Come collegare fotocamere reflex e smartphone ai telescopi CELESTRON

Oltre a SKYWATCHER non poteva mancare una lista dettagliata di raccordi e adattatori indispensabili per collegare la tua strumentazione ai telescopi CELESTRON.

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Presso TS Italia Astronomy, siamo a tua disposizione per offrire consulenza specialistica e rispondere a tutte le tue domande in merito ai collegamenti tra fotocamera, smartphone e telescopio. Il nostro team di esperti è pronto ad aiutarti a ottenere risultati eccezionali nella tua avventura nella fotografia astronomica.

Come collegare fotocamere reflex e smartphone ai telescopi SKYWATCHER

Se sei un appassionato di fotografia astronomica e desideri collegare la tua fotocamera reflex o il tuo smartphone a un telescopio SKYWATCHER, sei nel posto giusto! Ecco una lista dettagliata di raccordi e adattatori indispensabili per collegare la tua strumentazione.

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Filtri anti IL – un’analisi senza precedenti

Il nostro grande amico Fabio Di Giorgio ci presenta un’analisi dei filtri per inquinamento luminoso senza precedenti! Un ricerca approfondita fatta sul campo che siamo sicuri sarà di grande aiuto a tutti gli appassionati afflitti da questo problema.

A lui la parola!

L’astrofotografia dal centro di una grande città è probabilmente uno degli hobby più frustranti, al giorno d’oggi! Posso immaginare davvero poche attività più complesse della ripresa di deboli oggetti a migliaia o milioni di anni luce da noi, quando perfino le stelle più luminose sono difficili da scorgere nel cielo notturno.

E, beh, vivere nel centro di Roma porta questa complessità ad un livello completamente diverso: qui sotto una foto della cupola di San Pietro ripresa dal tetto del mio palazzo. Questo dovrebbe dare un’idea del luogo da cui osservo; notate la tonalità dello sfondo.

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Penso che questo possa rendere bene l’idea della mia passione per l’unica misura contro l’inquinamento luminoso: i filtri astronomici. Nel corso del tempo, mentre le stelle venivano progressivamente sbiadite dal cielo, i produttori hanno iniziato a sviluppare filtri sempre più efficaci per riguadagnare opportunità di osservare il cielo notturno e i suoi deboli oggetti. Ne ho molti nella mia collezione personale.

E, purtroppo, nel frattempo è cambiata anche la caratteristica dell’inquinamento luminoso: dalle vecchie luci calde e giallastre così ben trattate dai filtri a banda larga – ne parleremo più avanti – l’illuminazione urbana è progressivamente passata ai LED. Più economici e con un consumo ridotto, ma decisamente più difficili da combattere a causa del loro spettro continuo.

Io, così come migliaia di altri amici astrofili in tutto il mondo, abbiamo iniziato a notare un aumento dell’inquinamento luminoso quando è stata introdotta questa nuova fonte di luce. Ed allora ho iniziato a chiedermi: qual è il filtro “migliore” per ottenere nuovamente l’accesso al cielo notturno?

Ma, qual è la definizione di “migliore”?

  • È il filtro che fornisce il massimo aumento di contrasto?

  • È quello che mantiene meglio il bilanciamento del colore?

  • È quello che lavora sul maggior numero di oggetti (galassie, nebulose, ammassi…)?

  • O quello che potrebbe essere impiegato nella maggior parte delle condizioni osservative (rurali, urbane, montane, …)?

Temo che non ci sia modo di convergere su un’unica definizione di migliore, né “SUL” miglior filtro; motivo per cui alla fine ho fatto ricorso all’utilizzo di più filtri.

Vi prego di seguirmi nella mia ricerca della migliore combinazione di filtri per uso astronomico. E, già che ci siamo, lasciatemi iniziare con un disclaimer: non sono vincolato a nessun produttore o rivenditore, la maggior parte dei filtri analizzati qui sono miei e non ho guadagnato soldi nell’eseguire questa analisi e condividere i risultati. Fondamentalmente, questo è il modo in cui ho scelto come effettuare le mie riprese.

OK, ma come funzionano questi filtri? Qual è la magia che permette loro di combattere l’inquinamento luminoso? Una trattazione dettagliata potrebbe benissimo riempire un libro di matematica, con un generoso annesso su Ottica, Chimica e così via, quindi affrontiamo solo le basi: la radiazione degli oggetti celesti, dopo aver viaggiato per anni luce, entra nel nostro obiettivo e finalmente raggiunge il nostro sensore. Qui i fotoni vengono convertiti in elettroni e la tensione risultante viene letta, elaborata e memorizzata in un file.

Ma, man mano che il sensore acquisisce la luce del target, riprende anche la luminosità circostante. E, se non c’è differenza nei fotoni da una sorgente o dall’altra, non esiste un modo per il nostro sensore di “discriminare”. Quindi, ora iniziamo a capire che abbiamo bisogno di un po’ di magia che ci aiuti a separare la luce spaziale da quella dell’ambiente. Partiamo dal caso più semplice: le nebulose emettono solo a lunghezze d’onda (colori) molto specifiche; quindi, se riuscissimo a far passare solo quelle, il contrasto tra bersaglio e inquinamento luminoso aumenterebbe. Questo è il modo in cui funzionano i filtri, grazie a una serie di strati sottilissimi di materiali assorbenti e riflettenti: più luce diffusa viene respinta preservando la luce del target, maggiore è l’aumento di contrasto; e i filtri a banda stretta sono molto efficienti in questo processo.

Ma, aspettate un secondo prima di acquistare il filtro più stretto sul mercato! La luce delle stelle è più o meno un continuum, quindi quale sarebbe l’effetto di questo filtro sulle stelle stesse o, ahimè, sulle galassie che sono composte da stelle? Sfortunatamente, la riduzione sarebbe quasi esattamente la stessa dell’inquinamento luminoso (questa semplificazione non è accurata al 100% ma nemmeno così sbagliata). È vero, se riuscissimo a filtrare l’inquinamento luminoso più della luce stellare, funzionerebbe comunque: e questo è il principio dei filtri a banda larga. Non sono così selettivi come quelli a banda stretta, ma cercano di rimuovere le lunghezze d’onda dove l’inquinamento luminoso è maggiore, lasciando le altre – per lo più – intatte. Forniscono comunque un aumento del contrasto, anche se inferiore, ma conservano anche i colori delle stelle. Beh, più o meno.

Il mio viaggio nell’astrofotografia “seria” è cominciato con una SkyWatcher ED80 e una DSLR Canon 350d e, mentre oggi (spoiler alert!) utilizzo una camera astronomica raffreddata e monocromatica, con filtri a banda stretta (e ruota portafiltri elettronica, e autofocuser, … ma ricordate da dove scatto?), uso ancora una DSLR quando sono in viaggio, e capisco perfettamente le persone che desiderano soluzioni meno complesse – e costose – e sono felici di acquisire tutti i colori in un singolo scatto, sia esso con una DLSR o un CMOS One Shot Colour (OSC).

Quindi, ho preso un treppiede, la mia Canon 650d modificata Full Spectrum (il che significa che tutti i filtri di serie sono stati rimossi e non può più scattare foto “normali”) con un obiettivo Jupiter 135 f 3.5 e un reticolo Paton Hawksley Education ltd Star Analyzer 100, ho stampato in 3D un semplice adattatore per tenere il reticolo davanti all’obiettivo; poi ho guardato fuori dalle mie finestre e ho affrontato alcuni dei lampioni che mi stavano facendo impazzire.

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Questo è il setup che ho utilizzato per acquisire gli spettri per confrontare i vari filtri: in questa configurazione, la lunghezza focale di 135 mm e i pixel da 4,3um della DSLR producono una risoluzione spettrale di 0,316 nm/px (leggi nanometri per pixel). Più che sufficiente per confrontare i diversi filtri che ho accumulato in questi anni!

Le due immagini successive mostrano la posizione di alcuni lampioni di giorno e di notte. Alcuni di loro utilizzano ancora vecchie luci al mercurio e altri sono già stati convertiti ai LED.

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L’immagine successiva mostra lo spettro della luce del mercurio, acquisito con il filtro Astronomik L2: la luce infrarossa è stata soppressa. Sono raffigurati due livelli di esposizione, per mostrare sia i picchi molto evidenti (in alto) sia la componente continua molto più contenuta (in basso). Oltre a un piccolo contributo blu, l’emissione principale è tra il verde e l’arancione, che produce una tonalità molto calda.

Ovviamente, usando un filtro che elimini queste lunghezze d’onda, l’effetto inquinante di questa luce può essere facilmente ridotto.

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Ed ora, lo spettro di un lampione a LED, anche questo acquisito con il filtro Astronomik L2 per rimuovere la luce infrarossa. Stesse due esposizioni di prima, anche se l’intensità non può essere confrontata direttamente, in quanto proveniente da due lampade diverse.

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L’immagine successiva mostra lo spettro e l’istogramma di un lampione a LED: sull’asse orizzontale la lunghezza d’onda, su quello verticale l’intensità per ogni colore/lunghezza d’onda

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E ora, il primo risultato: questo è un confronto tra il vecchio e il nuovo spettro dei lampioni, questo è ciò contro cui gli astrofotografi urbani devono lottare.

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La prima evidenza è: la vecchia luce a vapore aveva delle righe di emissione molto ben definite, mentre quella nuova a LED ha un picco nel blu ma poi un’emissione continua dal verde intenso all’infrarosso. Ciò rende il LED molto più difficile da contrastare con i filtri.

E infine – per ora – la prossima immagine raccoglie le “bande passanti” di diversi filtri commerciali per la soppressione dell’inquinamento luminoso.

In alto ho riportato le principali righe di emissione interessanti, l’elemento chimico, il loro colore e le lunghezze d’onda. Quando riprendiamo le nebulose, siamo interessati solo a: Ossigeno (colore verde acqua), Idrogeno (infrarosso, con una componente verde acqua molto minore) e Zolfo (di nuovo, infrarosso). Nel grafico sono rappresentati anche il mercurio (HG) e il sodio (Na).

A destra le marche e le tipologie a confronto.

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Ogni riga di questa immagine è stata ottenuta riprendendo la vista panoramica con i filtri nel treno ottico e confrontando la risposta alla luce dei LED, per misurare quali parti dello spettro continuo siano maggiormente bloccate (o ridotte). L’Optolong L-eXtreme è solo stimato, perché la sua banda estremamente stretta (7 nm) non può essere riprodotta fedelmente a causa delle lampade troppo vicine alla fotocamera (e, dall’analisi seguente, la sua banda passante potrebbe essere piuttosto imprecisa in questa immagine ). Il nuovo Optolong L-Ultimate, con la sua doppia banda passante da 3 nm, sarebbe simile ma avrebbe solo la metà circa di quella larghezza.

Un ulteriore test potrebbe essere eseguito utilizzando una stella bianca o il nucleo di una galassia (per ottenere un’approssimazione ancora migliore di uno spettro continuo), ma mi sembra che l’immagine qui sopra mostri già chiaramente le differenze, in termini qualitativi se non quantitativi.

Dalla selezione sopra, possiamo distinguere chiaramente tre tipi di filtro:

UV-IR cut: come l’Astronomik L2, questi filtri sono utilizzati per ridurre la luce “invisibile” e per rendere un’immagine simile alla visione umana con sensori la cui risposta spettrale si estende nell’UV e nell’IR. Lo scopo principale è sopprimere le frequenze che non sono focalizzate correttamente attraverso un sistema di lenti. NON si tratta di filtri anti inquinamento luminoso!

Filtri a banda larga: sono concepiti per contrastare l’inquinamento luminoso rimuovendo solo alcune lunghezze d’onda associate alle emissioni artificiali. Purtroppo sono molto efficienti con le “vecchie” luci fashion, ma lasciano molto a desiderare – lasciano passare molta luce – con quelle a LED. Questi filtri applicano un taglio morbido, consentendo un aumento del contrasto ma mantenendo i colori delle stelle (beh, più o meno).

Filtri a banda stretta: questi filtri utilizzano l’approccio della forza bruta! TUTTA la luce viene filtrata, ad eccezione delle lunghezze d’onda di emissione delle nebulose. Ciò consente un enorme aumento del contrasto, ma il colore delle stelle va sostanzialmente perso. E ci si può dimenticare di riprendere qualsiasi galassia, ovviamente. Esistono diversi tipi di filtri, con larghezze di banda decrescenti fino a 3 nm: più stretta la banda, maggiore risulta il contrasto. Ma nessuno ci regala nulla: le stelle verranno di conseguenza attenuate e il loro colore alterato.

L’immagine successiva confronta il filtro UV/IR Cut e quelli a banda larga con i due spettri di luce: chiaramente il filtro L2 non fornisce alcun tipo di riduzione dell’inquinamento luminoso, mentre è evidente che l’Optolong L-Pro e l’Hutech IDAS D1 sono stati progettati per gestire la luce del mercurio (e del sodio), e lo fanno molto bene, poiché rimuovono solo queste lunghezze d’onda. Hanno un comportamento molto simile, con due differenze principali, descritte di seguito.

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L’Optolong L-Pro ha una banda passante più ampia nell’infrarosso, mentre l’IDAS D1 ha un taglio più netto subito dopo la riga dello zolfo. Questo suggerisce una tonalità più “rossastra” nel filtro Optolong. Il D1 rimuove anche leggermente di più il profondo blu e UV.

Ma, cosa più notevole, l’L-Pro trasmette un po’ di giallo, mentre il D1 è MOLTO più selettivo su queste frequenze.

Da tutto quanto sopra, la luce delle stelle è meglio conservata dall’Optolong rispetto al filtro Hutech, che sostanzialmente rimuove tutto il colore giallo; ma questo al costo di un effetto di filtraggio inferiore e di una dominante rossa, mentre il D1 è fondamentalmente neutro dal punto di vista cromatico e non richiede quasi nessun bilanciamento del colore in fase di elaborazione.

Entrambi i filtri possono essere impiegati per ridurre l’inquinamento in zone non critiche; dove l’IL non pregiudica troppo la vista del cielo, la scelta dell’uno rispetto all’altro è principalmente questione di gusto soggettivo (e di budget!). Possono anche essere impiegati per visualizzare le galassie, ma sfortunatamente entrambi sono inadatti a gestire un forte inquinamento luminoso.

Beh, basta teoria, passiamo alla pratica: quello che segue è un vero e proprio test su una nebulosa, il target principale gestito da tutti i filtri.

L’immagine successiva confronta un’esposizione di 60” sulla Nebulosa di Orione, scattata con tutti i filtri sopra descritti; stessa ora, stessa posizione, stesso setup, nessuna elaborazione: a parità di condizioni, questa immagine ci dice quali filtri migliorano maggiormente la qualità dell’immagine e come lo fanno.

Si tenga presente che, al momento di questo primo confronto, non avevo ancora a disposizione un Optolong L-eXtreme. E prima di riceverlo, ho venduto lo Sharpstar 72ED che è stato utilizzato in questo primo set di immagini, quindi, non avendo modo di aggiungere l’eXtreme al confronto, non è incluso nel test in questa fase.

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Dall’alto: Astronomik L2 e Optolong L-Pro, IDAS D1 e IDAS V4, Optolong L-eNhance e Astronomik H-Alpha (12 nm), Astronomik OIII (12 nm) e Explore Scientific OIII

Un primo risultato è chiaramente visibile: i filtri a banda stretta forniscono un’immagine decisamente più scura in modo che il target non venga attenuato, rendendo tuttavia lo sfondo molto meno invadente.

Ma, mentre il confronto di cui sopra ci fornisce una prima idea del miglioramento, questo NON è il modo in cui dovrebbero essere impiegati i filtri! In effetti, sotto determinate ipotesi, non utilizzeremo lo stesso tempo di esposizione indipendentemente dal filtro scelto: se lo sfondo viene attenuato, possiamo aumentare il tempo di esposizione e catturare più fotoni, consentendo di evidenziare dettagli più deboli.

Quindi, ripetiamo il confronto aumentando l’esposizione per filtri più stretti, e vediamo il risultato.

Ho ripreso una serie di pose da 30″, 60″, 120″ e 180″ con ciascun filtro. L’immagine successiva confronta i fotogrammi non elaborati a diverse esposizioni cercando di avere livelli di sfondo compatibili tra i diversi filtri. I filtri più stretti consentono esposizioni più lunghe e forniscono maggiori dettagli sulla nebulosa.

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Da questo confronto, l’Optolong L-eNhance sembra la soluzione più promettente da un sito pesantemente inquinato.

Dopo aver ricevuto un L-eXtreme, ho effettuato un confronto approfondito tra questi due filtri, con una sorpresa piuttosto sorprendente! Qui sotto, la nebulosa Nord America è stata acquisita con i due filtri Optolong a banda stretta: negli scatti con l’eNhance il target era più basso sul centro di Roma, e la luna era alta in entrambi i casi: sono rimasto scioccato quando ho visto le immagini appena riprese (con solo autostretching di PixInsight). Tuttavia, effettuata l’elaborazione, non c’è quasi differenza tra i risultati.

Entrambe le immagini sono l’integrazione di 14 pose da 240” @ ISO1600. Dark frames, nessun flat field. Tutte le successive immagini sono state acquisite con un TecnoSky 60 APO (rifrattore 60mm f6, FPL53 / Lantanio) con spianatore 1x.

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Nebulosa Nord America: L-eNhance a sinistra, L-eXtreme a destra. La riga superiore mostra solo un autostretch, quella inferiore l’immagine completamente elaborata

Ho quindi ripreso la nebulosa di Orione, e il suo nucleo luminoso ha limitato la quantità di autostretch mostrando un’immagine migliore già prima dell’elaborazione: qui, L-eXtreme mostra il suo miglior bilanciamento del colore rispetto a L-eNhance che ha una dominante verde. Eppure, anche in questo caso, le immagini elaborate sono molto simili, e preferisco addirittura quella dell’eNhance dove l’OIII nella nebulosa Running Man è più visibile.

Entrambe le immagini sono l’integrazione di sole 5 pose da 180” a ISO1600, corrette con Darks e Flats. L’oggetto è luminoso, ma il risultato non è affatto male per soli 15 minuti da una città molto inquinata!

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Nebulosa di Orione: L-eNhance a sinistra, L-eXtreme a destra. La riga superiore presenta solo un autostretch, quella inferiore l’immagine completamente elaborata

Le tabelle successive riportano le statistiche di una patch di sfondo per entrambe le immagini prima e dopo il bilanciamento dei canali: si conferma il miglior bilanciamento del colore dell’eXtreme, così come lo sfondo ben più scuro.

Per sfruttare al meglio questo filtro sono necessarie acquisizioni decisamente più lunghe.

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Il confronto successivo è stato fatto tra pose acquisite con L-eNhance a 180” e L-eXtreme a 300”, cercando di sfruttare la banda passante più stretta e lo sfondo più scuro di quest’ultimo filtro. Il risultato sulla Crescent non è molto diverso, ma la nebulosità circostante è meglio evidenziata dall’eXtreme: questo è il risultato principale di questo confronto, che mostra il vantaggio di pose più lunghe.

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Crescent Nebula: Enhance (pose da 180″) a sinistra, Extreme (pose da 300″) a destra. La riga superiore presenta solo un autostretch, quella inferiore l’immagine completamente elaborata

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Confronto M1: L-eNhance e L-eXtreme, diverse lunghezze di esposizione

Sorpreso dalla migliore visibilità della nebulosa Running Man e dall’apparente maggiore dettaglio in M1, dopo una discussione con Luca di TS Italia Astronomy, ho dato uno sguardo più dettagliato alla risposta spettrale dei due filtri dichiarata dal produttore. Ora, tutto questo deve essere preso con le pinze perché:

  • Questi grafici potrebbero non avere una risoluzione sufficiente per un’analisi precisa

  • La variazione da un esemplare all’altro potrebbe compromettere l’accuratezza: questo si applica sia alla scheda tecnica (dichiarazione esplicita: This curve is only for reference, and is not used as the final product data) sia al MIO SPECIFICO campione di L-eXtreme…

Tuttavia, ho sovrapposto le due figure delle bande passanti (immagini estratte direttamente dal sito Optolong) ed ecco alcune considerazioni:

  • Il filtro L-eNhance sembra avere una trasmissione più alta, circa il 96%, mentre l’eXtreme mostra solo il 93%. Il filtro preserva leggermente meglio il segnale: questo potrebbe essere spiegato dal processo di produzione più semplice per il filtro con larghezza di banda maggiore.

  • Inoltre, le due immagini sono state coregistrate e tutte le altre righe di emissione corrispondono perfettamente, ma quella dell’OIII mostra un disallineamento. Questa potrebbe essere la risposta principale: l’Ossigeno III emette in una riga principale a 500,7 nm e una secondaria a 495,9 nm (4959 angstrom e 5007 angstrom). Eppure l’immagine L-eXtreme mostra la linea leggermente a destra di quella L-eNhance, il che potrebbe significare che il primo ha come target SOLO la linea 500.7, mentre il secondo trasmette ENTRAMBE le linee, in aggiunta a quella H-Beta a 486 nm.

Infatti, con la sua larghezza di banda di 7 nm centrata su 500.7, la limite inferiore della banda passante dell’eXtreme sarebbe a 497.2, quindi la linea 495.9 sarebbe fortemente attenuata.

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La domanda sembra essere se lasciare passare la linea secondaria, insieme a una quantità leggermente maggiore di inquinamento luminoso (e H-Beta, ovviamente) abbia un vantaggio. E dalle immagini reali la risposta è SI per i due filtri che ho testato; e intendo proprio i due ESEMPLARI che ho testato, poiché questo risultato potrebbe variare a causa delle tolleranze di produzione o in caso di inquinamento luminoso ancora maggiore.

In sostanza, il miglioramento del fondo ottenuto dalla banda passante più stretta non sembra compensare il segnale perso dal filtro L-eXtreme, almeno nelle per le mie condizioni di cielo.

Un’altra spiegazione potrebbe essere che ciò che appare nell’immagine è il minuscolo contributo di H-Beta, una lunghezza d’onda che viene trasmessa dall’eNhance ma eliminata dall’eXtreme. Un test con questo tipo di filtro risponderebbe a questa domanda, ma io non l’ho effettuato (non ho un H-Beta in quanto solo pochissimi oggetti hanno un contributo H-Beta significativo, per il resto molto marginale).

Ad ogni modo, qualunque sia la spiegazione, il risultato mostra la presenza di due effetti opposti:

  • Il segnale addizionale (fisso) passato dall’eNhance, sia esso OIII o H-Beta: questo non varia con il livello di inquinamento luminoso ma è costante e dipende solo dal rapporto tra la riga dell’OIII a 501 nm e quella a 496 nm; la migliore informazione che ho trovato è che la riga a 496 è tra un terzo e la metà dell’intensità della linea principale a 501.

  • D’altra parte, il miglioramento del contrasto fornito dalla larghezza di banda ridotta del filtro L-eXtreme dipende dall’inquinamento luminoso del luogo specifico: è molto limitato per un luogo buio e aumenta linearmente con il livello di sfondo. Dal datasheet, la larghezza di banda OIII dell’eXtreme è circa il 25% di quella dell’eNhance (che è già piuttosto stretta!).

Mancando qualsiasi dato quantitativo, la figura successiva spiega lo stato in termini qualitativi: esiste un valore per il quale inquinamento luminoso e perdita di segnale si compensano completamente. Per un cielo migliore di questo, L-eNhance è la scelta migliore, altrimenti la selettività dell’L-eXtreme (o anche L-Ultimate) diventa un guadagno.

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Diverse recensioni e segnalazioni online menzionano una maggiore presenza di aloni con l’eXtreme che con l’eNhance: non posso affermarlo, sulla base dei miei test, poiché nelle mie immagini (ad esempio quella dell’M42, raffigurata sopra) non compare alcun alone. Ma non ho testato specificamente i filtri su stelle molto luminose solo per misurare quel comportamento.

Conclusioni:

La scelta dei filtri dovrebbe partire dalle condizioni di inquinamento luminoso dei siti di osservazione: non esiste un filtro per tutti gli usi. E, mentre la riduzione del segnale trasmesso porta a un maggiore contrasto sulle nebulose, rimuove anche il colore delle stelle e sostanzialmente inibisce l’imaging delle galassie.

Ricordando che il focus è solo sulle nebulose (le galassie non beneficiano di questi filtri), proporrò le mie soluzioni nel seguito, ma alcuni elementi possono già essere evidenziati:

  • I filtri a banda stretta producono il massimo aumento di contrasto per far fronte a siti fortemente inquinati e l’esperienza mostra che l’H-alfa è la banda meno impattata dall’IL: ma quando si utilizza una camera OSC (one shot colour) basata su una matrice di Bayer, i filtri Ha hanno un grande svantaggio; solo un pixel su quattro è sensibile al rosso, quindi questa configurazione è molto inefficiente. In questo caso è fortemente consigliato un filtro multibanda, i filtri H-Alpha sono impiegati al meglio con sensori monocromatici.

  • Un’altra considerazione è relativa ai filtri a banda stretta: scurendo lo sfondo, questi filtri, consentono di utilizzare esposizioni più lunghe per evidenziare i dettagli più deboli; ma, per sfruttare al meglio questa opportunità, la montatura deve inseguire accuratamente per questo tempo di esposizione; inoltre, esposizioni più lunghe aumentano anche il rumore termico e le fotocamere raffreddate possono gestirlo meglio rispetto alle Reflex.

  • Un ulteriore elemento da tenere in considerazione: più la banda è stretta, più l’immagine sarà scura, quindi inquadrare il target e mettere a fuoco usando L-eXtreme (e sono sicuro che L-Ultimate sarà anche peggio!) È DAVVERO DIFFICILE. Solo stelle molto luminose possono essere utilizzate per questo scopo con una maschera di Bathinov.

I filtri a doppia banda (es. Optolong L-eNhance, L-eXtreme o L-Ultimate) possono essere utilizzati anche con sensori monocromatici: in questo caso forniscono un’immagine di “luminanza” (sempre in scala di grigi) raccogliendo H-Alpha ed OIII, che può essere integrata con acquisizioni di colore separate. Il vantaggio rispetto ai tre colori separati è che il canale di luminanza raccoglie tutta la luce insieme e può migliorare il rapporto segnale/rumore mentre le singole bande possono quindi essere utilizzate solo per colorare l’immagine.

Quindi, alla fine, la mia scelta è: sensore monocromatico con filtri a banda stretta (HSO) dal centro città, Monocromatico con filtri a banda larga e LRGB PIÙ una DSLR Full Spectrum e Hutech IDAS D1 da cieli buoni. Ma, ovviamente, ciò richiede nel mio caso due configurazioni totalmente diverse (che poi associo anche a due diversi telescopi, montature, ecc.). Ma, focalizzandoci su sensori OSC (ovvero sensori a colori con matrice di Bayer), qual è il miglior compromesso?

La soluzione proposta:

  • Riprendendo solo da siti a basso inquinamento luminoso Hutech IDAS D1 (o L-Pro, la mia seconda scelta)
  • Se si effettuano riprese solo da siti con inquinamento luminoso medio Optolong L-eNhance
  • Se si riprende solo da siti con inquinamento luminoso alto/molto alto Optolong L-eNhance o L-eXtreme
  • Se si effettua l’imaging sia da siti ad alto che a basso livello di inquinamento, L-eNhance è la scelta più flessibile, altrimenti è possibile utilizzare due filtri: uno tra Optolong L-eNhance o L-eXtreme più Hutech IDAS D1 (o L-Pro in alternativa al D1).

Disclaimer: tutti i filtri utilizzati in questo test sono i miei, acquistati nel tempo per far fronte all’inquinamento luminoso, ad eccezione degli Optolong L-eNhance e L-eXtreme che ho preso in prestito da TS Italia Astronomy. Non ho ricevuto alcun pagamento per questo report e non ho pagato i filtri, che sono stati rispediti al termine del test.

Tutte le considerazioni contenute in questo test sono solo mie, e nessuna modifica è stata richiesta da TS Italia Astronomy in cambio del prestito dei filtri.

Infine, nel vasto oceano di altre soluzioni disponibili sul mercato, sembra esserci un’alternativa molto interessante che non ho testato: l’IDAS NBZ sembra avere una risposta simile agli Optolong L-eNhance e L-eXtreme, e potrebbe essere ancora meglio, ad un costo molto simile all’eXtreme.

Deep sky di qualità da cieli fortemente inquinati

Ciao a tutti, ragazzi!

È da un po’ che mi riprometto di sottoporvi qualcosa di valore sul deepsky, ma in effetti, coi tempi (e gli inquinamenti) che corrono, questo tipo di ripresa diventa sempre più difficile da realizzare… Come tutti sappiamo bene, estremo rifugio dell’astrofotografo (e dell’astrofilo in generale) sono le vette delle nostre amate montagne, Alpi e Appennini, così come i più bui entroterra delle isole maggiori e più in generale tutte le zone a bassa antropizzazione. Tuttavia, operare da questi contesti è sempre più impegnativo: quand’anche volessimo escludere la complessità organizzativa che impone una sessione di ripresa in queste zone, tra i mille impegni lavorativi e familiari che tutti abbiamo, rimane pur sempre da constatare che anche questi luoghi sempre più sono intaccati dalla piaga dal dilagante spreco energetico legato alla illuminazione notturna, pubblica e privata…

Ebbene, proprio per questo non è di luoghi di frontiera per la civiltà, che oggi voglio parlare, ma più spiccatamente di comode e vicine città. Città certo nottetempo inquinate, e pesantemente anche, da luci di tutti i tipi. Insomma, degli ultimi luoghi in cui ci si aspetterebbe di trovare un astrofilo felice, men che meno un astroimager che si occupi di deepsky… E invece no. Perché, come ebbe a dire qualcuno, “la vita trova sempre un modo”, e noi astrofili, in questo senso, siamo dei veri eroi: un modo lo troviamo. Sempre! D’altro canto che sarà mai, per coloro i quali hanno fatto dell’osservazione di minuscoli, tenui e lontanissimi bagliori nel buio la loro grande passione, affrontare il “modesto” problema dell’avere qualche centinaio di lux al suolo in piena notte? Eccheccazzo!!!

Sarcasmo a parte, i più esperti certo lo sanno bene, per riprendere gli oggetti deepsky con risultati grandemente qualitativi esistono da diversi anni in commercio dei filtri, i filtri narrow band (a banda stretta), che permettono di realizzare ottime riprese anche dai medi cieli urbani. Il principio è molto semplice: sapendo che le sorgenti astronomiche emettono, un po’ come dei radiofari, soprattutto in alcune precise bande dello spettro elettromagnetico, è sufficiente “sintonizzarsi”, grazie a questi filtri, su quelle specifiche frequenze (idrogeno ionizzato, ossigeno ionizzato, zolfo ionizzato, ecc..), ancora abbastanza poco intaccate dall’IL, per ottenere una luce meno spuria, quasi inviolata. Una luce in presa diretta dallo spazio profondo.

Più in dettaglio, però, oggi andiamo a parlare di chi suole fare delle riprese narrow band un vero “sport estremo”, andando direttamente al cuore della questione: andiamo a parlare, cioè, di come sia possibile effettuare riprese deepsky di alta qualità persino dai pressi della più inquinata città della Pianura Padana, nonché, probabilmente, di tutta Italia: Milano! La splendida città meneghina, ricca di storia e bellezze è infatti, purtroppo, anche la patria nazionale dell’inquinamento luminoso, con una brillantezza media annua del cielo notturno che non teme il confronto con nessuna tra le maggiori megalopoli europee e mondiali. Per intenderci, Londra, Parigi e Berlino sono sovrastate da mostro luminoso che irradia il cielo notturno in maniera non dissimile da quanto avviene nella città della Borsa.

Come accennato, fare riprese in questi contesti può risultare un po’ uno “sport estremo”, ma non per questo risulta essere qualcosa di impossibile. Basta avere i giusti strumenti e la giusta passione.
Di questo stesso mio avviso, evidentemente, è anche l’amico e ottimo (astro)fotografo, Marco Formenton, che da lì opera: proprio dai pressi di Milano!

Le immagini che realizza testimoniano una passione evidente, ma quel che risulta molto meno evidente sono le lunghissime ore di lavoro necessarie per effettuare l’elaborazione e, ancor di più, le riprese stesse. Eh, sì, perché, per chi non lo sapesse, i filtri narrow band di qualità sono davvero stretti, e lasciano passare solo una minima quantità di luce (circa il 2% delle frequenze). Questo comporta ovviamente un aggravio notevolissimo delle difficoltà tecniche.

Certo, le riprese sono state realizzate con un setup di alta qualità, studiato da noi appositamente assieme a Marco; ma si tratta di un setup assolutamente tutt’altro che fantascientifico, di fatto alla portata di tutti!
Si tratta di un tripletto FPL53 TS TLAPO804 e di un tripletto FPL51 Tecnosky 115/800 V2, ridotti e/o spianati ed equipaggiato di una camera CMOS ASI1600MMC, dal costo davvero accessibile; il tutto, su una sempreverde montatura Skywatcher EQ6 moddata Astronomy Expert. Ah, sì, naturalmente anche dei filtri di buona qualità, sono un po’ indispensabili: perché qui i filtri fanno la differenza, letteralmente, tra la notte (o qualcosa che ci somiglia) e il giorno (o qualcosa che ci somiglia)… 🙂

Con ciò detto, non mi resta che passare la parola all’autore delle splendide foto che avrete certo già iniziato ad apprezzare con un veloce scroll di pagina. Altrimenti non credo vi sareste sorbiti questo mio polpettone introduttivo… :DDD

In nostri ringraziamenti vanno a Marco per il contributo e lo splendido lavoro svolto, che (ancora una volta in questa sede lo voglio ribadire) ci mostra come conti infinitamente di più una grande passione di tutto il resto. È questa passione, incontenibile, che dovrebbe guidare la vita di tutti noi: anche se ci porta al sacrificio di un meritato sonno in favore di lunghe ore di impegno e concentrazione; anche se ci costringe a stare al freddo vero, magari dietro a una guida che fa i capricci; anche se ci porta a passare il weekend a mordersi le unghie mille volte dietro a un monitor, alla ricerca della una elaborazione perfetta, che non viene mai…

Senza impegno, senza dedizione, senza sacrificio, non si va da nessuna parte, ragazzi! E anche allora, non è mai detto, fino alla fine, fino a risultato incassato, fino a quando ciò che cerchi non compare davanti ai tuoi occhi, e lascia stupito pure te…

Come sempre, l’astronomia è vera, grande maestra di vita!!!

Non solo quando siamo al telescopio.

Buona lettura a tutti.

LUCA ZANCHETTA – TELESKOP SERVICE ITALIA


Ho alzato per la primissima volta il naso all’insù nel settembre 2016 quando insieme all’amico Fabrizio Vicini ho scoperto lo spettacolo della Via Lattea alta nel cielo. Fabrizio, che già era appassionato di astronomia cominciò a farmi notare le costellazioni che ruotano lungo la polare, l’Orsa Maggiore e Cassiopea, poi fece uno scatto, per me a quell’epoca era uno scatto a casaccio nel cielo, poi mi fece vedere lo schermo della reflex, fece uno zoom e mi disse: “vedi quel batuffolo di cotone? Ecco quella è la galassia di Andromeda!”.

Rimasi sbalordito!

Da lì la voglia di scoprire cosa si celasse in ogni angolo del cielo si è insinuata nella mia mente, ho iniziato a documentarmi, a scoprire un mondo per me totalmente nuovo fino a quando, nel febbraio 2017 acquistai il mio primo Skywatcher Star Adventurer a cui affiancai la mia reflex Nikon D750.

Da questo momento cominciai a sperimentare.

Il primo scoglio fu metter in polare la strumentazione che per uno come me che mai si era dedicato all’osservazione astronomica era già un bel traguardo.

Poi i primi scatti alla Grande Nebulosa di Orione, M42, la più semplice, non fotograficamente, ma da centrare, perché non riconoscendo ancora le costellazioni non è per nulla semplice inquadrare soggetti invisibili al nostro occhio.

Cominciai a vedere i primi risultati verso marzo, passando ore ed ore in mezzo alle campagne del Pavese a provare e riprovare.

Lo Star Adventurer e la Nikon D750 cominciarono presto a starmi stretti.

Mi rivolsi allora ai ragazzi di Teleskop Service Italia dove acquistai la mia prima montatura equatoriale Skywatcher NEQ6 Pro con modifica Rowan cui affiancai lo splendido Skywatcher 200 f4.

Presto mi ritrovai in un ambiente nuovo, ma in cui ero a mio agio, dove ho conosciuto tante persone nuove ma soprattutto buoni amici, in particolar modo il fantastico team Eye In The Sky Astronomy di Caldonazzo che ammiro e stimo moltissimo!

A Luglio 2017 partecipai al mio primissimo star party organizzato proprio dai ragazzi dell’EITSA sul monte Panarotta e lì scoprii davvero la differenza di un buon cielo rispetto a dove riprendo abitualmente.

La passione si è sempre fatta più forte in me e decisi di fare il grande salto verso sensori più performanti, ma in un momento di trasizione forte come questo è stato arduo scegliere tra sensore CCD oppure CMOS.

Ad oggi, a distanza di un anno, parecchie ore di sonno in meno e tanti sacrifici ecco il mio setup (spero) definitivo:

Montatura: Skywatcher AZEQ6 GT
Camera: Zwo ASI1600MM-C
Filtri: ZWO LRGB – HAlfa 7nm – SII 7nm – OIII 7nm
Guida: QHY5-LII su OAG TS-Optics Off-Axis Guider TSOAG9
Telescopio: TS Photoline Triplet FPL-53 Super Apo – 80mm aperture / 480mm focal length (f/6)
Tecnosky Rifrattore ApoTripletto 115/800 V2
Riduttore/Spianatore: TS-Optics PHOTOLINE 2″ 0,79x Reducer 4-element for Astrophotography
Spianatore: TS-Optics PHOTOLINE 2″ 1.0x Flattener for Refractors and Apos

Il luogo delle mie riprese è per il 99% il terrazzo di casa mia, in provincia di Pavia, ad una trentina di minuti a sud di Milano, da qui il mio uso smodato dei filtri narrowband che permettono la ripresa di soggetti deboli con buoni risultati.

In alternativa, lavoro e famiglia permettendo mi sposto sulle colline dell’oltrepò, a meno di un’ora da casa dove il cielo raggiunge un SQM di 21.

Ma le serate più belle restano quelle trascorse in Trentino, in compagnia di Andrea, Silvano, Roberto, Simone e tutto il fantastico gruppo EITSA a cui sono molto affezionato!

Come fotografare una bellissima Mineral Moon

La Luna è l’oggetto celeste più fotografato e fotogenico. A piccoli o alti ingrandimenti, di notte e persino di giorno, in fase sottile o quando è quasi piena, è un obiettivo che garantisce sempre un grande spettacolo.

L’unico problema del nostro satellite sono i colori. Illuminato dalla luce del Sole, quel pezzo di roccia che ci orbita intorno da 4,5 miliardi di anni mostra una colorazione priva delle bellissime sfumature che invece possiamo trovare facilmente su Marte, Giove, Saturno, per non parlare degli oggetti del profondo cielo. La sua superficie scura, dalla brillanza simile a quella dell’asfalto appena steso, sembra essere priva di quei contrasti cromatici che incantano i nostri occhi e ci consegnano un Universo pieno di colori.

La Luna ha dei colori? Ha tonalità reali? E nel caso, come possiamo superare le limitazioni dei nostri occhi e osservare queste sfumature?
La risposta è affermativa e prevede di applicare una semplice tecnica chiamata Mineral Moon. Prima, però, dobbiamo capire quali sono i veri colori della Luna, se ne ha.

La superficie selenica è composta da rocce simili a quelle terrestri e, proprio come qui sulla Terra, ci sono zone in cui la composizione chimica può cambiare, a seconda del tipo di minerali prevalenti. Ogni minerale ha una colorazione tipica, anche se questa è spesso molto più tenue di quella che può percepire l’occhio. Se varia l’abbondanza di un certo minerale, è allora scontato pensare che possa cambiare, in modo leggero, il colore. Sulla Terra possiamo capire meglio la situazione: le zone del deserto del Sahara sono rosate, mentre quelle del deserto australiano appaiono rosse. Sulla Luna accade una cosa simile, anche se le differenze cromatiche sono molto tenui e visibili solo attraverso un’opportuna tecnica fotografica.

La Mineral Moon è una tecnica molto semplice di fotografia che prevede di catturare immagini a grande campo del nostro satellite con sensori a colori e di applicare una semplice tecnica di elaborazione che ci permetterà di estrapolare la grande quantità di informazione contenuta nelle nostre fotografie.

 

La strumentazione

La strumentazione adatta è costituita da una normale reflex, anche non modificata, al fuoco diretto di un telescopio che NON sia un rifrattore acromatico, poiché questi soffrono di cromatismo. Tutti i catadiottrici e i telescopi Newton sono perfetti allo scopo (e anche i rifrattori apocromatici veri, cioè con almeno 3 lenti). Non importa il diametro perché non siamo interessati, almeno all’inizio, a una stratosferica risoluzione. Le foto più spettacolari, infatti, si ottengono includendo tutto il disco lunare nel campo inquadrato, magari in prossimità della Luna piena, così sappiamo anche cosa fare in quelle notti di solito poco prolifiche per le osservazioni astronomiche.

 

Tecnica di ripresa

L’acquisizione delle immagini non è dissimile da quella necessaria per fotografare i pianeti. Si catturano tanti frame, in formato grezzo (raw) tutti identici. È importante raccogliere tanti scatti per aumentare la dinamica dell’immagine e ottenere così un’immagine in cui i colori saranno ben visibili. Non c’è un limite ma in generale sarebbe meglio catturare almeno 100 frame, scattando a bassa sensibilità, magari 100 ISO. Non aumentare la sensibilità di scatto perché si incrementa il rumore e diminuisce la dinamica, che è l’unica cosa che davvero conta in questo caso.

I momenti migliori per fare gli scatti sono quando il nostro satellite si trova molto alto sull’orizzonte. Questa richiesta è fondamentale per evitare che la nostra atmosfera alteri in modo irreversibile i tenui colori che vogliamo estrapolare.

 

Elaborazione

Dopo aver allineato e sommato i singoli scatti con programmi come Registax o Autostakkert, cercando di scartarne il meno possibile, tanto la risoluzione effettiva non conta molto, dobbiamo lavorare sull’immagine grezza in due fasi, una dedicata esclusivamente al colore e l’altra alla risoluzione.

Creiamo due copie identiche della nostra immagine grezza. Useremo una di queste come canale di crominanza, al quale quindi cercheremo di estrarre al meglio i colori tralasciando i contrasti. L’altra versione la trasformeremo in bianco e nero e applicheremo delle maschere di contrasto, concentrandoci solo sul lato dei contrasti e della risoluzione. Questa sarà la base di “luminanza” che poi coloreremo con la versione a cui avremo estrapolato i colori. Agendo in questo modo possiamo sfruttare sia l’informazione cromatica che quella spaziale, senza sacrificare nulla del segnale che abbiamo raccolto con tanta fatica.

Sulla copia dedicata al colore non dobbiamo applicare alcuna maschera di contrasto ma agire in due modi. Prima di tutto dobbiamo eliminare la dominante giallastra tipica del nostro satellite, che rappresenta solo il contributo della luce solare. Per fare questo possiamo operare un bilanciamento del bianco, selezionando come punto campione una zona dalla colorazione neutra (di solito NON nei piatti mari, che tendono a essere azzurri). A volte anche la funzione “colore automatico” di Photoshop aiuta molto e restituisce un’immagine priva di dominante generale. L’obiettivo è avere un’immagine che sembra (ma non lo è) in bianco e nero, senza dominanti.

A questo punto possiamo passare alla fase successiva: aumentare la saturazione del colore fino a far comparire i colori ma senza creare artefatti. In generale è meglio procedere a piccoli passi, aumentando la saturazione di circa il 30% ogni volta invece che farlo in un’unica soluzione. Piano piano vedremo la Luna colorarsi. Ci fermeremo solo quando cominceremo a vedere il rumore di fondo e l’immagine diventerà molto granulosa. Non bisogna applicare altri strani filtri, come quelli fotografici, che fanno più danni che altro: ricordiamo infatti che stiamo cercando di rappresentare la realtà come è e non come vorremmo che fosse!

Ecco i colori della Luna! L’immagine, però, non è proprio bella a livello estetico, ecco perché abbiamo a disposizione l’altra copia trasformata in bianco e nero e a cui abbiamo applicato qualche maschera di contrasto per renderla bella.

I colori ci sono ma l'immagine è molto granulosa. Non importa, per questo abbiamo creato una versione di luminanza che coloreremo con questa.

I colori ci sono ma l’immagine è molto granulosa. Non importa, per questo abbiamo creato una versione di luminanza che coloreremo con questa.

Prendiamo allora la nostra crominanza, un po’ brutta, e copiamola sulla versione di luminanza, trasformata in immagine a colori. Allineiamo i due livelli e impostiamo il modo di unione su “colore”. Come per magia, l’informazione del colore viene trasferita sulla versione esteticamente più gradevole e la nostra Mineral Moon è pronta!

Le due versioni a confronto. A sinistra ci siamo concentrati solo sulla luminanza e sui dettagli. A destra solo sul colore. Ora dobbiamo unire al meglio le due informazioni.

Le due versioni a confronto. A sinistra ci siamo concentrati solo sulla luminanza e sui dettagli. A destra solo sul colore. Ora dobbiamo unire al meglio le due informazioni.

 

Sovrapponendo il file di crominanza a quello di luminanza e unendo con il metodo "colore" ecco che la magia è completa: una foto che mostra i dettagli e i veri colori della Luna!

Sovrapponendo il file di crominanza a quello di luminanza e unendo con il metodo “colore” ecco che la magia è completa: una foto che mostra i dettagli e i veri colori della Luna!

La Mineral Moon

La Mineral Moon

I colori sono reali? Certo! Anche se l’occhio non li percepisce, non vuol dire che non esistono, piuttosto che il nostro apparato visivo non ha la sensibilità sufficiente a restituirceli, come d’altra parte accade a tutti gli oggetti del profondo cielo. La realtà è molto più ampia del piccolo spicchio accessibile al nostro occhio. In un certo senso, allora, è più corretto dire che è la versione monocromatica che noi possiamo vedere di solito, della Luna e delle nebulose, a non essere reale, perché la realtà, indagata con strumenti più sensibili e oggettivi, mostra un Universo pieno di colori!

Immagini di questo tipo, oltre a essere belle per la vista, contengono dati interessanti dal punto di vista geologico. Certo, la precisione nel determinare gli elementi prevalenti non è elevatissima ma possiamo dire, ad esempio, che le zone rosse sono povere di ferro e in generale più antiche, mentre quelle blu rivelano aree ricche di titanio. Chissà che un giorno anche queste nostre foto non serviranno ai primi minatori lunari come indicazione su dove trovare maggiori quantità dei preziosi minerali che cercheranno di estrarre.

Fotografiamo la superficie di Venere!

Venere sta dominando queste serate di fine inverno e dominerà le albe di tutta la primavera, quindi non possiamo non parlare di questo faro del cielo. Non sarà però il solito post che ci insegna a osservare le solite fasi di Venere, anzi, tutt’altro!

Il nostro gemello, con dimensioni e massa molto simili, è in realtà una vera e propria Nemesi: l’atmosfera è decine di volte più densa, composta quasi per intero da anidride carbonica e con minacciose nuvole di acido solforico. Sulla superficie la temperatura, di giorno come di notte, ai poli come all’equatore, è stabile, da chissà quanto tempo, allo stratosferico valore di +460°C. Venere è un forno inospitale per qualsiasi forma di vita e per di più la sua superficie è del tutto nascosta alla nostra vista da chilometri di nuvole che non lasciano mai neanche uno spiraglio ai nostri telescopi.

Per centinaia di anni dopo l’invenzione del telescopio, nessun essere umano è riuscito a capire cosa si nascondesse sotto le nuvole venusiane, fino a quando negli anni ‘60 le prime sonde sovietiche giunsero sull’inospitale superficie.

La mappatura completa di Venere è stata effettuata dalla sonda Magellano che negli anni ’80, grazie a un radar, ha composto la prima mappa geologica e altimetrica del pianeta. Anche se noi non lo possiamo vedere, Venere ha crateri da impatto, montagne, pianure, colline, scarpate e valli. Ma siamo sicuri che non ci sia alcun modo per sbirciare la superficie venusiana senza dover friggere a bordo di un’improbabile astronave che tenta di superare quelle fitte nuvole? La Natura in questo caso ci dà una grossa mano.

La superficie di Venere, a causa dell’enorme temperatura, emette radiazione elettromagnetica, proprio come un pezzo di ferro rovente. Con un picco verso i 4 micron ma una coda di emissione che arriva anche a 800 nm, questa radiazione termica riesce a uscire in parte dalla spessa atmosfera. Attorno alla lunghezza d’onda di 1000 nm (1 micron), infatti, l’atmosfera venusiana diventa trasparente e il calore della superficie può uscire nello spazio ed essere quindi osservato. La radiazione termica di Venere è molto più debole della luce solare riflessa dall’alta atmosfera ma se ci concentriamo sul lato non illuminato quando il pianeta mostra una fase molto sottile, allora l’impossibile diventa possibile.

Con un filtro infrarosso da un micron (1000 nm) e una camera planetaria, meglio se monocromatica, o una camera CCD per profondo cielo e un telescopio da almeno 15 cm su montatura motorizzata, è possibile fare una serie di fotografie a lunga esposizione, bruciando la falcetta di Venere e lasciando che la più debole radiazione termica del lato non illuminato venga alla luce. Non potremo mai osservarla all’oculare del telescopio perché i nostri occhi non sono sensibili agli infrarossi, ma abbiamo appena scritto la ricetta per una fotografia molto speciale.

La tecnica migliore prevede di acquisire immagini a una focale non troppo elevata, poiché si tratta a tutti gli effetti di una ripresa deep-sky e non più in alta risoluzione. Focali comprese tra i 2 e i 3 metri sono ottime per questo scopo. Dobbiamo aumentare l’esposizione e/o il guadagno, senza curarci della luminosità della parte illuminata.
La magnitudine superficiale del lato non illuminato è di circa 12 su ogni secondo d’arco quadrato, circa come quella del pianeta Nettuno e molto più alta di ogni oggetto del profondo cielo. Sebbene quindi si possa osservare la debole radiazione anche con tempi di posa brevi, di circa 0,2 secondi, per avere un ottimo segnale è meglio fare tante esposizioni con tempi compresi tra 2 e 5 secondi. Se la montatura è ben stazionata al polo non si avranno neanche problemi di inseguimento. Più frame si acquisiscono e meglio è, tanto non ci sono problemi di rotazione del pianeta. L’unica limitazione è rappresentata dal fatto che è necessario fare una ripresa del genere con il Sole tramontato e con il fondo cielo scuro.

Luce cinerea? Sì, ma di Venere e non è riflessa!

Luce cinerea? Sì, ma di Venere e non è riflessa!

Se siamo bravi e pazienti e magari disponiamo di una camera CCD per le riprese del profondo cielo, oltre al suggestivo chiarore della parte non illuminata, che renderà Venere simile alla luce cinerea lunare, potremo mettere in evidenza anche strutture superficiali. Il principio è semplice: le montagne e gli altopiani avranno temperature minori rispetto alle valli e alle grandi pianure, quindi emetteranno meno radiazione termica.

In effetti, con esposizioni lunghe, telescopi da almeno 15 centimetri, una fase della parte non illuminata inferiore al 25%, un cielo ormai scuro e acquisendo qualche centinaio di frame, è possibile mostrare la traccia inequivocabile di dettagli superficiali. Questa è una piccola rivoluzione per noi: con la nostra strumentazione possiamo fotografare la superficie di Venere, in barba a tutti quei tossici e infernali strati nuvolosi!

Non ci credete? E allora osservate questa foto che ritrae i principali dettagli superficiali, che ho composto con le immagini ottenute nel 2009 e il 18-19 febbraio scorsi. Questo è l’aspetto del nostro pianeta gemello e questo è quello che si potrà vedere da qui a pochi giorni prima della congiunzione con il Sole del 23 Marzo. Ma poi, all’alba, i giochi potranno ricominciare di nuovo e almeno fino alla metà di maggio potremo ancora cacciare questa elusiva “luce cinerea” venusiana con i nostri strumenti. Non lasciamoci sfuggire questa ghiotta occasione, altrimenti dovremo aspettare più di un anno per riprovare l’impresa!

Dettagli superficiali di Venere

Dettagli superficiali di Venere

 

Campionamento e focale equivalente nella fotografia astronomica

Nelle osservazioni visuali le immagini vengono ingrandite attraverso gli oculari. Nella fotografia astronomica non ha più senso parlare di ingrandimento, perché al posto dell’occhio si inserisce un sensore digitale senza obiettivo e l’immagine, a rigor di logica, non viene ingrandita. In questi casi si parla di scala dell’immagine o campionamento, le grandezze che determinano “l’ingrandimento” delle immagini digitali.

Il campionamento, o scala dell’immagine, rappresenta la dimensione angolare di cielo che riesce a riprendere un singolo pixel del sensore. Quindi, questo determina anche il più piccolo dettaglio che è possibile, in teoria, risolvere. Una scala dell’immagine di 2”/pix (secondi d’arco su pixel) indica che ogni pixel inquadra una porzione di cielo con lato di 2”. Poiché i pixel sono i punti che formeranno l’immagine digitale, tutto quello che ha dimensioni inferiori a 2” non sarà mai risolto dal sensore. Questo prescinde dalla turbolenza atmosferica e da diametro dello strumento e rappresenta una specie di potenziale. È infatti certo che un’ipotetica scala dell’immagine di 40”/pixel non risolverà mai delle strutture di galassie o nebulose inferiori a questo valore. D’altra parte non è detto, anzi, non è proprio possibile dai nostri cieli, che un campionamento di 0,5”/pixel riesca a mostrarci dettagli di questa dimensione angolare perché saranno rovinati dalla turbolenza atmosferica, anche se usassimo un telescopio in grado di mostrarceli. Il campionamento, quindi, non determina direttamente la risoluzione dell’immagine ma ci permette di capire parametri fondamentali come il campo di ripresa che si ha con una certa accoppiata telescopio – sensore, quindi dà indicazioni su quali soggetti possiamo riprendere al meglio e se saremo limitati o meno dalla turbolenza atmosferica.

Calcolare il campionamento di un’immagine è facile utilizzando la seguente formula:

C = (Dp /F) x 206265,

dove C = campionamento (in secondi d’arco su pixel) , Dp = dimensioni dei pixel del sensore utilizzato e F = focale del telescopio. Dp e F devono avere le stesse unità di misura; 206265 è il fattore di conversione tra radianti e secondi d’arco. Di solito le dimensioni dei pixel sono espresse in micron, mentre quelle della focale in millimetri. Niente paura: un micron corrisponde a 0,001 millimetri.

 

Campionamento ideale nelle fotografie a lunga esposizione

Un principio, detto criterio di Nyquist, applicato al campo ottico afferma che per sfruttare una determinata risoluzione occorre che il più piccolo dettaglio visibile cada almeno su due pixel adiacenti. Se consideriamo che nel mondo reale è meglio se il più piccolo dettaglio risolvibile cada su almeno 3 pixel, possiamo giungere a importanti conclusioni su quale possa essere il massimo campionamento efficace nella fotografia a lunga esposizione. Se la risoluzione massima a cui possiamo ambire è determinata dalla turbolenza media ed è intorno ai 2,5-3”, a prescindere dal diametro del telescopio, significa che le scale dell’immagine più basse che possiamo usare prima di avere l’effetto delle stelle a pallone e dettagli sempre sfocati sono dell’ordine di 0,8”-1”/pixel. Nelle condizioni medie, di fatto non conviene quasi mai lavorare con scale più piccole di 1”-1,5”/pixel.

L’effetto più grave di quello che si chiama sottocampionamento, cioè lavorare con scale più grandi, è mostrare stelle così piccole che potrebbero diventare quadrate, perché questa è la forma dei pixel, ma d’altra parte avremo sempre dettagli degli oggetti estesi ben definiti e contrastati, con una profondità in termini di magnitudine ancora ottima. L’effetto di un sovracampionamento, cioè di una scala dell’immagine più bassa di quella limite, è quello di restituire stelle sempre molto grandi e dettagli degli oggetti estesi sfocati e indistinti. Come se non bastasse, un sovracampionamento produce anche una perdita, a volte notevole, di profondità perché la luce si espande su più pixel invece di venir concentrata in una piccola area. Il mio consiglio, quindi, è di non esagerare con la scala dell’immagine e di preferire immagini “meno ingrandite” ma più definite a improbabili zoom che mostrerebbero nient’altro che un campo confuso e molto rumoroso. Questo ragionamento vale sia per le riprese telescopiche, in cui si dà per scontato che il seeing sia il limite alla risoluzione rispetto al diametro dello strumento, che per le fotografie attraverso obiettivi e teleobiettivi, in cui il limite deriva dal potere risolutivo dell’ottica.

Conoscendo il campionamento e il numero di pixel dei lati del sensore, possiamo subito comprendere quanto sarà grande il nostro campo di ripresa e capiremo se sarà possibile riprendere al meglio un’estesa nebulosa o una debole galassia.

Districandosi in questa specie di giungla, potremo costruire un setup più specifico per la tipologia di oggetti che più ci piace. A livello generale e personale, finché useremo delle semplici reflex digitali non vale la pena farsi troppi conti perché tanto per queste non c’è molta scelta a livello di dimensioni dei pixel e del formato del sensore. Quando invece parliamo di CCD (o CMOS) astronomici, che dobbiamo scegliere con molta attenzione, il campionamento che otterremo con il nostro setup rappresenta il punto più importante per la scelta. Sarà infatti inutile, e frustrante, usare un sensore con pixel di 5 micron su un telescopio Schmidt-Cassegrain da 1,5-2 metri di focale, che ci darà un campionamento di 0,70-0,50”/pix e potrebbe venir sfruttato in pieno solo dal deserto di Atacama. Nelle nostre località otterremo sempre stelle a “pallone” e oggetti diffusi molto deboli e rumorosi, tanto da richiedere ore e ore di integrazione per mostrare dettagli interessanti. Un risultato simile si sarebbe ottenuto con una scala dell’immagine anche tre volte superiore e un tempo di integrazione totale dalle 4 alle 9 volte inferiore.

Avere pixel molto piccoli comporta anche una perdita di sensibilità e dinamica, perché un pixel più piccolo raccoglie meno luce e può contenere molti meno elettroni di uno più grande, con la conseguenza che il range dinamico del sensore si può ridurre anche di 5 volte tra pixel da 5,6 micron e da 9 micron. Poiché un sensore astronomico è qualcosa che dovrebbe durare per molti anni e le serate buone si possono contare in un anno sulle dita di due mani, è meglio sceglierne uno che si accoppi in modo perfetto al nostro telescopio. Se ci piacciono primi piani di galassie è meglio ingrandire le immagini in elaborazione che lavorare a una scala piccolissima.

 

Campionamento ideale nell’imaging in alta risoluzione

Quando parliamo di fotografia in alta risoluzione le cose cambiano drasticamente perché, grazie a pose molto brevi e un enorme numero di frame catturati, possiamo sperare di abbattere il muro eretto dalla turbolenza atmosferica media e spingerci verso la risoluzione teorica dello strumento, fino a un limite di circa 0,3” nelle zone più favorevoli e nelle migliori serate. Quando il seeing collabora, quindi, possiamo impostare la scala dell’immagine sui limiti di risoluzione teorica dello strumento che stiamo utilizzando. Una buona relazione per determinare la risoluzione alle lunghezze d’onda visibili è quella di Dawes:

PR = 120/D

Dove PR = potere risolutivo, in secondi d’arco, e D = diametro del telescopio espresso in millimetri.

Come già detto, affinché il sensore sia in grado di vedere questa risoluzione occorre che questa cada su 3-4 pixel: né molto più, né molto meno. In queste circostanze, allora, il nostro obiettivo sarà quello di lavorare a cavallo del campionamento ottimale, che può essere espresso dalla semplice formula:

Cott= 37/D

Dove D = diametro del telescopio espresso in millimetri e Cott = campionamento ottimale, espresso in secondi d’arco su pixel. Come possiamo vedere dal confronto con la formula di Dawes, cambia di fatto solo il coefficiente numerico, che è inferiore di poco più di tre volte, proprio come abbiamo detto con le parole. Il valore ottenuto, come quello della formula di Dawes, rappresenta un punto di riferimento alle lunghezze d’onda visibili e non un numero da rispettare in modo rigoroso. Scostamenti del 10-20% sono ancora accettabili e, anzi, incoraggiati, poiché ogni sensore, telescopio e soggetto possono preferire valori leggermente diversi dalla semplice teoria con cui abbiamo ottenuto questi.

I valori che raggiungiamo sono tutti piuttosto piccoli ed ecco spiegato il motivo per cui nell’imaging planetario è preferibile usare sensori con pixel di dimensioni ridotte, tra i 3 e i 7 micron al massimo: l’opposto di quanto si preferisce fare nella fotografia a lunga esposizione.

Nonostante questo, i rapporti focale tipici si aggirano tra f20-22 (per pixel da 3,7 micron) e f 30-35 (per pixel da 5,6 micron) e si rende necessario inserire oculari o lenti di Barlow per aumentare la focale nativa del telescopio. Invece di fare complicati calcoli sul rapporto focale raggiunto con un certo oculare o Barlow, per capire a quale campionamento reale si sta operando il modo migliore è fare dei test riprendendo un pianeta, ad esempio Giove. Misurando l’estensione in pixel e confrontandola con il diametro apparente che si può leggere da ogni software di simulazione del cielo, possiamo trovare il campionamento reale della ripresa applicando questa formula:

Ccalc = dang/dlin

Dove dang  sono le dimensioni angolari (in secondi d’arco) e dlin  il diametro misurato dell’immagine, espresso in pixel. Il campionamento restituito sarà in secondi d’arco su pixel. A questo punto la focale con cui è stata fatta la ripresa sarà:

Feq = (Dp/ C) x 206265

Dove Dp  sono le dimensioni dei pixel del sensore, espresse in millimetri e C il campionamento (calcolato sull’immagine o stimato, non cambia). La focale restituita sarà in millimetri. Il rapporto focale sarà dato dalla semplice relazione Feq / D, con D = diametro del telescopio, in millimetri. Queste formule sono valide in generale, quindi anche per le riprese del profondo cielo.

Anche in questa circostanza, avere a disposizione miliardi di pixel è dannoso, e molto più rispetto alla fotografia del profondo cielo (in cui il danno principale è l’esigenza di avere telescopi dall’enorme capo corretto, quindi molto costosi). Poiché il campionamento ideale è fissato e i pianeti hanno dimensioni angolari ridotte, per ottenere ottime immagini non potremo avere, ad esempio, Giove esteso per 4 milioni di pixel. Il sovracampionamento nell’imaging in alta risoluzione è distruttivo e sarebbe sempre da evitare, molto più che nella fotografia a lunga esposizione nella quale, almeno, possiamo sperare di allungare il tempo di integrazione per sopperire in parte al danno che abbiamo fatto.

Nella fotografia in alta risoluzione “ingrandire” troppo l’immagine ci allontanerà sempre da un risultato ottimo. Anche se all’inizio potrebbe sembrare che ottenere delle “pizze” ingrandite a dismisura possa essere entusiasmante, in barba ai teorici del campionamento ideale, stiamo osservando un risultato che è sempre peggiore rispetto a quanto avremmo ottenuto con “l’ingrandimento” giusto. Non è un’opinione, è un fatto e anche se non piace non si può cambiare.

Se i pianeti saranno estesi al massimo qualche centinaio di pixel (se abbiamo strumenti oltre i 20 cm), che ce ne facciamo di un sensore che ne possiede diversi milioni? Niente, a meno che non ci vogliamo dedicare espressamente a panorami lunari, ma anche in queste circostanze ci sono comunque dei limiti. Usare sensori con più di 2-3 milioni di pixel per fare imaging in alta risoluzione non è una buona soluzione perché si riduce di molto il framerate, cioè la frequenza con cui si acquisiscono le immagini, che in alta risoluzione è fondamentale avere almeno a 15-20 frame al secondo (fps).

Una libreria di miei fit grezzi per fare pratica

L’astronomia è condivisione, sia se la facciamo per hobby che per professione. La condivisione diventa necessaria quando parliamo di dati, di fotografie e di tutto ciò che può essere utile alla scienza o nell’apprendere nozioni in un campo nuovo. Se nessuno condividesse le proprie esperienze sarebbero molto pochi gli appassionati del cielo e ancora meno i progressi fatti dalla scienza negli ultimi secoli.

Spesso mi hanno chiesto quale fosse il segreto delle mie immagini, quale magica pozione utilizzassi per elaborarle. Molti sono infatti convinti che la magia di una foto la si crei nella fase di elaborazione, dove con qualche software potente come Photoshop potremo estrarre dettagli sorprendenti di una nebulosa, magari partendo da una sfocata fotografia a un segnale stradale. Certo, tutto è possibile, anche questo, ma credo che sarebbe bello partire da un’immagine reale e fare tutte quelle operazioni che non alterano il segnale catturato. L’obiettivo di un’elaborazione, sia pur estetica, di una fotografia astronomia dovrebbe essere quello di mostrare al meglio tutto il segnale catturato, senza cambiarlo, senza interpretare la realtà che resta quella che il nostro sensore digitale ha catturato. La tentazione di passare dalla fase di elaborazione a quella di fotoritocco può essere grande, soprattutto quando la nostra voglia di ottenere buoni risultati si trasforma in frustrazione vedendo in giro capolavori in apparenza irraggiungibili.

La fase fondamentale della realizzazione di un’ottima immagine astronomica si affronta sempre durante lo scatto, sul campo, spesso al freddo e all’umido. E’ una fase che spesso inizia prima dello scendere del buio, quando dobbiamo trovare il luogo adatto, privo di luci e di umidità, allineare il cercatore, collimare lo strumento (se serve), stazionare in modo perfetto la montatura verso il polo, scegliere il soggetto migliore per la serata e la strumentazione, che deve avere certe caratteristiche, impostare la guida, curare l’inquadratura, la messa a fuoco e poi sperare che per almeno 3-4 ore vada tutto bene, perché quando tutto funziona ed è stato ottimizzato l’unico segreto è questo: esporre, esporre ed esporre per 3-4-5 e più ore. Solo in rarissimi casi si possono ottenere splendide fotografie con un tempo di integrazione totale inferiore a un’ora e sempre la potenziale bellezza di uno scatto aumenta all’incrementare del tempo che gli dedichiamo, non di fronte al computer a elaborarlo ma sotto il cielo, a raccogliere fotoni che hanno viaggiato per migliaia o milioni di anni luce.

Proprio per dare un punto di riferimento a chi cerca di addentrarsi nel mondo della fotografia a lunga esposizione del profondo cielo o per tutti coloro che vogliono capire come migliorare i propri risultati, ho messo a disposizione una serie di fit scattati al cielo coon differenti strumenti e sensori. Per questioni di spazio non ho potuto mettere a disposizione i file singoli con i frame di calibrazione ma solo i file grezzi calibrati e sommati. Potete utilizzarli per fare pratica, divertirvi con gli amici, provare a scovare (e ce ne sono molti) i difetti. Potete pubblicarli per uso non commerciale citando sempre l’autore. Non dovete mai, in nessun caso, eliminare i riferimenti per l’autore o, peggio, spacciarli per vostri perché se vi becco sono cavoli amari 🙂 .

Alcune immagini non le ho elaborate neanche io ancora, per mancanza di tempo, quindi non ho la minima idea di come potranno venire. Molte altre, invece, le trovate elaborate nella mia gallaery su astrobin: http://www.astrobin.com/users/Daniele.Gasparri/collections/253/

Ecco l’elenco completo da cui poter scaricare le immagini. I file sono compressi in formato zip. All’interno troverete il file fit. Ho scelto questo formato, che Photoshop non legge a meno di scaricare il programma gratuito Fits Liberator, perché è lo standard internazionale per tutti i dati astronomici. Tutti i software appositi lo leggono, compreso Deep Sky Stacker, Nebulosity, Iris, Registax, MaxIm DL, PixInsight, AstroArt…

Mettete questo post tra i preferiti perché con il tempo verrà aggiornato con nuovi scatti, compresi quelli in alta risoluzione:

Come fotografare in modo spettacolare i colori delle stelle

Fare foto al telescopio, inseguendo nebulose, galassie e ammassi stellari è il sogno proibito di molti appassionati di astronomia, che spesso si infrange di fronte alle difficoltà tecniche, strumentali ed economiche richieste. Non si deve avere fretta, è un percorso che va fatto con pazienza e determinazione: questo è quanto viene detto sempre. Sì, d’accordo, ma da qualche parte dovremo pur cominciare, no? Magari abbiamo a disposizione una reflex digitale e un piccolo telescopio e ci piacerebbe iniziare a fare qualche semplice scatto, giusto per provare.

Di solito si comincia a fare foto alla Luna, poi a qualche pianeta brillante. Per andare oltre e fare le lunghe esposizioni richieste per immortalare gli oggetti del cielo profondo serve un salto di qualità non indifferente: una montatura equatoriale molto robusta, uno strumento buono dal punto di vista ottico e meccanico, un sistema di controllo dell’inseguimento, detto autoguida. Il fiume da guadare è piuttosto largo e profondo, soprattutto se non disponiamo di una montatura equatoriale all’altezza.

Prima di decidere se accontentarsi di quello che si ha, o svuotare il portafogli e ipotecare il futuro con il proprio partner, che potrebbe non apprezzare la vostra decisione, possiamo dedicarci a un tipo di fotografia astronomica attraverso il telescopio che non richiede costosi strumenti, né complesse montature. Anzi, a dire la verità non richiede neanche di inseguire le stelle!

La tecnica che sto per descrivere è stata portata alla ribalta negli anni ’80 e ’90 da un astronomo dell’Anglo Australian Observatory, che i più esperti forse già avranno sentito nominare: David Malin. Munito di una semplice attrezzatura e un po’ di inventiva si era chiesto, grazie al suo background scientifico: è possibile riprendere il colore delle stelle in modo più efficace rispetto a quanto accade in una normale fotografia? Non è infatti difficile notare come molte delle foto del profondo cielo mostrino stelle tendenzialmente bianche. Solo con una grossa dose di manipolazione software i più bravi astrofotografi riescono a tirare fuori qualche tonalità, ma non è una strada molto agevole, né spettacolare.

Partiamo allora dal principio alla base di questa nostra nuova esperienza di fotografia astronomica: le stelle si mostrano di diversi colori. A parte gli astri di classe A, come Vega, che appaiono completamente bianchi, tutti gli altri puntini sono colorati, anche se i nostri occhi faticano a notare la tonalità a causa della scarsa saturazione e della minore efficienza del nostro sistema visivo in condizioni di bassa illuminazione. Le fotocamere, però, non hanno questi problemi e per di più potremo aumentare la saturazione quanto vogliamo in fase di elaborazione per esasperare le differenze di colore delle stelle. Non si tratta di un mero esercizio di astrofotografia e di elaborazione: i colori delle stelle, reali, dipendono dalla loro temperatura superficiale. Possiamo quindi fare anche della scienza dall’esperienza che stiamo per fare, cosa che non guasta mai.

Quando fotografiamo una stella ben messa a fuoco dal telescopio la sua luce si concentra in pochissimi pixel che spesso diventano rapidamente saturi, se non in fase di acquisizione quando andiamo a regolare curve e livelli con qualche software. Da questa considerazione è nata l’idea geniale di Malin: per mostrare il colore delle stelle dobbiamo far espandere la loro luce su un’area maggiore, in modo che non si rischi di saturare i pixel. Il metodo migliore per fare questo prevede di sfocare leggermente l’immagine: semplice quanto efficace. Per dare un tocco estetico alla nostra futura foto, la tecnica di Malin considera un dettaglio geniale: la sfocatura progressiva, senza il moto di inseguimento delle stelle.

Ecco quindi quello che dobbiamo fare:

  • Colleghiamo la nostra reflex al telescopio. Se non sappiamo come fare, siamo nel posto migliore: contattate i tecnici di Teleskop Service Italia che vi consiglieranno gli accessori necessari (sono tutti economici). Il telescopio più adatto, al contrario di quelli usati per fare ottime foto al cielo, è un rifrattore, anche di piccolo diametro e non necessariamente apocromatico. In linea di principio, comunque, tutti gli strumenti vanno bene, compresi obiettivi e teleobiettivi fotografici;
  • Scegliamo un campo ricco di stelle brillanti. In queste serate autunnali le Pleiadi o il doppio ammasso del Perseo sono perfetti, se lavoriamo almeno a 400 mm di focale. Se abbiamo un campo molto largo perché usiamo un teleobiettivo, meglio andare verso la cintura di Orione;
  • Mettiamo a fuoco come se dovessimo scattare una perfetta foto astronomica, aiutandoci con la modalità live view;
  • Impostiamo sensibilità almeno a 400 ISO, modalità di scatto in formato RAW e posa Bulb. Meglio avere un telecomando per controllare l’esposizione della reflex senza doverla toccare. In mancanza di telecomando ci dobbiamo accontentare della posa massima consentita: 30 secondi, e dell’autoscatto;
  • Appena iniziamo lo scatto disattiviamo il moto di inseguimento siderale. Possiamo in ogni caso selezionare la modalità autoscatto, anche con il telecomando della reflex, e avere qualche secondo di tempo per disattivare il moto orario prima che inizi lo scatto. Si può anche provare a fare una variante interessante: 10 secondi di foto con messa a fuoco perfetta e moto orario acceso e poi il resto (sempre in uno scatto singolo) senza inseguimento e con la sfocatura progressiva che stiamo per vedere;
  • Toccando molto leggermente il focheggiatore, mentre la posa va avanti e le stelle si sposteranno, variamo in modo continuo e molto delicato la messa a fuoco, fino al termine dello scatto, compreso tra i 60 e i 120 secondi. Il fuoco non dovrebbe variare moltissimo, ma di quanto ruotare la manopola del focheggiatore lo capiremo dopo il primo tentativo. Ora osserviamo il risultato ed emozioniamoci, perché abbiamo fatto una foto sia artistica che scientifica, molto più didattica di tanti scatti fatti da astrofotografi esperti e purtroppo così pieni di elaborazione da aver perso quasi del tutto il contatto con la realtà.

Gli spettacolari colori delle Pleiadi, catturati con la tecnica descritta nel post attraverso un rifrattore da 106 mm e Canon 450D. Posa singola di circa 90 secondi.

Gli spettacolari colori delle Pleiadi, catturati con la tecnica descritta nel post attraverso un rifrattore da 106 mm e Canon 450D. Posa singola di circa 90 secondi.

 

Cosa accade in pratica quando applichiamo questa tecnica? La non compensazione del moto terrestre produce sul sensore le classiche tracce stellari. La sfocatura progressiva durante l’esposizione trasforma le tracce in tanti piccoli coni, la cui larghezza e lunghezza dipendono dal tempo di esposizione e dall’intensità della sfocatura. In questo modo la nostra immagine contiene molta più dinamica rispetto a una classica posa: le stelle più brillanti mostreranno il colore nella parte terminale del cono, quando la loro luce si sarà distribuita su un numero sufficientemente grande di pixel per evitare la saturazione. Le stelle più deboli avranno coni più brevi ma sempre colorati, soprattutto nella parte iniziale vicina al punto di fuoco.

La fase di elaborazione, spesso temuta e odiata, è semplicissima, anche se abbastanza importante. La saturazione dei colori delle stelle è per natura piuttosto contenuta. A questo però è facile porre rimedio con qualsiasi programma di elaborazione delle immagini. E’ infatti sufficiente aumentare la saturazione del colore di almeno il 50% per far emergere finalmente un campo pieno di evidenti sfumature e affascinanti contrasti. Non è necessario fare altro.

I colori delle stelle e l’estetica dell’immagine risultante dipendono dalla lunghezza e dalla larghezza dei coni stellari, quindi dalla focale di ripresa, dal tempo di esposizione, dall’intensità della sfocatura. Le variabili in gioco sembrano complicare la nostra ripresa, ma questa è una delle rare e piacevoli situazioni nelle quali la pratica è molto più semplice di qualsiasi spiegazione.

Qualcuno riconosce il campo inquadrato? La scala è la stessa della fotografia delle Pleiadi, solo che in questo caso ci sono molti più colori: è un vero spettacolo!

Qualcuno riconosce il campo inquadrato? La scala è la stessa della fotografia delle Pleiadi, solo che in questo caso ci sono molti più colori: è un vero spettacolo!

Il consiglio principale, quindi, è quello di fare esperienza e dare sfogo alla vostra fantasia. Sono sufficienti pochi minuti ed un paio di tentativi per trovare già il giusto compromesso che soddisfa il vostro gusto estetico. E, chissà, proprio come accade in altri ambiti della società, i nostri scatti creativi potrebbero riportare di moda questa tecnica, che molti nativi digitali, purtroppo, neanche conoscono. Eppure è utile, divertente e piuttosto artistica. A questo punto, allora, osservando i nostri capolavori un paio di domande sono obbligatorie: a quali temperature corrispondono i colori che stiamo osservando? Sono più calde le stelle rosse o blu? E di quanto? Scopriamolo da soli con enorme soddisfazione: è il bello dell’astronomia amatoriale!

Montare un filtro da 2″ davanti ad un obiettivo fotografico

Geoptik produce da tempo un interessante raccordo, che permette di montare filtri da 2″ su obiettivi con filetto da 58mm ( http://www.teleskop-express.it/adattatori-verso-2/1285-adattatore-filtri-2-geoptik.html ). Tenuto conto che la fotografia astronomica a grande campo è da diversi anni che sta attraendo nuovi astrofotografi, specie grazie all’interessamento anche dei fotografi paesaggisti in prevalenza, in tanti si pongono il problema nel caso dovessero montare un filtro per riprendere, ad esempio un halpha oppure un filtro LPR.

Nel caso si possieda una Canon in formato APS-C la soluzione è semplice, ci sono i filtri EOS-Clip della Astronomik, ma per chi possiede reflex di altre marche? Qualcosa sembra muoversi sul fronte Sony, grazie all’interessamento di Hutec, ma al momento chi ha una reflex al di fuori di Canon, purtroppo, non ha moltissime scelte. Una soluzione è quella di montare un filtro da 2″ davanti al nostro obiettivo, ma se non ha il filetto M58, ma più grande, come posso fare se volessi usare l’adattatore Geoptik?

Per fortuna Amazon ci viene incontro! Infatti basta prendere degli anelli Step Down, che costano davvero poco, un esempio: https://www.amazon.it/49mm-Anelli-Lenti-Adattatore-Filtri/dp/B008H2HUC4/ref=sr_1_3?ie=UTF8&qid=1478534130&sr=8-3&keywords=step+down+ring

In questo modo, spendendo meno di 10€, possiamo montare il nostro bel filtro e fare quello che vogliamo. Però la vignettatura introdotta, quanto mi inciderà e a che focali?

Bene, qui si sviluppa il nostro piccolo test. Ho montato la serie di anelli Step Down, fino al filetto M58 per poi montare l’adattatore Geoptik, su 2 obiettivi Canon in mio possesso e usati con una reflex Full Frame.

Attenzione!!!! I risultati sono stati ottenuti con una reflex full frame, quindi con un formato APS-C le tolleranze sono maggiori.

Qui sono stati montati gli anelli Step Down e l’adattatore Geoptim 30A193 su di un Canon 17-40L

img_9141

Ovviamente più la focale è bassa, più avremo l’effetto vignettatura, che a focali ultragrandandolari assume una rilevanza da..buco della serratura!

Qui a 17mm, immagine inutilizzabile

17-40_17mm

Qui invece a 40mm, l’immagine diventa usabile, tenuto conto della fisiologica vignettatura di ogni obiettivo

17-40_40mm

Con focali da 100 e 400mm ovviamente nessun problema:

100-400_100mm 100-400_200mm

Gli obiettivi usati hanno un diametro per i filtri da 77mm, bello grande, quindi più anelli dobbiamo mettere, più il nostro filtro si sposterà lontano dalla lente e…vignetteremo. Sicuramente la configurazione che ho usato è una delle peggiori possibili come tolleranze, diametro grande e sensore full frame.

In linea di massima si può dire che con reflex full frame ed obiettivi con diametro sui 77mm, la focale minima usabile parte da 30mm circa. Con sensore APS-C e obiettivi con diametro minore, ovviamente avremo MOLTA più tolleranza per operare a focali ultragrandangolari.

A mio avviso vale la pena provare, per neanche 10€ + adattatore Geoptik 30A193, provare a montare un filtro da 2″ sulla nostra reflex e tentare qualche bella ripresa. Ad esempio io proverò a riprendere in halpha, con una Sony A7s modificata e a focali dai 50mm in su, il complesso di nebulose in Orione con il suo anello di Barnard, vediamo cosa salterà fuori e se la vignettatura causerà problemi o meno, buone riprese a grande campo a tutti!