sballate rispetto ai dati reali. Ecco allora che ho trasformato un argomento che poco interessava in uno dei mille problemi aggiuntivi che si trovano ad affrontare tutti coloro che usano camere digitali: i sensori hanno una risposta lineare? Se sì, per tutto l’intervallo di luminosità consentito? Come possiamo capire come si comporta il nostro sensore?

Come al solito parto con le notizie brutte: non è scontato che la risposta del sensore sia lineare su tutto l’intervallo di luminosità che riesce a darci, anzi, i sensori delle reflex e in generale tutti quelli dotati di un meccanismo chiamato porta antiblooming (ABG) hanno un ristretto intervallo di linearità. Questo si traduce nell’impossibilità di fare misure fotometriche e spesso anche nella difficoltà quasi estrema di ottenere flat field che correggano bene le immagini estetiche. Quindi, se avete fatto del flat field e avete notato che “non flattano” la risposta potrebbe essere questa: non li avete fatti nell’intervallo di linearità del sensore, che potrebbe essere molto limitato.

La prossima domanda allora è scontata: come misuro l’intervallo di linearità del sensore? Come faccio a capire quando smette di comportarsi bene e inizia a fornire valori sballati di luminosità?

È qui che arriva la bella notizia, perché possiamo fare un test rapido e molto semplice, di giorno e stando comodi dentro casa. Di modi per fare questo test ce ne sono diversi, qui spiego quello più facile, rapido e chiaro. L’idea alla base è chiara: disporre di una fonte di luce fissa e fare una serie di scatti con tempo crescente, in modo da coprire tutta (o quasi) la gamma di luminosità concessa dall’elettronica del sensore. Poi misureremo la luminosità della sorgente in funzione del tempo di esposizione e costruiremo un bel grafico. Se la risposta è lineare, i punti si disporranno su una retta, altrimenti inizieranno a fare strane curve e potremo così individuare l’intervallo di luminosità in cui potremo effettuare i nostri flat field o misurare la luminosità delle stelle senza problemi.

Ora che abbiamo capito l’idea alla base, cerchiamo di metterla in pratica. Intanto la fonte di luce: ideale è una lampada a led, anche una torcia. Se abbiamo una flatbox le cose saranno ancora più semplici. Non è necessario montare la camera su un telescopio ma è sicuramente più comodo. Se non abbiamo grossi problemi, possiamo montare il telescopio in casa e metterci sopra la flat box. L’idea è quella di ottenere dei flat field con diversi tempi di esposizione, idealmente da 1 a 20-30 o più secondi, in modo che la luminosità media dell’esposizione più breve sia attorno a 1000-1500 ADU e quella dell’esposizione più lunga raggiunga la saturazione, circa a 65000 ADU se usiamo camere da 16 bit. In questi casi visualizzare l’istogramma ci sarà molto utile. Se la luminosità della flatbox è troppo forte possiamo inserire un filtro nella nostra fotocamera (tanto la linearità non dipende dalla lunghezza d’onda) o schermare la luce della flatbox con qualche foglio bianco.

A questo punto, in binning 1 (cioè a piena risoluzione) e con il sensore raffreddato (per chi se lo può permettere) effettuiamo degli scatti a esposizioni crescenti, partendo da 1 secondo fino ad arrivare alla saturazione, incrementando di un secondo ogni volta. Ripetiamo questa procedura 3 volte per avere una buona statistica (in pratica alla fine costruiremo 3 grafici indipendenti e vedremo i risultati) che ci permetterà di escludere eventuali variazioni della sorgente di luce. In alternativa possiamo mediare 5-6 singoli scatti per ogni intervallo di esposizione (ognuno dei quali calibrato con dark o con bias), come ho fatto nei risultati che troverete alla fine di questo post. Se abbiamo tempo e un CCD raffreddato, sarebbe meglio catturare circa 3-5 dark frame per ogni esposizione. Naturalmente non servono flat field perché stiamo analizzando di fatto dei flat field. Se abbiamo sensori non raffreddati non facciamo i dark ma i bias: una ventina di scatti con camera al buio e il più breve tempo di posa concesso dall’elettronica.

In fase di elaborazione non dovremo far nulla se non calibrare le nostre esposizioni. Attenzione in questo punto: i bias frame vanno bene per tutti gli scatti, mentre i dark frame sono collegati a ogni esposizione, quindi NON usiamo dark da 5 secondi per correggere le immagini da 2 secondi. So che alcuni software applicano un dark frame adattivo, ma non dobbiamo neanche pensarci!

Con le immagini calibrate adesso passiamo alla fase più noiosa: dobbiamo scegliere un’area di circa 50X50 pixel, sempre la stessa per ogni scatto e illuminata in modo circa uniforme, e annotarci il valore medio di luminosità, espresso in ADU.

In alternativa, se non ci sono forti variazioni di luminosità nell’intero campo, potremo usare tutta l’immagine come area di misurazione. Questo ci evita di dover tracciare un riquadro su ogni esposizione ma la precisione ne risentirà. Se i nostri speciali flat field possiedono variazioni di luminosità superiori al 10% nelle varie zone dell’immagine, siamo costretti a scegliere una piccola area verso il centro e con un’illuminazione più uniforme. La richiesta di luminosità uniforme lungo l’area di cui vogliamo misurare l’intensità luminosa è fondamentale per evitare che la misura venga falsata da porzioni che si trovano già oltre il range di linearità rispetto ad altre.

I programmi per fare questa misura sono quelli tipicamente astronomici, come AstroArt e MaxIm DL. Con MaxIm DL basta aprire l’immagine calibrata che si vuole misurare, visualizzare la finestra “Information Window” (View –> Information Window), e poi da questa scegliere la modalità “Area”. Di default compariranno le informazioni relative a tutta l’immagine, compresa quella che a noi maggiormente interessa: il valore medio della luminosità (Average), espresso in ADU. Se vogliamo o dobbiamo restringere l’area di misurazione, si deve tracciare un rettangolo sull’immagine con il mouse, ciccando con il tasto sinistro, tenendo premuto e trascinando il rettangolo che si formerà. In questo caso è assolutamente necessario annotarsi la posizione e le dimensioni della finestra di misurazione perché dovrà essere identica per ogni immagine che vorremo misurare, nella medesima posizione. Una volta tracciata l’area, la finestra “Information Window” ci darà le sue coordinate (quindi potremo ridisegnarla uguale senza problemi anche sulle altre esposizioni) e naturalmente i valori di luminosità media.

Area di misurazione della luminosità media con MaxIm DL e rispettiva "Information Window".

Area di misurazione della luminosità media con MaxIm DL e rispettiva “Information Window” in cui possiamo trovare la sua posizione e la luminosità media (Average).

 

Analizziamo le immagini

Bene, per ognuna delle immagini calibrate con dark frame o bias frame annotiamoci il relativo tempo di esposizione e il valore medio di luminosità. Importiamo i dati in un foglio di calcolo e cominciamo con le nostre analisi.

Come programma possiamo usare Excel o il gratuito Gnumeric, che funziona sia per Windows che per Linux. In ogni caso le operazioni da fare sono poche e semplici: si tratta infatti di costruire qualche grafico e magari fare una regressione lineare sui dati. Niente paura, spiego tutto nei prossimi punti.

  • Il primo grafico che dobbiamo fare mette in correlazione il tempo di esposizione e il valore medio di ADU misurato per ogni immagine. Sull’asse x va quindi il tempo di esposizione dei nostri speciali flat field, sull’asse y i valori medi di ADU. Da questo grafico, se abbiamo fatto tutte le misure per bene, dovremo trovare dei punti che si dispongono su una retta perfetta: caspita, il sensore è perfettamente lineare allora! No, non necessariamente. Questo è il primo grafico e serve per vedere se ci sono stati errori macroscopici nella fase di acquisizione ed estrapolazione dei dati (o se il sensore fa proprio schifo!). Con il grande intervallo di luminosità sull’asse y è impossibile vedere piccole deviazioni dal comportamento lineare. Quando la situazione può ingannare l’occhio (cioè quasi sempre), ecco che subentra una cosa che gli uomini hanno inventato tanto tempo fa e che i più, ahimé, disprezzano: si chiama scienza, in questo caso un po’ di statistica. La domanda a cui vogliamo rispondere è la seguente: il grafico ci sembra perfetto perché è così o perché siano stati ingannati? La risposta l’ho già data implicitamente qualche riga sopra, meglio quindi procedere spediti per vedere che avevo ragione;
Di primo acchitto il grafico sembra molto bello, ma l'occhio inganna...

Di primo acchitto il grafico sembra molto bello, ma l’occhio inganna…

 

  • A dominare il grafico non sono le probabili piccole deviazioni dal comportamento lineare ma il fatto che la luminosità cambia di migliaia di ADU lungo l’asse Y. Per togliere questo comportamento e mettere a nudo le più piccole imperfezioni del nostro sensore, dobbiamo fare quella che viene chiamata regressione lineare o fit lineare e analizzare i residui. In pratica diciamo al software di “unire” i punti con la migliore retta che è possibile costruire, poi sottrarremo i valori della retta ai punti reali e analizzeremo quelli che vengono chiamati residui, ovvero i punti depurati dell’andamento principale che ci impediva di vedere nel dettaglio il loro comportamento. Se i punti sono davvero tutti sulla retta come sembra dal primo grafico, i loro residui saranno tutti nulli o disposti in modo casuale attorno allo zero, e noi saremo contentissimi perché avremo in tasca il sensore digitale più preciso dell’Universo intero. Tranquilli, non c’è pericolo di cadere in questa eventualità…
    Sembra tutto complicato ma non lo è. Ci sono diversi modi per fare un fit lineare e poi sottrarne i valori ai dati. Con il programma Gnumeric, ad esempio, un modo molto rapido e user friendly è farlo fare in modo grafico al programma. Nelle opzioni di costruzione del grafico (che si attivano quando vogliamo costruire un nuovo grafico o quando facciamo doppio click su uno già creato), se ci posizioniamo sulla serie di dati immessi e clicchiamo sul punsalte “Aggiungi” potremo scegliere una bella “Trend line to serie 1”, in particolare del tipo “Lineare”. Nel nuovo menù che si apre basta accertarsi che l’opzione “Affine” sia selezionata e già potremo vedere una bella retta sovrapposta ai nostri dati.
In gnumeric, in pratica un clone gratis di Excel, possiamo fare tutti i calcoli che vogliamo. In questo caso ci serve un fit lineare e poi magari di visualizzare l'equazione della retta.

In gnumeric, in pratica un clone gratis di Excel, possiamo fare tutti i calcoli che vogliamo. In questo caso ci serve un fit lineare e poi magari di visualizzare l’equazione della retta.

 

  • Non abbiamo ancora finito, però. Clicchiamo ancora su “Aggiungi” e selezioniamo “Equazione to Regressione lineare 1”. Confermiamo tutto e vedremo comparire nel grafico sia la retta di fitting che l’equazione che la descrive. A questo punto dobbiamo creare una nuova colonna nel nostro foglio di lavoro, alla quale applichiamo l’equazione a ogni tempo di esposizione. In questo modo invece di una retta troveremo dei punti che si sovrappongono a essa in modo perfetto. Non c’è bisogno di graficarli; questi ci servono per fare la successiva operazione: creare i residui. I punti appena ottenuti sono quelli che si avrebbero in una situazione ideale in cui la risposta è rappresentata da un’unica e perfetta retta. I nostri punti sperimentali, invece, non avranno questa bella proprietà. Per capire quanto se ne discostano basta creare una nuova colonna in cui calcoliamo la differenza Osservato – Calcolato per ogni tempo di esposizione.

dati_better

  • Proviamo ora a costruire un grafico di questi residui in funzione del tempo di esposizione o, meglio, del valore medio di ADU corrispondente e vedremo che quella che prima era una retta perfetta ora in realtà è molto diversa.
Ora le cose sono più chiare e i dati non sono poi così ben disposti su una retta, che in questo caso dovrebbe essere parallela all'asse x!

Ora le cose sono più chiare e i dati non sono poi così ben disposti su una retta, che in questo caso dovrebbe essere parallela all’asse x!

 

Questo è il grafico davvero importante, perché ci dice come cambia il comportamento del nostro sensore in funzione della luminosità. Nella migliore delle ipotesi vedremo un intervallo lungo fino ad almeno 30 mila ADU in cui i punti si trovano su una retta quasi perfetta e poi divergono. Questo è il caso classico delle camere CCD scientifiche, tipicamente monocromatiche e prive della porta antiblooming.

Nella peggiore delle ipotesi, ovvero nel caso di camere CCD o reflex dedicate all’imaging estetico, le cose saranno ben peggiori, con diversi andamenti di “linearità” prima della saturazione. In questi casi diventa impossibile fare fotometria di alta precisione e spesso è complicato anche fare corretti flat field per riprese con soggetti deboli.

 

Due esempi reali

Ho effettuato il test di linearità appena esposto per due sensori CCD. Il primo, un Kak-402 con microlenti che equipaggia una SBIG ST-7XME, è il tipico sensore scientifico: monocromatico e senza antiblooming. Il secondo, un Kaf-8300 che equipaggia molte camere CCD, in questo caso una Moravian G2-8300 monocromatica, dotato di porta antiblooming, quindi più adatto all’imaging estetico.

I risultati evidenziano molte differenze. Se a prima vista i grafici della luminosità media in funzione del tempo di esposizione sono identici, o addirittura sembrano migliori nella Moravian (ma solo perché non si è raggiunta la saturazione, cosa che è avvenuta con la SBIG):

 

Test di linearità per due sensori CCD. Questi i grafici degli ADU medi in funzione del tempo di esposizione. Ci dicono poco e potrebbero ingannare.

Test di linearità per due sensori CCD. Questi i grafici degli ADU medi in funzione del tempo di esposizione. Ci dicono poco e potrebbero ingannare.

 

 Il fitting lineare con conseguente analisi dei residui rivela la reale situazione:

 Analisi dei residui: ora è fin troppo evidente quale sia il sensore migliore quanto a risposta lineare. Il Kaf 8300 presenta delle vere e proprie montagne russe!

Analisi dei residui: ora è fin troppo evidente quale sia il sensore migliore quanto a risposta lineare. Il Kaf 8300 presenta delle vere e proprie montagne russe!

 

Come si può vedere, la SBIG, a partire da circa 2000 ADU e fino a 25000 presenta una linearità che sfiora la perfezione, con un comportamento da manuale. Gli scostamenti dalla retta ideale sono dell’ordine dello 0,01%, ovvero di una parte su 10 mila. Questo consente ad esempio di mettere in evidenza senza problemi differenze di magnitudine dell’ordine del millesimo e rivelare quindi anche pianeti extrasolari in transito. Oltre i 30 mila ADU il comportamento comincia lentamente a divergere dalla linearità, sebbene bisogna superare i 40 mila per avere una non linearità dell’ordine dell’1%.

D’altra parte il grafico dei residui del Kaf-8300 è molto meno regolare. Si possono vedere almeno tre zone indipendenti, ognuna approssimabile con una retta di diverso coefficiente angolare: la prima fino a 9 mila ADU, la seconda da 10 mila a circa 18 mila e la terza da 20 mila a 30 mila, prima della naturale deviazione asintotica verso i valori di saturazione.  Questo è un problema se si vuole fare fotometria di alta precisione, in pratica impossibile, ma anche per i flat field. Quale valore usare per fare corretti flat field? La risposta forse già l’abbiamo vista da qualche altra parte, ma ora ne abbiamo la prova: per correggere un fondo cielo che tipicamente ha valori di poche migliaia di ADU, occorre che il flat field sia fatto nel primo intervallo di linearità, ovvero quello fino a 9000 ADU. In pratica, un buon flat field per un sensore di questo tipo è la media di tanti singoli flat che hanno come luminosità di picco circa 8000, massimo 9000 ADU. Per la ST-7XME invece, e in generale per tutte le camere sprovviste di porta antiblooming, i flat field si possono fare attorno a 25 mila ADU, in modo da avere il maggior rapporto segnale/rumore pur rimanendo ancora entro la zona perfettamente lineare.

 

Il test può essere fatto anche con le reflex senza problemi: basta scattare in formato raw agli ISO che di solito si usano per fare riprese astronomiche. In questo caso sarebbe interessante capire se e quanto varia la linearità della risposta in funzione degli ISO e in generale come si comportano questi sensori. Basta provare!

Qualche consiglio sul primo telescopio

E’ la domanda più classica di tutte, che mi viene fatta spesso. Invece di rispondere privatamente uno per uno ripetendo, alla fine, sempre gli stessi concetti, ecco qua qualche consiglio spicciolo per acquistare un telescopio.

Il primo consiglio è di essere consapevoli. Acquistare un telescopio è solo il coronamento di un percorso di apprendimento del cielo che deve essere già stato fatto. Sappiamo riconoscere le costellazioni? Sappiamo cosa aspettarci dall’osservazione al telescopio? Abbiamo già usato un binocolo? Se la risposta è no, allora facciamo un passo indietro necessario per evitarci cocenti delusioni. Acquistiamo delle carte celesti, o scarichiamoci qualche app di simulazione del cielo, cominciamo a riconoscere le costellazioni, la stella polare, a capire come si muove il cielo. Acquistiamo un binocolo astronomico, magari un 10X50, e iniziamo a fare pratica con questo, perché le cose che potremo vedere saranno molte e già spettacolari. Frequentiamo un’associazione astrofili, che ci farà provare diversi ottimi telescopi e alla fine saremo pronti per il grande salto.

Approfondiremo questi singoli argomenti (il cielo a occhio nudo e con un binocolo) in altri post, perché qui assumiamo che il cielo lo conosciamo e siamo in grado di fare una scelta consapevole.

Ci sono delle domande che dobbiamo porci per acquistare il primo telescopio, con la consapevolezza che non esiste lo strumento ideale che faccia tutto in modo perfetto:

  • Quanto sono disposto a spendere? Un telescopio è uno strumento di precisione, non un giocatolo, che quindi ha un costo. Se siamo disposti a spendere diverse centinaia di euro per uno smartphone che dovrà essere sostituito dopo un paio d’anni, perché non spendere qualche centinaio di euro almeno per il primo telescopio che può durare una vita? Uno smartphone per andare su Facebook merita davvero un budget maggiore di un telescopio che ci farà esplorare l’Universo? Detto questo, il budget minimo dovrebbe essere sui 200-300 euro. Sotto questa cifra compreremo solo dei costosi giocattoli;
  • Da dove osservo? Molti oggetti celesti hanno bisogno di cieli scuri. Se ci troviamo in città non potremo mai sperare di osservare galassie, nebulose e ammassi stellari in modo soddisfacente, quindi sarà inutile comprare un telescopio ingombrante e in teoria potente, quando la grande luce della città non ce lo farà mai usare bene;
  • Cosa voglio osservare principalmente? Pianeti e Luna, magari anche qualche ammasso stellare, oppure oggetti del cielo profondo come galassie e nebulose?
  • Devo spostarmi per cercare un cielo scuro? Se sì, allora meglio non comprare un telescopio lungo più di un metro che non entra nella nostra utilitaria;
  • Vorrei fare delle foto serie in futuro, al di là di qualche scatto alla Luna?

Quante domande! Nessuna paura, adesso facciamo chiarezza, magari iniziando con qualche consiglio utile:

  1. Se il budget è limitato a poche centinaia di euro, meglio non scegliere un telescopio computerizzato perché per mantenere basso il prezzo bisogna sacrificare la potenza ottica. E cosa ce ne facciamo di un’elettronica che trova gli oggetti, se poi il telescopio non ce li fa vedere? In altre parole: se la coperta è corta meglio dare spazio al diametro e meno all’elettronica. In ballo ci sono centinaia di euro di differenza tra uno strumento “manuale” e uno stesso dotato di elettronica, che però hanno la stessa “potenza”;
  2. Il mercato propone strumenti già pronti, qundi equipaggiati di treppiede, montatura e telescopio, ma questo non toglie che noi possiamo creare lo strumento che vogliamo acquistando a parte montatura e tubo ottico.
  3. Per fare fotografia astronomica attraverso il telescopio serve necessariamente una montatura equatoriale che spesso costa molto più del telescopio stesso. Le montature equatoriali che equipaggiano gli strumenti di piccolo diametro saranno adeguate per fare qualche scatto ai pianeti attraverso lo strumento o per fare foto a grande campo senza usare il telescopio, a patto di motorizzarle in ascensione retta. Non serve il puntamento automatico e non bisogna usare montature altazimutali. Non acquistiamo quindi il primo telescopio sperando di poterci fare splendidi scatti a nebulose e galassie, ma al limite solo per iniziare a imparare i rudimenti della fotografia astronomica, che rappresenta uno step successivo e molto più costoso.

Bene, adesso passiamo ai consigli più mirati, tenendo presente che queste sono indicazioni di massima e fatte sulla base della mia esperienza.

    Un rifrattore acromatico da 90 mm su una piccola montatura equatoriale: un ottimo inizio per Luna e pianeti

Un rifrattore acromatico da 90 mm su una piccola montatura equatoriale: un ottimo inizio per Luna e pianeti

Per osservare pianeti e Luna, anche da cieli non bui come quelli di città e pianura, e magari avere la possibilità, in futuro, di fare qualche foto, ci serve un telescopio su montatura equatoriale. Lo strumento ideale è un rifrattore acromatico o un Mak da 90 mm (meglio 127 ma saliamo di budget) su una montatura equatoriale almeno EQ3-EQ3.2 (o NEQ3). Questa configurazione sarà poi personalizzabile in futuro. Si potrà scegliere di cambiare il tubo ottico con uno più potente, visto che una EQ3 può reggere bene, in visuale, anche strumenti più potenti come il classico C8, uno Schmidt-Cassegrain popolarissimo. Si potrà scegliere di aggiungere la motorizzazione e persino un GOTO (puntamento automatico). La montatura, poi, potrà essere usata anche come base per fare fotografia astronomica con obiettivi fino a 300 mm di focale o piccoli telescopi da 60-70 mm di diametro, dotandola anche solo di un semplice motorino, molto più economico del GOTO.

Per capire la differenza tra uno sturmento con elettronica e uno della stessa “potenza” ma senza elettronica, qui c’è un rifrattore da 90 mm manuale su una piccola montatura equatoriale che potrà essere motorizzata per pochi euro, mentre qui c’è uno strumento di uguale potenza su una montatura altazimutale computerizzata: potenza uguale ma al costo di 200 euro in più e senza la versatilità di una piccola montatura equatoriale (che ad esempio potrà essere usata come astroinseguitore per fare foto a grande campo togliendo il telescopio). Da tenere in mente che se osserviamo dalla città ci potremo dedicare solo a Luna, pianeti e qualche stella doppia: tutti oggetti molto facili da trovare a mano attraverso il cercatore.

 

Newton GSO da 150 mm su montatura EQ3 manuale: un ottimo inizio per il profondo cielo, con uno sguardo alla fotografia astronomica (non attraverso lo strumento!)

Newton GSO da 150 mm su montatura EQ3 manuale: un ottimo inizio per il profondo cielo.

Se abitiamo sotto cieli molto scuri e/o abbiamo la possibilità, nonché l’intenzione, di trasferirci verso le Alpi o gli Appennini per fare osservazioni degli oggetti del cielo profondo, senza precluderci la possibilità di imparare a fare qualche foto, allora strumenti da 90-100 mm ci staranno stretti perché nebulose e galassie vogliono grandi diametri. In questo caso la configurazione ideale sarebbe quella di un telescopio newtoniano da 150 mm, proprio su montatura EQ3. Difficile salire con il diametro mantenendo la configurazione Newton, perché servirebbe una montatura più robusta, quindi costosa. In alternativa, però, uno Schmidt-Cassegrain da 150-200 mm, sulla stessa montatura, potrebbe essere un setup leggero e tuttofare, adatto sia per la città che per i cieli scuri. Il problema? Che costa più di un semplice Newton da 15 cm di diametro. In questi casi il puntamento automatico potrebbe essere utile per trovare con rapidità gli oggetti celesti. Se non vogliamo rinunciarci dobbiamo aggiongere i soliti 200-300 euro, a parità di diametro dello strumento e di montatura.

 

 

 

    Un dobson da 200 mm è la scelta migliore per spazzolare nebulose, galassie e ammassi, a patto di avere un cielo buio.

Un dobson da 200 mm è la scelta migliore per spazzolare nebulose, galassie e ammassi, a patto di avere un cielo buio.

Se disponiamo di cieli scuri e non siamo interessati alla fotografia a lunga posa, ma magari ci accontenteremo di qualche scatto alla Luna, allora via la montatura equatoriale, che spesso costa più del telescopio vero e proprio, e dirigiamoci verso le configurazioni Dobson: in pratica un tubo ottico in configurazione Newton (la più economica) che poggia su una spartana base in legno. Non potremo motorizzarla (almeno non con poco denaro) e non ci permetterà mai di fare foto a lunga posa come una montatura equatoriale (neanche se la motorizziamo!) ma per lo stesso costo avremo a disposizione uno strumento molto più potente dal punto di vista ottico. In questo caso un Dobson da 200 mm di diametro è uno strumento che sotto un cielo scuro ci farà già vedere cose meravigliose. Se vogliamo spendere meno possiamo considerare il fratello minore da 150 mm. Meglio non esagerare con il diametro oltre questo valore perché aumenterà il peso, l’ingombro e la difficoltà di gestire un telescopio alto quasi quanto noi.

 

Se siamo già determinati e vogliamo fare un acquisto una volta per tutte, allora le possibilità sono due:

  • Montatura HEQ5, EQ6 o equivalenti Ioptron e Celestron, con GOTO, e uno Schmidt-Cassegrain da 200 mm (il classico C8, ad esempio) se vogliamo fare fotografie e buone osservazioni sia dei pianeti che del profondo cielo;
  • Dobson da 10-12 pollici, di qualsiasi marca, eventualmente con GOTO, ma solo se potremo sfruttarlo sotto cieli scuri (e se riusciamo a trasportarlo!), se siamo interessati solo all’osservazione. Avere a disposizione uno strumento da più di 20 cm per fare osservazioni del cielo profondo ha senso solo se lo potremo portare sotto cieli non compromessi dall’inquinamento luminoso.

 

Qualsiasi sarà la vostra scelta, ricordate un paio di cose:

Elaborazione di una mia immagine: ecco i risultati!

Poco più di due settimane fa ho reso pubblici i file grezzi di una mia immagine astronomica, chiedendo a tutti gli interessati di elaborarla, a condizione di elencare i passaggi fatti e i software utilizzati. Ne è venuto fuori un progetto molto interessante, con la partecipazione di molti appassionati ed esperti di fotografia astronomica che hanno interpretato secondo il loro gusto personale i dati che avevo messo a disposizione. In questo post sono raccolte tutte le elaborazioni di chi ha partecipato, corredate di foto finali, di passaggi effettuati e a volte persino di screenshot e di processi eseguiti, in modo che chiunque possa riprodurre il risultato.

Prima di lasciarvi alle elaborazioni, mi piace tirare delle conclusioni, che per alcuni sono ovvie ma per altri meno:

  • Ogni immagine ha un impatto diverso su chi la osserva perché c’è una componente di interpretazione personale nel restituire i colori e i contrasti. Non troverete quindi due immagini uguali, ma…;
  • A prescindere dall’impatto estetico, un’attenta analisi mostra che tutte le elaborazioni mostrano circa gli stessi dettagli. Cambiano i contrasti, il livello di rumore, i colori, la saturazione… ma la forma, le dimensioni e la presenza o meno dei dettagli sono uguali per ogni foto e questo significa due cose: a) nessuno ha barato creando artefatti più o meno voluti e b) La fotografia astronomica non è arte ma deve rispecchiare la realtà. Non è foto ritocco ma elaborazione, spesso con metodi e processi rigorosi, che mira a mostrare nel miglior modo possibile ciò che è stato catturato e non ha lo scopo di migliorare in modo arbitrario i dettagli laddove il segnale non c’è;
  • A prescindere dal gusto personale, dalle ricette e persino dai software usati, quando si applica un buon procedimento di elaborazione il risultato tende a convergere e prescinde da cosa si è utilizzato per arrivarci. Ci sono software più specifici, altri meno; altri ancora sono potentissimi e alcuni richiedono più manualità da parte dell’utente ma alla fine, quando si ha una minima padronanza dei processi e si ha ben chiaro il legame stretto tra la fotografia e la realtà, i risultati convergono. Alcuni utenti meno esperti hanno forse esagerato abbassando curve e livelli e facendo quasi scomparire le tenui volute di polvere che abbracciano tutto il campo. E’ in questo caso che entra in gioco l’esperienza di elaborazione e la conoscenza del soggetto che si è ripreso. Questo significa che la fotografia astronomica non si improvvisa ma che sotto c’è un grande lavoro di esperienza e di studio, sia delle tecniche che dei soggetti astronomici.

Detto questo, vi lascio alle elaborazioni degli utenti che hanno partecipato a questo progetto, ringraziandoli pubblicamente.

La mia elaborazione, invece, corredata da tutti i passaggi fatti ed eseguita con software differenti rispetto alla maggioranza dei collaboratori, la trovate scaricando questo PDF. In fondo all’articolo è possibile visualizzare il collage di tutte le elaborazioni fatte per avere una panoramica d’insieme.

Elaborazione di: Daniele Gasparri

Elaborazione di: Daniele Gasparri

 

Ruggiero Carpagnano

Partendo dal file grezzo ho usato solo Pixinsight. Ho allegato uno screen shot dei processi usati.

Prima ho croppato l’immagine, poi ho usato il DBE. Dopo sistemato il fondo cielo e calibrato i colori con il Backgroundcalibration e il Colorcalibration. Successivamente ho applicato uno stretch STF sull’histogramtrasformation.

Ho creato una maschera di luminanza, l’ho clonata e dalla seconda mi sono creato una maschera di stella con Trouswavelet e l’ho sottratta alla prima maschera per averne una solo della nebulosità.

Ho applicato quest’ultima maschera alla foto e ho alzato un po la saturazione con le curve e poi un pochino (ma proprio poco) la curva del rosso per esaltare la nebulosità oscura.

Con Clonestamp ho eliminato i pixel caldi colorati.

Mantenendo applicata la maschera ho dato un paio di passati al 35% con LHE (uno con il Kernel basso ed uno alto) per esaltare il contrasto.

Un paio di passaggi di HDR per recuperare il nucleo.

StarMask e Morphologic per ridurre le stelle e una leggera deconvoluzione.

Con la maschera di stelle applicata ho cercato di sistemare la dominante gialla sulle stelle con al curva giallo/celeste.

Una passattina di ACDRN per il rumore

Ed una correzione con SCNR per eliminare il verde in eccesso.

Elaborazione di: Ruggiero Carpagnano

Elaborazione di: Ruggiero Carpagnano

 

Davide De Col

Ecco la mia versione della tua immagine con i seguenti passaggi interamente in Pixinsight:

  • Crop
  • Pulizia dei gradienti con il DBE
  • Background neutralization
  • Color calibration
  • Deconvoluzione
  • Masked stretch
  • Curve con saturazione e luminanza
  • ACDNR
  • Histogram transformation
  • Local histogram equalization per provare a dare profondità
  • Riduzione stelline
  • Saturazione stelline
  • Tgvdenoise
  • HDRmultiscaleTransform
  • Riduzione del rumore
  • SCNR
Elaborazione di: Davide De Col

Elaborazione di: Davide De Col

 

Paolo Demaria

Come software ho impiegato CCDStack (gestione colori, DPP e deconvoluzione), PixInsight LE (saturazione) e Photoshop CS2 (livelli, curve con maschere, riduzione rumore e correzione hotpixel).

Elaborazione di: Paolo Demaria

Elaborazione di: Paolo Demaria

 

Piermario Gualdoni

Ho aderito al tuo suggerimento per quanto riguarda l’elaborazione della tua Iris Nebula e la condivisione delle tecniche utilizzate.
Premetto che io riprendo con CCD mono, per cui il mio workflow è un pò diverso da quello che ti descriverò, comunque molti punti sono in comune. Sono partito dal tuo file già calibrato:
1) Preprocessing in Pixinsight:
– Histogram Transformation per lo stretching
– Automatic Background Extraction in divisione

2) Salvataggio come TIFF 16bit e Importazione in Photoshop CC dove effettuo quasi tutto il processing estetico:
– Applicazione della corrispondenza colori
– Denoise selettivo sulle zone a basso segnale con Topaz Denoise
– In camera raw aumento del contrasto, della saturazione e variazione della temperatura colore a gusto personale
– Riduzione dei diametri stellari con filtro minimo
– Aumento del colore sulle stelle tramite maschera di livello
– Aumento della nitidezza a zone tramite selezione sfumata
– Applicazione di Detail Extractor e Pro Contrast tramite plug in Nik Suite
– Finitura dei colori tramite correzione colore selettiva
– Ottimizzazione finale a gusto personale

Elaborazione di: Piermario Gualdoni

Elaborazione di: Piermario Gualdoni

 

Domenico De Luca

Ciao Daniele ti allego il JPG. Ho usato PixInsight e Photoshop; i tool te li elenco in sequenza.

1) PixInsight:

-Background Neutralization

-Color calibration

-Dynamic Background Extraction

-Histogram strech per passare a foto non lineare

-Dark structure ehnance

-Deconvoluzione

-HDR

-Saturazione

-Multiscale Median Trasform

2) Passaggio in Photoshop:

-Colore selettivo

Elaborazione di: Domenico De Luca

Elaborazione di: Domenico De Luca

 

Edoardo Luca Radice

Innanzi tutto ho ripetuto la calibrazione e l’integrazione in modo da cancellare gli hot pixel presenti nell’immagine.
Non ho usato i flat perché mancano i relativi dark e/o i BIAS (con i quali avrei potuto riscalare i dark dei light) e quindi è impossibile rimuovere la componente additiva dal master flat.
Visto che c’erano dei gradienti da I.L. abbastanza invadenti ho deciso, prima di fare l’integrazione, di applicare ABE (Automatic Background Extractor) a tutti il light impostando a 1 il grado del polinomio interpolatore, in questo modo ottengo un background col gradiente lineare che rimuove gran parte dell’inquinamento luminoso. Per farlo ho creato un image container per eseguire l’operazione in batch su tutti il light.
Fatto ciò ho integrato le immagini usando come peso la stima del rumore e un algoritmo di pixel rejection in modo da cancellare gli hot pixel senza degradare il segnale (Winsorized Sigma Clip)
Terminata l’integrazione ho eseguito un Crop per eliminare le aree non perfettamente sovrapposte.

Questi sono stati i passaggi di elaborazione:
– DBE (Dynamic Background Extractor) con correzione a divisione (per correggere la vignettatura e neutralizzare il fondo cielo);

– Ho applicato un RGB working Space uniforme e lineare (propedeutico alla deconvoluzione di immagini RGB);
– Deconvoluzione con una PSF gaussiana da 1,6 pixel usando un’opportuna maschera stellare per il deringing;
– Riduzione del rumore utilizzando TGVDenoise;
– Aggiustamento manuale dei colori con AssistedColorCalibration;
– Delinearizzazione, prima con una lieve trasformazione di istogramma, poi con MaskedStretch in modo da esaltare le parti deboli senza saturare il centro della nebulosa;
– Ripristino dell’RGBWorkingSpace sRGB (gamma 2.2);
– Compressione del Range Dinamico con HDRMultiscaleTranform utilizzando un’opportuna maschera di luminanza per non comprimere troppo le parti deboli;
– Sistemazione del contrasto tramite classica “curva ad S” con i canali RGB come target;
– Accentuazione delle zone scure tramite LocalHistogramEqualization anche qui con la consueta maschera di luminanza per non “uccidere” le parti deboli;
– Applicazione di una curva di saturazione (con la stessa maschera di LHE) per aumentare un pochino il colore;
-tocco finale con SCNR per rimuovere una il rumore verdastro ancora presente sulle parti più deboli.

Edorardo ha anche messo a disposizione le icone di processo utilizzate in PixInsight per reflicare i suoi risultati. Si possono scaricare qui.

Elaborazione di: Edoardo Luca Radice

Elaborazione di: Edoardo Luca Radice

 

Maximilian Iesse

Per mancanza di tempo sono passato direttamente alla elaborazione del “grezzo finale”.

Vado con ordine per i passaggi e programmi utilizzati:

Pixinsight:

  1. Dynamic crop: per ritagliare e lasciare fuori l’effetto mosaico
  2. Automatic background extractor, 1 volta in sottrazione ed una volta in divisione
  3. Color calibration
  4. Histogram transformation: per “strechare” l’immagine, in più passaggi
  5. HDR multiscale transformation: per cercare di recuperare un poco la parte interna alla nebulosa essendo un po’ bruciata
  6. Deconvolution: per aumentare la nitidezza, parametro StdDev portato a 1 per minimizzare gli artefatti

Paintshop:

  1. Mappatura toni locali: per contrastare maggiormente le nebulosità

Photoshop:

  1. Creata una maschera con la bacchetta magica, a partire dalle parti non luminose, lasciando fuori stelle e parti più visibili della nebulosa
  2. Riduci il rumore: per ridurre un po’ il rumore dovuto alla deconvoluzione
  3. Dopo aver invertito la maschera, ho fatto la correzione colori selettiva, lavorando per lo più su rossi e blu.
  4. Con il comando clone ho rimosso i difetti di pixel più evidenti

Questi sono i passaggi che ho fatto.

Il coma non ho idea di come correggerlo in post produzione.

Elaborazione di: Maximilian Iesse

Elaborazione di: Maximilian Iesse

 

Rossano Cortona

E stato usato esclusivamente Pixinsight:

1)    Histogram Trasformation

2)    Dynamic crop

3)    Automatic background extractor

4)    Background neutralization

5)    HDR multiscale trasform

6)    Star mask

7)    Morfological tranformation

8)    Mask invert

9)   Courve trasformation

10) ACDNR

11) Luminance Mask

12) Courve trasformation

13) DarkStructureEnhance

Elaborazione di: Rossano Cortona

Elaborazione di: Rossano Cortona

 

Elisabetta Trebeschi

Ciao, ho provato a elaborare il tuo file con il metodo che utilizzo ultimamente. Sw usati DSS, Lightroom (per abitudine sarebbe stato uguale e più ordinato con camera raw) e Photoshop.

1 – prima di tutto ho aperto il tuo file fits su DSS (NON ho fatto l’elaborazione da zero con lights – dark – flat);

2 – ho cliccato su azzera per riportare ai valori di default nei tre tabs (rgb/luminanza/saturazione);

3 – ho allineato i tre livelli rgb, una piccola correzione alla curva ed ho aumentato la saturazione a 15%, poi ho salvato in tiff 16bit;

4 – ho importato il file su Lightroom* e dato le impostazioni base, curve di viraggio e dettagli

– sulla destra ho clonato dei pixel verdi;

5 – ho aperto il file in photoshop per applicare il filtro “minimo” sulle stelle per rimpicciolirle:

Selezione->intervallo colore e con il contagocce ho selezionato una stella per ammorbidire la selezione. Selezione->modifica->espandi 4px. Selezione->modifica->sfuma 2px. Filtro->altro->minimo. Modifica->dissolvi minimo; dove non indicato ho lasciato le impostazioni di default.

 

* non pensavo di applicare il filtro minimo in photoshop altrimenti avrei aperto il file tid da lì usato il filtro Camera Raw per dare le impostazioni date con LR.

Elaborazione di: Elisabetta Trebeschi

Elaborazione di: Elisabetta Trebeschi

 

Alessio Vaccaro

In allegato c’è il mio “lavoro”. Cavolo! è la prima volta che metto mano su un CCD del genere! Fino ad ora ho solo lavorato con una Canon EOS 60D. Ho avuto un bel po’ di difficoltà a lavorare con i FITS a 32bit, non ci sono abituato!

Ecco il processing, più o meno dettagliato:

–          Dal grezzo che mi hai dato ho estratto un MONO con MaximDL;

–          A questo canale MONO applico una deconvoluzione “Maximum Entropy” con molte iterazioni (40-50) (sempre con MaximDL);

–          Dopo la deconvoluzione salvo il tutto in FIT 32bit. Apro il MONO_DEC appena salvato con PixInsight LE e, dopo aver fatto lo stretching logaritmico dell’istogramma, rimuovo un po’ di rumore alle basse frequenze (Wavelets) e alle alte (SGBNR). Salvo in TIF 16bit. Il MONO_DEC è pronto per Photoshop. Ora passo all’RGB;

–          Apro il file RGB (praticamente quello che mi hai dato tu) con MaximDL e faccio un binning 2×2. Salvo in FIT 32 bit;

–          Apro questo file con PixInsight e faccio lo stretching logaritmico stando attento a non tirare su troppo rumore. Salvo in TIF 32bit;

–          Apro i due file MONO_DEC e RGB su Photoshop e inizio a fare un trattamento separato sui due;

–          Il MONO_DEC prima viene smoothato da un paio di sfocature gaussiane poco evidenti che applico in modalità “schiarisci” e “normale” per appiattire il fondo cielo e per aumentare la profondità dell’immagine;

–          Dopo applico un Passa Alto sul MONO_DEC per risaltare i dettagli della nebulosa. Questo lo faccio con 2 raggi diversi: uno piccolo (dell’ordine dei 20-30px) e l’altro intorno ai 150-300px. Ovviamente tutto questo con le maschere e su dei livelli diversi che vengono “sovrapposti”. La luminanza è pronta;

–          Importo l’RGB su Photoshop, sistemo un attimo le curve e i livelli, aumento la saturazione e lo sovrappongo a tutti i livelli in modalità “colora”. Un po’ di ritocchi al colore (bilanciamento, curve, livelli, ecc..) a piacimento e poi è fatta;

–          Unisco tutto: ottengo l’immagine. Tocco finale che aumenta la profondità dell’immagine e dà un tocco un po’ più “magico” al tutto: prendo l’immagine appena ottenuta, la copio, la sovrappongo alla stessa, applico una sfocatura di 4-5 px e la metto in modalità “schiarisci”. Si ottiene quello che vedi!

Un bel casotto! Ci sono parecchi passaggi da programma in programma per compensare la mancanza di licenza in alcuni programmi (funzioni limitate). Questo è un workflow che ho “studiato”/scoperto/perfezionato in questi giorni, spero che il risultato sia di tuo gradimento!

Elaborazione di: Alessio Vaccaro

Elaborazione di: Alessio Vaccaro

 

Vincenzo Iodice

Mi sono permesso di realizzare queste elaborazioni, discutibili, però mi è piaciuto mettere in evidenza le nebulosità che sembrano siano presenti intorno alla IRIS. Nella prima foto le ho evidenziate in rosso, nella seconda in blu.

Le operazioni che ho fatto sono semplicemente, importarle ed elaborarle in DSS i light, dark e flat, inserendo il debayer giusto. All’elaborazione finale in DSS ho solo settato la saturazione a 18 per far emergere un minimo di colori.

In seguito ho aperto il file TIF con PS, ed ho solo giocato con i valori tonali e di saturazione mettendo in evidenza ora il rosso ora il blu.

Infine ho applicato i filtri polvere e grana e maschera di contrasto per aumentare un po’ il contrasto tutto qui.

Il risultato non è eccelso, ma le mie conoscenze si fermano qui.

Termino complimentandomi per i sui articoli sul blog sono molto utili.

Elaborazione di: Vincenzo Iodice

Elaborazione di: Vincenzo Iodice

 

Cristian Mari

Sono partito dallo stack, non so perchè pixinsight non voleva allinearmi i vari light ma va bene lo stesso.

Elaborazione eseguita totalmente in pixisight
Fase Lineare:

  • Dynamic PSF su una trentina di stelle;
  • Creata maschera stellare da utilizzare come deringhingh template nel processo di deconvoluzione, a cui passi pure l’immagine risultante del dynamyc psf;
  • Applicata la deconvoluzione con una 50 ina di passaggi;
  • Split dei 3 canali RGB e applicato processo linear fit prendendo come riferimento il canale verde;
  • Ricomposizione in rgb da channel combination;
  • Trasformazione in non lineare da ScreenTransferFunction applicato all’histogram transofrmation.

Fase non lineare:

  • Creazione di una maschera stellare ottenuta in pixel math dalla max() di tre maschere create su tre livelli di intensità e dimensione stellare;
  • Applico la starmask invertita per lavorare sulle polveri;
  • Sempre con la maschera attivata applico un processo di HDRMultiscaletransform lasciando i parametri di default;
  • Giocherello sulle curve;
  • Inverto la maschera per lavorare sulle stelle e applico una deconvoluzione leggera a 10 passaggi;
  • ColorSaturation per aggiustare l’azzuro e salvataggio in jpg.
Elaborazione di: Cristian Mari

Elaborazione di: Cristian Mari

 

Marco Boscolo

Ciao, ho ottenuto questa elaborazione eseguendo questi passaggi:
DEEP SKY STACKER
– selezione 90% delle immagini migliori (25 su 31)
– Impostazioni immagine –> taglio mediano kappa-sigma (K=2 , iterazioni = 5)
– Dark –> mediano
– flat mediano
Ottenuta l’immagine:
– Luminanza: mezzitoni = 48.8, Chiari = 30
– Saturazione = 20%
– Livelli RGB portati all’altezza del primo flesso inferiore della curva
-Salvataggio tiff applicando i cambiamenti

PHOTOSHOP:
– ritaglio immagine per migliorare l’inquadratura dovuta alla rotazione di campo
– regolazione livello neri
– aprendo una copia dell’immagine a parte in scala di grigi esalto i dettagli nebulari (esagerando per tirar fuori il più possibile)
e applico un leggero passaggio di noise ninja
– Copio questa immagine ottenuta nell’immagine principale impostando la tendina di somma livello da “Normale” a “Luminosità” e setto opacità al 75%
– ricalibro i livelli
– aumento saturazione +30
– applicazione del plugin (gratuito) HLVG
– riduzione del rumore mediante azione “deep noise reduction” ( il livello ottenuto lo sommo a 50% per non perdere troppo dettaglio)
– applico azione local contrast enhancement sommando( il livello ottenuto lo sommo a 30%)

Elaborazione di: Marco Boscolo

Elaborazione di: Marco Boscolo

 

Marco Burali

Partito dal file già preparato con colore. In maxln-dl sviluppato il segnale con ddp a controllo curva in manuale usando l’impostazione set-user-filter, poi ho applicato una seconda funzione ddp in modalità FFT-deconvolutiva e di contrasto, anche qui controllo curva segnale in manuale, leggero filtro locale adattivo per aumentare leggermente il contrasto, riequilibtio colore con la funzione Color-Bilance sul fondocielo salvato in Tiff: Portato in PS6, apertura con Camera Raw, regolazione contrasto e Chiarezza, poi leggerissimo ritocco con Esposizione gamma per la riduzione del rumore di fondo, conversione profilo in CMYK, regolazione livelli e allineamento istogramma, riconversione in RGB, regolazione bilanciamento colore, protezione delle stelle e apertura plug-in NIK e utilizzo della funzione Color-Efex- Detail Estractor saturazione colore al 30% e valore di estrazione sagnale al 12%, in modalità selezione inversa, apertura di maschera di livello e regolazione livelli RGB sulle polveri. Unito tutto in unico livello, selezione nucleo- sfumatura e ottimizzazione del contrasto e regolazione dei livelli rgb, deselezione e salvataggio. Lavoro molto sbrigativo ma secondo me buono. Spero di essere stato utile

Elaborazione di: Marco Burali

Elaborazione di: Marco Burali

 

Anna Luongo

  • tono automatico
  • colore automatico
  • livello automatico
  • curve output 62 input 19
  • filtro rc astro grandientxterminator
  • azioni astronomy tools  lighten only DSO and dimmer stars
  • increase star color
  • fade sharpen to mostly lighten
  • space noise reduction
  • enhance dso and reduce stars
  • lazo selezione centrale sfuma 18 maschera di contrasto fattore 96 raggio 3 soglia 0
  • selezione inversa curve output 98 imput 41
  • e poi ho salvato….
  • non sono riuscita a capire come fare a mettere in evidenza i colori…..

 

Elaborazione di: Anna Luongo

Elaborazione di: Anna Luongo

La (vera) potenza di un telescopio

“Che bello questo telescopio, quanto ingrandisce?”

È questa la domanda che spesso mi fanno durante le serate pubbliche, ed è la stessa domanda che feci io al mio ottico di fiducia quando dovetti scegliere il mio primo strumento, nel lontano 1993.

Se la domanda è sensata, la risposta è spesso spiazzante, soprattutto nelle sfumature più ironiche, che possono suonare più o meno così: “In teoria anche un milione di volte”, oppure: “Niente, se non ci metti l’oculare”, o ancora: “Infinito!”. Benché ironiche, queste tre risposte raccontano a modo loro i pezzi di una realtà che spesso spiazza chi non conosce ancora il mondo dell’astronomia amatoriale: l’ingrandimento di uno strumento può essere piccolo o grande a piacere, perché dipende dagli oculari che si usano, ma l’immagine che otterremo non sarà sempre nitida e luminosa.

A livello prettamente matematico, l’ingrandimento di uno strumento è dato dal rapporto tra la focale del telescopio, che è fissa, e la focale di un accessorio, che si chiama oculare e che serve per rendere visibile l’immagine all’occhio. Di oculari ce ne sono moltissimi, dalla focale di 2 millimetri a 40 e più millimetri. Inoltre, altri accessori, chiamati lenti di Barlow, possono raddoppiare, triplicare o addirittura quintuplicare gli ingrandimenti, a parità di oculare. Di conseguenza, un telescopio da 1000 mm di focale può lavorare da 10 a 2000 ingrandimenti o più, se inseriamo 2 lenti di Barlow da 5X. “Caspita, a 10 mila ingrandimenti riuscirò a vedere persino la bandiera lasciata dagli astronauti sulla Luna!” No, purtroppo le cose non stanno così. Io, a 10 anni, quando iniziai a fare astronomia non lo sapevo, ma presto mi resi conto di tutto ciò quando comprai un oculare da 4 mm di focale e una lente di Barlow 2X, superando i 400 ingrandimenti con il mio piccolo rifrattore da 90 mm di diametro e vedendo praticamente nulla persino sulla brillante Luna.

L’ingrandimento di ogni telescopio non rappresenta una misura della sua “potenza”, piuttosto è solo il mezzo con cui cerchiamo di sfruttare al massimo le sue prestazioni, che sono fissate dal diametro dell’obiettivo e dalla qualità con cui sono stati lavorati lenti e specchi.

Le quantità fondamentali di uno strumento astronomico sono la capacità di raccolta della luce, che permette di osservare oggetti più deboli di quelli visibili a occhio nudo, e il potere risolutivo, ovvero la capacità di mostrare piccoli dettagli degli oggetti astronomici. Entrambe queste due quantità dipendono prima di tutto da quanto è largo il telescopio, cioè dal diametro delle lenti o dello specchio primario. Questi elementi ottici devono naturalmente essere lavorati in modo preciso, affinché non ne vengano intaccate le prestazioni determinate dalle leggi della fisica. Ecco, allora, perché non è possibile costruire un telescopio con una semplice lente di ingrandimento o con uno specchio da barba che ingrandisce le immagini: la loro lavorazione è di gran lunga insufficiente per fare osservazioni anche solo decenti.

Se la qualità con cui sono lavorati gli elementi è buona, il diametro rappresenta l’unico (o quasi) elemento per valutare la potenza di un telescopio, perché è questo che determina il potere risolutivo e quanta luce posso raccogliere dagli oggetti deboli. Attraverso l’ingrandimento si cercherà di arrivare al limite delle possibilità del telescopio, ma non potremo mai aumentarne le prestazioni oltre quelle determinate dal suo diametro (e qualità ottica).

Se ora inseriamo nel contesto anche gli oggetti astronomici che ci piacerebbe osservare, si capisce anche un’altra cosa che a me, tanto tempo fa, stupì non poco: tranne i pianeti, tutti i più brillanti oggetti del cielo profondo, ovvero ammassi stellari, nebulose e galassie, hanno un’estensione angolare simile, o addirittura superiore, a quella della Luna piena vista a occhio nudo! Il problema, quindi, nella grande maggioranza dei casi non è ingrandire l’oggetto per osservarlo meglio, ma riuscire a trovare un ingrandimento, di solito modesto, tale per cui entra nel campo e allo stesso tempo la sua luce non viene diluita così tanto da risultare quasi invisibile.

Quasi tutti gli oggetti del cielo profondo vengono osservati al meglio tra i 30 e i 150 ingrandimenti, a prescindere dal diametro del telescopio. La loro debolezza intrinseca rende quasi sempre vano ogni tentativo di osservazione in alta risoluzione, cercando dettagli piccolissimi che non potremmo mai vedere.

Solo con l’osservazione di pianeti, Luna e stelle doppie si possono aumentare gli ingrandimenti fino a cercare di sfruttare tutto il potere risolutivo dello strumento. Una regola empirica vuole che, per osservare tutti i minuti dettagli di oggetti brillanti, l’ingrandimento massimo debba essere compreso tra le 2 e le 2,5 volte il diametro del telescopio espresso in millimetri. Ecco allora che un telescopio da 100 mm di diametro può sfruttare con profitto ingrandimenti fino a 200-250 volte e solo su soggetti brillanti che mostrano dettagli ad alto contrasto e luminosità (e nelle serate “buone”!). Questo ingrandimento è sufficiente per sfruttare il potere risolutivo dello strumento. Continuare a ingrandire è possibile ma l’effetto è simile a quello che si ottiene ingrandendo a dismisura una fotografia sul computer.

L’esempio con una fotografia calza molto bene e fa capire alla perfezione la situazione (rima fatta!). Immaginiamo di avere un’immagine con una risoluzione superiore a quella dello schermo; se vogliamo vedere tutto il campo ripreso dobbiamo ridurne le dimensioni: quest’osservazione a basso ingrandimento ci fa percepire meno dettagli piccoli, perché anche se ci sono il nostro occhio non li riesce a vedere. Ingrandendo l’immagine perdiamo la visione d’insieme ma possiamo arrivare a vedere sempre maggiori dettagli. Alle dimensioni originali otteniamo di fatto quello che per un telescopio è il massimo ingrandimento utile: stiamo osservando una piccola porzione dell’immagine ma riusciamo ad ammirare tutti i piccoli dettagli che prima non potevamo percepire (sebbene fossero presenti). Se continuiamo a ingrandire ben oltre le dimensioni originali non otteniamo alcun miglioramento della visione, perché abbiamo già visto tutta la risoluzione catturata dalla foto, che è stata fissata al momento dello scatto e che nessun ingrandimento può alterare.

 

Ingrandire un oggetto è come fare zoom su una fotografia: quando superiamo un certo ingrandimento l'immagine si sfoca e non ci restituisce più dettagli.

Ingrandire un oggetto è come fare zoom su una fotografia: quando superiamo un certo ingrandimento l’immagine si sfoca e non ci restituisce più dettagli.

 

Ingrandire molto serve solo per Luna, pianeti e stelle doppie, ma occhio a non esagerare altrimenti si avrà l'effetto simile a quello della precedente fotografia.

Ingrandire molto serve solo per Luna, pianeti e stelle doppie, ma occhio a non esagerare altrimenti si avrà l’effetto simile a quello della precedente fotografia.

Ecco allora che abbiamo imparato una cosa molto importante, che è fondamentale per fare il primo passo verso l’astronomia amatoriale e capire anche di chi ci si può fidare quando vogliamo dei consigli sull’acquisto di un telescopio. Il mio ottico, tanto tempo fa, quando gli feci quella domanda sugli ingrandimenti mi consigliò un telescopio che poteva arrivare a quasi 600 volte, invece di un altro che non avrebbe superato i 300 ingrandimenti. Entrambi erano rifrattori da 90 mm di diametro, solo che uno aveva una focale di 500 mm e l’altro di un metro. Secondo voi, ora che sapete come stanno le cose, avrei dovuto fidarmi della sua competenza astronomica?

Test TS APO 71 Q

Un nostro affezionato cliente, Mauro Maggioni, ha fatto un bellissimo test sul TSAPO71Q in combinata con lo Star Adventurer e ci ha permesso di riprodurlo sul nostro blog: GRAZIE MAURO!!!!

Visitate anche il suo bellissimo sito web: http://www.skattodinamico.altervista.org/index.html
Ecco la sua prova:

 SKY ADVENTURER & TS71Q
… accoppiata perfetta …

… la malattia della “strumentite”, che affligge molti astrofili, mi porta spesso a “saltellare”  tra i vari siti di shopping on-line per cercare qualche novità …

questa volta la mia attenzione cade su uno strumento piccolo, portatile e dalle caratteristiche ottiche davvero raffinate, che sulla carta si presenta come uno strumento da favola. Una combinazione di 5 lenti per un campo spianato sul formato Full Frame … WOW: il TS71Q 🙂

Per dettagli tecnici fate riferimento al sito TS ITALIA: http://www.teleskop-express.it/apocromatici-ota/1598-ts-apo-71q-ts-optics.html

Provo a contattare l’Oracolo di Delfi (che nel mondo dell’astrofilia moderna risponde al nome di Lorenzo Comolli) e anche lui apprezza le notevoli caratteristiche dello strumento, ma, non avendolo mai testato, mi dice che l’unica è metterlo alla ‘frusta’ sul campo.

Ci penso per qualche mese e intanto faccio un po’ di cassa vendendo un po’ di strumentazione (eh già, a volte la “strumentite” mi porta a prendere oggetti che poi finisco con l’usare pochissimo …)

Contatto quindi Riccardo Cappellaro della TE Italia che, con notevole cortesia e competenza, soddisfa la mia richiesta di avere qualche immagine raw fatta con il telescopio in modo da poterla analizzare.

Le immagini sono davvero interessanti e decido di passare all’acquisto.

Nel frattempo avevo acquistato anche un modello di Star Adventurer con lo scopo di realizzare qualche time-lapses.

Per caso una sera, giocando con gli strumenti, provo a montare il TS71Q sullo Star Adventurer e mi rendo conto che lo strumento viene retto egregiamente. La fantasia continua a dilagare e inizio a ipotizzare l’uso dello Star Adventurer per fare pose a largo campo; con una focale di poco più di 350mm e la sony A7s potrei spingermi a pose di un paio di minuti. Oltretutto la presenza della porta di autoguida mi convince che la cosa sia fattibile.

Mi serve però un cavalletto più stabile di quello da “fotografia” diurna e mi dedico per qualche tempo al tuning di un cavalletto SW aggiungendogli una colonna in carbonio (leggera e robusta).

Ultimata la colonna monto tutta la configurazione e, come telescopio guida, riciclo un obiettivo da 400mm F5,6, molto leggero, installato su una testa micrometrica.

Ed ecco il risultato: setup pratico, leggero e dalle notevoli potenzialità … non mi resta che testare il tutto.

Quale migliore occasione del cielo di Tatti, presso Villa Tatti, nella Maremma toscana, in provincia di Grosseto…



La nottata è splendida e dopo uno stazionamento abbastanza preciso inizio la sessione di autoguida …

Fantastico! In assenza di vento la guida in AR resta all’interno del +/-1 e la deriva in DEC mi permette pose da 2 minuti senza problemi. Qualche folata evidenzia la sensibilità dello strumento con picchi che salgono anche a +/-2, ma lo Star Adventurer corregge correttamente e le pose non subiscono errori.

La guida è stata eseguita con una MZ5 e PHD.

Ora si passa all’analisi dell’immagine ripresa dal TS71Q. Attendo i 2 minuti di esposizione sulla IC1396 e  resto davvero soddisfatto: immagine pulita con stelle puntiformi fino ai bordi. Ho confrontato l’immagine con il TAKA FS102, non è allo stesso livello come incisione (non ne dubitavo…il Taka FS102 non ha rivali), ma lo strumento mi soddisfa.

porzione del fotogramma in alto a SX

Il flat è necessario in quanto ai bordi si nota una leggera vignettatura

La serata continua in compagnia di qualche cinghiale ( che fa capolino tra i boschi intorno a Villa Tatti) e dopo una integrazione di circa 2 ore il risultato è il seguente:

IC1396 realizzata con TS71Q – SKY ADVENTURER

pose da 2min per
un’integrazione totale di 2h.

3 dark – 5 flat – 5 darkflat – 9 bias

Sony A7s modificata

Autoguida con obiettivo 400mm e PHD

Quindi se cercate un setup pratico e amate le foto a grande campo non fatevi sfuggire questa coppia di strumenti.

Ho creato anche una versione video con i time lapses ripresi durante il test … buona visione …


https://youtu.be/mDHOTcTH5ZM


Per dettagli tecnici fate riferimento al sito TS ITALIA:

http://www.teleskop-express.it/apocromatici-ota/1598-ts-apo-71q-ts-optics.html

 

Provate a elaborare una mia immagine astronomica

Molti astronomi amatoriali, soprattutto nel campo della fotografia astronomica, non rivelano mai, se non in modo parziale e con molta riluttanza, i propri segreti di elaborazione delle immagini, credendo che il sudore versato per imparare alcune efficienti tecniche di elaborazione debba servire per mantenere una posizione di vantaggio sugli altri.
Io, tuttavia, non ho mai sposato questa filosofia anche perché stiamo facendo, volenti o nolenti, scienza, o almeno stiamo analizzando dati reali che devono produrre risultati reali, per di più come un hobby e non come lavoro. Per confermare la realtà di ogni elaborazione serve che, come in ogni processo scientifico, il risultato sia ripetibile da tutti gli altri dopo che questi sono stati cottettamente informati di cosa è stato fatto. La bravura di uno scienziato e anche di un astrofotografo non è nell’ottenere risultati unici e di portarsi il segreto nella tomba, ma di arrivare per primo a tali livelli, di sviluppare metodi, tecniche e percorsi innovativi che permettano di sfruttare ancora meglio la strumentazione e il cielo sotto cui è stata usata. Si verrà allora ricordati non solo per le belle foto ma anche per aver dato un fondamentale contributo alla crescita di una comunità, perché convidivere un viaggio con tanti appassionati è sempre meglio che sovrastare il prossimo con la propria saccenza. Se nessuno avesse mai comunicato le proprie scoperte in fotografia astronomica staremmo ancora inseguendo le stelle con un oculare a reticolo illuminato e in altri ambiti ben più importanti il mondo sarebbe stato molto più arretrato.

Con questo spirito di collaborazione, invece che di competizione, propongo questo primo post in cui metto a disposizione dei dati acquisiti con la mia strumentazione su un soggetto astronomico e invito chiunque fosse interessato a elaborare l’immagine e a convidivere il suo processo di elaborazione.
Il modo per partecipare è semplice:

  1. Da questo link si può scaricare una mia sessione fotografica sulla IRIS nebula, eseguita lo scorso 3 Agosto con un telescopio Newtoniano da 25 cm f4.8, montatura Ioptron iEQ45 e camera CCD a colori ST-2000XCM. Il file compresso (sono comunque 191 MB) contiene i light, i dark e i flat per chi volesse partire da zero. In alternativa, nella cartella principale trovate già il file grezzo da elaborare, frutto della media di 28 scatti da 720 secondi;
  2. Ognuno può elaborare (solo per uso personale e per questo progetto) nel modo che vuole l’immagine, che può poi inviarmi via mail (in versione jpg) a danielegasparri [at] yahoo.it (sostituite [at] con la @) corredandola con i passaggi e i software utilizzati (non serve descrivere in dettaglio tutti i parametri impostati per i filtri, ma sarebbe bello elencare tutti i tools e i passaggi fatti per arrivare al risultato);
  3. Le immagini elaborate e inviate alla mia mail, complete dei passi elaborativi effettuati, verranno pubblicate in questo post, corredate dal nome dell’utente (se non volete comparire con nome e cognome segnalatemelo via mail) e rappresenteranno un’ottima base di confronto tra diverse tecniche e differenti software di elaborazione;
  4. Dopo circa una settimana pubblicherò anche il mio risultato e i passi effettuati. Non lo faccio prima per non influenzare le vostre elaborazioni.

I dati che scaricherete non sono volutamente di qualità eccelsa perché sono stati ripresi con strumentazione economica accessibile a molti amatori (avrei potuto farvi elaborare un’immagine di Hubble ma non sarebbe stata molto indicativa delle immagini medie che ottengono gli astrofotografi!): si noterà il coma ai bordi del campo, qualche problema con l’inquadratura, qualche gradiente residuo dovuto a infiltrazioni di luce dal cielo e dalla strada vicina e dei colori duri da bilanciare perché ho ripreso senza un filtro taglia infrarosso, sfruttando quindi tutta la sensibilità della mia camera CCD a colori. Il cielo sotto cui è stata scattata questa immagine aveva una qualità media pari a 21.3 magnitudini su secondi d’arco al quadrato, non male per la nostra inquinata Penisola.

L’obiettivo di un’elaborazione (estetica) è semplice: estrapolare tutto il segnale ripreso, riuscendo a gestire bene le zone in cui questo è più forte e quelle in cui è più debole, minimizzare i difetti estetici e restituire allo stesso tempo un’immagine gradevole alla vista ma attinente alla realtà. Qualche informazione sulla natura della Iris Nebula può aiutare: si tratta di una zona ricca di gas freddo e polveri. Nei pressi della stella centrale questo diventa visibile come una nebulosa a riflessione, che ha un colore blu-azzurro. Lontano dalla luce della stella, gas e polveri diventano oscuri e asumono una tonalità leggermente virata verso il rosso/marrone.

Buona elaborazione!

Cosa si vede con un telescopio amatoriale?

Il cielo è ricco di meraviglie, le cui forme e colori sono ben più vasti di tutte le opere d’arte mai concepite dall’uomo. Basta fare una rapida ricerca su internet con parole chiave come “galassie” o “nebulose” per innamorarsi dell’Universo. Proprio come un’irrazionale e irrefrenabile cotta adolescenziale, è questo il momento in cui rischiamo di perdere la lucidità e la calma, perché molto spesso si salta subito a una conclusione inevitabile: “Voglio vedere anche io quelle meraviglie, in diretta sul cielo, voglio comprare un telescopio e abbronzarmi con tutta quella luce e quei colori che mostra l’Universo!”

Purtroppo con questo post ho il poco gradevole compito di riportare tutti con i piedi per terra e di far capire quali sono i limiti e le possibilità che offre un telescopio amatoriale accoppiato al nostro strumento di osservazione, in gergo chiamato occhio.

Tutte le fotografie che possiamo osservare su internet sono, appunto, fotografie, ovvero rappresentazioni della realtà catturate attraverso strumenti molto più potenti dei nostri limitati occhi.

Il limite più grosso che ci impedirà sempre e comunque di avere le bellissime visioni, contrastate e colorate, che ci mostra invece google con estrema facilità è la modesta sensibilità del nostro occhio. Strumento formidabile per farci adattare e sopravvivere nell’aspro ambiente naturale, la nostra vista non ha dovuto di certo svilupparsi per osservare oggetti che fino all’invenzione del telescopio nessuno sapeva neanche che esistessero.

Arriviamo quindi alla prima e fondamentale regola che discrimina tra l’osservazione visuale e la fotografia: il nostro occhio non è abbastanza sensibile per vedere i contrasti e quasi sempre persino i colori di qualsiasi tipo di oggetto celeste, a esclusione delle stelle brillanti e dei pianeti. Non c’è telescopio che tenga: potremmo persino mettere l’occhio all’oculare di un telescopio da 10 metri di diametro ma tanto non riusciremmo a vedere una galassia colorata, come invece permette di fare la fotografia con strumenti persino più modesti di un telescopio giocattolo da 50 euro. Il motivo per cui molti appassionati passano spesso alla fotografia è per scoprire contrasti e sfumature di colore che solo i sensibili apparati fotografici possono rivelarci.

A prescindere dal colore, anche i contrasti percepiti degli oggetti variano molto tra l’osservazione e la fotografia. Come regola molto empirica e un po’ approssimata, ma che rende bene l’idea di quanta differenza ci sia tra quello che vediamo su uno schermo e quello che percepiamo all’oculare di un telescopio, non si fa un grande errore nell’affermare che tra una fotografia e l’osservazione visuale c’è di mezzo un fattore 10 in termini di diametro. Poiché il diametro del telescopio è ciò che per gran parte determina la visibilità e il contrasto degli oggetti osservati, quello che una buona fotografia mostra attraverso un telescopio di 10 centimetri di diametro è visibile, senza troppi sforzi, attraverso uno strumento 10 volte più grande, ovvero di un metro di diametro.

 

Impietoso confronto tra la fotografia, a sinistra, e quello che invece vede l'occhio attraverso lo stesso strumento e il medesimo cielo. Le immagini sono alla stessa scala!

Impietoso confronto tra la fotografia, a sinistra, e quello che invece vede l’occhio attraverso lo stesso strumento e il medesimo cielo. Le immagini sono alla stessa scala!

 

Confronto tra la resa di una fotografia a lunga esposizione ottenuta con un telescopio da 70 m di diametro, a sinistra, e la visione all'oculare di un telescopio binoculare da 60 cm di diametro. Al netto dei colori, tra osservazione e fotografia c'è una differenza di circa un fattore 10 a livello di diametro del telescopio.

Confronto tra la resa di una fotografia a lunga esposizione ottenuta con un telescopio da 70 m di diametro, a sinistra, e la visione all’oculare di un telescopio binoculare da 60 cm di diametro. Al netto dei colori, tra osservazione e fotografia c’è una differenza di circa un fattore 10 a livello di diametro del telescopio.

Poiché un telescopio da un metro di diametro non si trova in commercio per pochi euro, detta così sembra che sto dicendo che l’osservazione visuale sia una perdita di tempo: non è assolutamente vero. Quanto detto fino ad ora serve come terapia d’urto per farvi comprendere che non bisogna guardare le fotografie e sperare di osservare la stessa cosa attraverso il medesimo telescopio, perché non succederà mai.

Dopo aver distrutto tutte le false aspettative, è arrivato il momento di costruirne di nuove e sicuramente veritiere, perché una bella notizia in tutto questo pessimismo cosmico c’è: l’osservazione visuale può essere spettacolare e appagante, solo in modo diverso rispetto alle sensazioni e alle visioni che trasmette una fotografia astronomica. Quello che una fotografia astronomica, per quanto bella, non trasmetterà mai, è l’emozione di stare di fronte a un oggetto distante migliaia, se non milioni di anni luce, senza il freddo filtro del monitor di un computer. Quando si è all’oculare non importa se i contrasti sono deboli e i colori assenti, perché si è in contatto diretto con l’Universo, perché i nostri occhi stanno ricevendo luce che ha attraversato a 300 mila km/s i posti più remoti e affascinanti dell’Universo e in quel momento ha deciso di mostrarsi a noi e solo a noi, per regalarci uno sfuggente, quanto meraviglioso, sguardo verso il passato del Cosmo, un passato per noi presente, eppure distante migliaia, milioni di anni. Osservare il cielo al telescopio è il modo migliore e più emozionante per viaggiare a velocità incredibile a bordo di una immensa macchina del tempo ed esplorare luoghi e spazi dove nessun uomo è mai arrivato e che in pochi hanno persino osservato. E’ come stare in prima fila a uno, dieci, mille spettacoli teatrali; è come visitare milioni di musei, è come vivere mille vite tutte insieme.. E quando la nostra mente, impegnata nel comprendere la vastità e la grandiosità di quello che stiamo vedendo, ci fa percepire quel brivido di sfuggente consapevolezza che dura un millesimo di secondo o forse meno, ci si sente con un pizzico di orgoglio e tanta soddisfazione inquilini protagonisti e non più timidi ospiti di questo meraviglioso Universo.

Per osservare al meglio gli oggetti celesti serve prima di tutto un cielo scuro, lontano dalle luci delle città. Questo vale per le stelle, le nebulose, le galassie, gli ammassi stellari, ovvero per tutti gli oggetti a esclusione di Luna e pianeti, che invece possono essere osservati anche dalle inquinate città. Un cielo scuro di campagna o, meglio, di montagna, in notti in cui non è presente la Luna, è un requisito fondamentale per poter fare ottime osservazioni (e fotografie). Parleremo in un altro post della qualità del cielo e di come stimarla in dettaglio. Per ora accontentiamoci di qualche riferimento grossolano. Un cielo sufficientemente buio è infatti quello che nelle notti estive mostra con facilità la Via Lattea, spessa striscia di luce tagliata in due da un solco più scuro, che parte da sopra la testa e finisce verso l’orizzonte sud. Nelle notti invernali si deve percepire, seppur in modo molto attenuato, la stessa striscia. In tutti gli altri mesi dell’anno, invece, un buon indicatore della qualità del cielo è il piccolo carro: se riusciamo a vedere senza difficoltà tutte le stelle (non del grande carro, ma del piccolo!) allora il cielo è buono per fare proficue osservazioni telescopiche. La differenza tra un cielo illuminato e uno lontano dalle luci (e senza Luna) è enorme e può fare da discriminante, in molte occasioni, tra non vedere un oggetto e osservarlo quasi (QUASI!) come in fotografia.

Con un buon cielo a disposizione, occorre uno strumento che consenta di farcelo sfruttare, ovvero un telescopio. Anche su questo torneremo più volte, ma per ora capiamo bene i punti fondamentali, che sono due:

  • La potenza di un telescopio è determinata in larga parte dal diametro del suo obiettivo. Più è grande e più dettagli posso vedere;
  • Non c’è congegno elettronico che possa migliorare le prestazioni ottiche di un telescopio. Posso equipaggiare uno strumento con GPS, computer potenti, persino con generatori nucleari che garantiscono una vita (del telescopio, meno la nostra!) di centinaia di anni senza dover ricaricare le batterie, ma nessuno di questi congegni ci farà vedere meglio un oggetto, perché tutto dipende da quanto è larga la superficie che deve raccogliere la luce dell’Universo.

Detto questo, per osservare e non semplicemente intravedere gli oggetti del cielo profondo e i dettagli dei pianeti, serve uno strumento di un certo diametro. Fino a qualche lustro fa, il costo elevato degli strumenti costringeva a iniziare con telescopi da 60-80 mm di diametro, a volte 114: troppo poco per osservare con soddisfazione qualcosa oltre i crateri lunari, gli anelli di Saturno e qualche banda su Giove. Con la produzione cinese i prezzi si sono molto abbassati e oggi un telescopio già sufficientemente potente per poter osservare con relativa facilità centinaia di oggetti celesti (o migliaia) può costare meno di uno smartphone alla moda e durare sicuramente di più. Il diametro minimo, quindi, che permette di vedere buoni dettagli è intorno ai 15, meglio 20 centimetri. La configurazione migliore è quella Newton, perché più economica anche se ingombrante. In alternativa uno Schmidt-Cassegrain unisce anche leggerezza e compattezza. Cosa ci mettiamo sotto al telescopio, ovvero la montatura e gli eventuali sistemi computerizzati per puntare e seguire gli oggetti sono degli optional che facilitano la nostra vita ma non migliorano di certo le visioni che avremo. Per questo motivo, dal punto di vista delle visioni offerte all’oculare, un dobson da 20 centimetri, ovvero un telescopio newtoniano su un supporto molto spartano, che costa meno di 500 euro, offre le stesse prestazioni di uno Schmidt-Cassegrain su una pesante montatura equatoriali motorizzata, dal prezzo superiore ai 2000 euro. Quest’ultimo è uno strumento dedicato anche alla fotografia, utilissimo per puntare velocemente gli oggetti celesti e che ci evita di imparare a conoscere il cielo perché fa quasi tutto da solo.

Scendere sotto il diametro di 15 centimetri è consigliabile solo se siamo interessati all’osservazione di pianeti e stelle doppie, o se abitando in città, senza possibilità di spostarci, siamo obbligati a restringere il campo a queste categorie di oggetti brillanti. In questa situazione un rifrattore da 90-100 mm di focale, un Newton da 114-130 mm o un Maksutov o Schmidt-Cassegrain da 10-13 centimetri sono la scelta migliore, perché tanto non potremo mai sperare di sfruttare la grande capacità di raccolta della luce di diametri maggiori visto il luogo dal quale osserveremo e i pianeti presentano già interessanti dettagli con diametro di 10 centimetri.
Capito come funziona a grandi linee l’osservazione visuale e da cosa dipende, la domanda che sorge, direi spontanea, è la seguente: ma cosa posso sperare di vedere in concreto al variare del diametro del telescopio e della qualità del cielo?

Posto che i contrasti e i dettagli dipendono in modo forte dall’esperienza dell’osservatore (all’inizio sarà difficile vedere qualcosa, poi già dopo una settimana si vedrà molto di più) e dall’acutezza visiva, ho cercato di preparare una tabella in cui ci si può fare un’idea. La notizia buona è che quanto state per vedere rappresenta una situazione piuttosto pessimistica: con l’avanzare dell’esperienza la visione migliorerà nettamente.

Qualche oggetto del profondo cielo osservato con un telescopio da 50 mm di diametro (o un binocolo) sotto un cielo scuro.

Qualche oggetto del profondo cielo osservato con un telescopio da 50 mm di diametro (o un binocolo) sotto un cielo scuro.

 

Qualche oggetto del profondo cielo osservato con un telescopio da 150 mm di diametro sotto un cielo scuro.

Qualche oggetto del profondo cielo osservato con un telescopio da 150 mm di diametro sotto un cielo scuro.

 

Qualche oggetto del profondo cielo osservato con un telescopio da 250 mm di diametro sotto un cielo scuro.

Qualche oggetto del profondo cielo osservato con un telescopio da 250 mm di diametro sotto un cielo scuro.

 

Cosa dire invece di Luna e pianeti? Qui l’occhio si riprende la sua (parziale) rivincita, soprattutto sulla Luna, che mostra dettagli molto simili a quelli di una buona fotografia, con contrasti emozionanti e spettacolari giochi di luce.
Un po’ più difficoltosa l’osservazione dei pianeti luminosi, ma per un mero gioco di illusioni: durante le prime esperienze tutti i pianeti appariranno sempre troppo piccoli nel campo dell’oculare, eppure Giove, a 40 ingrandimenti è già grande quanto la Luna piena vista a occhio nudo. In questo contesto non bisogna cercare l’ingrandimento smodato (termine tecnicissimo!) ma convincere il cervello che stiamo vedendo un’immagine già sufficientemente grande a 150-200 ingrandimenti. Andare oltre questi valori necessita di telescopi da almeno 150 mm di diametro e una notevole stabilità dell’atmosfera.

Marte, a sinistra, e Giove, a destra, visti attraverso uno strumento da 100 mm di diametro a circa 200 ingrandimenti. Con il progredire dell'esperienza si vedranno molti più dettagli di queste due, pessimistiche, simulazioni.

Marte, a sinistra, e Giove, a destra, visti attraverso uno strumento da 100 mm di diametro a circa 200 ingrandimenti. Con il progredire dell’esperienza si vedranno molti più dettagli di queste due, pessimistiche, simulazioni.

 

A sinistra: tipico panorama lunare visibile già con strumenti da 80 mm di diametro a 100-150 ingrandimenti. A destra, lo stato dell'arte dell'osservazione lunare, grazie alla maestria di Giorgio Bonacorsi e un piccolo rifrattore da 80 mm di diametro. Riuscite a comprendere quanto conta l'esperienza?

A sinistra: tipico panorama lunare visibile già con strumenti da 80 mm di diametro a 100-150 ingrandimenti. A destra, lo stato dell’arte dell’osservazione lunare, grazie alla maestria di Giorgio Bonacorsi e un piccolo rifrattore da 80 mm di diametro. Riuscite a comprendere quanto conta l’esperienza?

 

Stesso strumento, stessa serata, stesso ingrandimento ma diversi osservatori, uno esperto e l'altro alla prima esperienza. Il modo migliore per migliorare non è comprare sempre nuovi e più potenti telescopi ma allenarsi sotto cieli scuri.

Stesso strumento, stessa serata, stesso ingrandimento ma diversi osservatori, uno esperto e l’altro alla prima esperienza. Il modo migliore per migliorare non è comprare sempre nuovi e più potenti telescopi ma allenarsi sotto cieli scuri.