Una stazione per il monitoraggio dei bolidi

Che dire…gli articoli di Albino sono sempre qualcosa di stupefacente, e oggi siamo orgogliosi di presentare un suo nuovo, bellissimo lavoro!

Quello che introduciamo qui, propone un approccio molto pragmatico all’osservazione di meteore e bolidi, tale da permettere a chiunque, purché dotato di un po’ di abilità auto-costruttive, tanta passione e un budget di poche centinaia di euro (o anche anche minore, considerando che parte dell’attrezzatura più costosa è già in possesso di una amplissima parte di astrofili…) di realizzare una propria, personale stazione di monitoraggio.

Ancora una volta, un sentito grazie ad Albino!

Buona lettura a tutti!!!

 

LUCA ZANCHETTA – TELESKOP SERVICE ITALIA

 

 


Una stazione per il monitoraggio dei bolidi

Albino Carbognani, Ph.D.

albino.carbognani@libero.it

Versione del 21 marzo 2017

 

 

Uno dei più interessanti fenomeni astronomici cui è possibile assistere è senz’altro il passaggio di un bolide. A scanso di equivoci, quando si parla di “bolide” in campo astronomico si intende una meteora molto luminosa. Purtroppo, essendo eventi sporadici e imprevedibili, non è possibile sapere quando si avrà il prossimo bolide quindi è necessario un monitoraggio costante e continuo di tutto il cielo per avere la possibilità di osservarne qualcuno. Considerata l’era tecnologica in cui viviamo al posto nostro possiamo mettere un “occhio elettronico” controllato da un computer che ci mostri solo gli eventi interessanti. In questo articolo, dopo una introduzione alla fisica dei bolidi vedremo come costruire una economica stazione per la loro detection.

 

Asteroidi, comete e meteoroidi

In orbita attorno al Sole, oltre agli otto pianeti, si trovano centinaia di migliaia d’asteroidi e milioni di comete. Gli asteroidi si trovano prevalentemente fra le orbite di Marte e Giove, fra 2,1 e 3,6 UA dal Sole, in quella che è chiamata la Fascia Principale, e fra 40 e 55 UA nella Fascia di Kuiper. La maggior parte delle comete invece popola le regioni più esterne del Sistema Solare, dando origine alla nube di Oort (fra 40.000 e 100.000 UA). Gli asteroidi sono corpi per lo più a composizione rocciosa/metallica con diametri che vanno da diverse centinaia di km, fino alla decina di metri per quelli più piccoli. Le comete invece sono corpi prevalentemente ghiacciati e a bassa densità media, con dimensioni tipiche dell’ordine di 1-10 km.

 

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Fig. 1 – La collocazione della Fascia Principale (in rosa) e dei Troiani di Giove (in giallo) nel Sistema Solare.

 

Nella Fascia Principale, nell’arco di milioni o miliardi di anni, sono avvenute collisioni fra gli asteroidi che la popolano, com’è testimoniato dalla presenza di numerosi crateri da impatto sulle superficie di quei pochi corpi visitati direttamente dalle sonde spaziali. Normalmente lo scontro fra due asteroidi porta alla creazione di centinaia di frammenti con dimensioni che vanno da frazioni di millimetro ad alcune decine di metri e oltre. La fisica della fratturazione ci dice che i frammenti di dimensioni minori saranno molto più numerosi di quelli più grandi, cioè “piccolo è numeroso”.

I corpi con dimensione intermedia fra asteroidi e polvere interplanetaria, sono chiamati meteoroidi. I limiti fissati dall’IAU (International Astronomical Union) nel 1961 considerano come meteoroidi i corpi con una massa compresa fra 10-9 e 107 kg. Assumendo una densità media di 3,5 g/cm3 il raggio di un meteoroide va dai 40 µm ai 10 m. Al di sopra di circa 20 metri di diametro si parla più correttamente di asteroidi. A causa delle risonanze orbitali con Giove e Saturno e dell’effetto Yarkovsky dovuto “all’effetto razzo” provocato dall’emissione termica della superficie, i meteoroidi e gli asteroidi originatisi nella Fascia Principale possono essere immessi, su tempi scala dell’ordine della decina di milioni di anni, su orbite che intersecano quelle dei pianeti terrestri: Mercurio, Venere, Terra e Marte. Ci sono quindi centinaia di migliaia di meteoroidi e decine di migliaia di asteroidi near-Earth potenzialmente in grado di cadere sulla superficie terrestre. In parole povere, i frammenti che si generano durante le collisioni fra gli asteroidi della Fascia Principale in parte “cadono” verso il Sistema Solare interno e possono finire sul nostro pianeta.

Anche le comete sono una “sorgente” di meteoroidi, pur se di dimensioni e densità minore. Quelle comete che, dalla nube di Oort, riescono a raggiungere il Sistema Solare interno sono soggette ad un processo di sublimazione dei ghiacci superficiali che immette nello spazio interplanetario le particelle solide da cui sono, in parte, formate. Si originano così delle vere e proprie “correnti di meteoroidi” che seguono l’orbita della cometa-madre. In generale sono i meteoroidi di origine cometaria a dare origine agli sciami meteorici visibili durante l’anno, fra i più importanti e famosi dei quali troviamo le Perseidi e le Leonidi. Qui però siamo interessati ai meteoroidi di origine asteroidale, quelli più coesi e massicci in grado di originare bolidi di elevata luminosità e con una elevata probabilità avere meteoriti al suolo.

 

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Fig. 2 – Le orbite degli asteroidi near-Earth potenzialmente pericolosi per il nostro pianeta. Il pallino giallo al centro Rappresenta il Sole, mentre l’orbita della Terra è il cerchio bianco. Il cerchio più esterno è l’orbita di Giove (NASA).

 

Fisica dei bolidi

Vediamo che cosa succede quando un meteoroide attraversa l’atmosfera terrestre durante la caduta verso il suolo. La velocità geocentrica di un meteoroide appartenente al Sistema Solare è compresa fra 11,2 km/s (dovuta alla sola gravità terrestre), e 72,8 km/s (42,5 km/s per la velocità di fuga al perielio terrestre più 30,3 km/s per la velocità orbitale della Terra al perielio). Quando un meteoroide penetra nell’atmosfera terrestre con velocità dell’ordine delle decine di km/s, la collisione con le molecole dell’alta atmosfera (termosfera), ne riscalda la superficie. Giunto ad una quota di 80-90 km (mesosfera), la temperatura del meteoroide raggiunge i 2500 K ed inizia la sublimazione degli atomi del corpo celeste. Questo processo di perdita di massa è noto come ablazione. A causa degli urti reciproci gli atomi del meteoroide si ionizzano, cioè perdono uno o più elettroni, e ionizzano anche le molecole atmosferiche. Durante la ricombinazione ioni-elettroni è emessa della radiazione elettromagnetica, e un osservatore al suolo vedrà una scia luminosa in cielo: la meteora. Una meteora si compone di due parti: la testa e la scia. La testa della meteora contiene il meteoroide che si sta consumando più i gas ionizzati, mentre la scia è la regione di ricombinazione dei soli gas ionizzati. Da notare che il 90% della radiazione emessa da una meteora proviene dagli atomi del meteoroide.

 

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Fig. 3 – Terminologia di base. Meteoroide è il corpo che si muove nello spazio interplanetario; la meteora è l’emissione luminosa dovuta alla vaporizzazione del meteoroide nell’alta mesosfera; meteorite è il residuo solido che giunge al suolo. Se il meteoroide è sufficientemente grande può dare origine ad un bolide che può esplodere nella stratosfera. Piccoli asteroidi possono dare luogo ad un evento di classe “Tunguska” oppure “Meteor Crater” se arriva al suolo e scava un piccolo cratere da impatto (disegno di Roberto Baldini, tratto da: Carbognani, Foschini “Meteore”, CUEN, 1999).

 

Se il meteoroide è di discrete dimensioni (> 20 cm di diametro), la testa della meteora può essere molto luminosa. Quando la magnitudine apparente zenitale è inferiore a –8 la meteora è detta bolide (un tempo il termine bolide era usato per indicare le meteore di cui era udibile il rumore). La definizione di bolide non è ancora stata fissata dall’UAI, quindi per alcuni la magnitudine limite è la –4 o la –6. Un bolide con magnitudine inferiore alla –17 è detto superbolide. Per piccoli asteroidi di decine di metri di diametro il bolide può essere più luminoso del Sole visto dalla Terra. Un esempio di evento del genere è il piccolo asteroide di circa 50 metri di diametro esploso ad 8 km di quota sopra la regione del fiume Tunguska il 30 giugno 1908. I testimoni locali parlarono di una “palla di fuoco” molto più luminosa del Sole. Altro esempio, molto più vicino a noi, è stato il bolide di Chelyabinsk del 15 febbraio 2013, causato dalla caduta di un asteroide di 20 m di diametro. La velocità media era di 19 km/s, e l’esplosione dell’asteroide si è verificata a 30 km di quota con un rilascio di energia cinetica pari a 500 kt (circa 30 volte l’energia sprigionata dalla bomba atomica di Hiroshima).

 

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Fig. 4 – Rappresentazione del rientro in atmosfera di un meteoroide. Sono indicate le principali caratteristiche fisiche del fenomeno (disegno di Roberto Baldini, tratto da: Carbognani, Foschini “Meteore”, CUEN, 1999).

 

Spesso i meteoroidi meno coesi, a causa della differenza di pressione atmosferica fra parte avanzante e recedente, si frammentano in più parti, ognuna delle quali diventa a sua volta un bolide indipendente. Un fatto del genere si è verificato per il bolide visto da Peekskill (stato di New York) la sera del 9 ottobre 1992. Il corpo principale si spezzò in 70 frammenti di cui uno solo (del peso di 12 kg) è stato poi ritrovato (colpì un’automobile parcheggiata sfondandone il cofano posteriore). Altro meccanismo per la frammentazione può essere la presenza di cavità nel corpo che, venendo alla luce, ne aumentano in modo repentino la resistenza atmosferica.

Se il meteoroide è sufficientemente grande può sopravvivere all’ablazione. Quando la velocità in atmosfera scende al di sotto dei 3 km/s la perdita di massa e l’emissione di radiazione cessa e il meteoroide entra nella fase di volo buio (o dark flight). Da questo momento inizia un processo di raffreddamento della superficie e la traiettoria del corpo si fa sempre più verticale. La velocità di impatto del meteoroide sulla superficie terrestre va da 10 a 100 m/s per corpi di massa compresa fra 10 g e 10 kg (velocità geocentrica di 15 km/s). Quando quello che resta del meteoroide giunge al suolo si parla di meteorite.

Il meteorite è ciò che rimane dopo la fase di ablazione atmosferica di un meteoroide entrato in collisione con la Terra. La maggior parte dei meteoroidi si disintegrano in aria, e l’impatto vero e proprio con la superficie terrestre è raro, però ogni anno si stima che il numero di meteoriti sulla Terra con dimensioni di una palla da baseball o più si aggiri sulle 500. Di queste ne vengono mediamente recuperate solo 5 o 6, gran parte delle rimanenti cadono negli oceani (che ricoprono circa il 70% della superficie terrestre), o comunque in zone in cui il terreno rende difficile un loro recupero se non si conosce con una certa precisione il luogo di caduta. Le meteoriti sono importanti perché forniscono informazioni sulla composizione e la storia termica degli asteroidi, e forniscono un possibile veicolo per la disseminazione di acqua e di materiali organici nel sistema solare interno, con rilevanti implicazioni per l’astrobiologia.

 

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Fig. 5 – Esempio di meteoroide cavo (1); il meteoroide entra in atmosfera (2); l’ablazione rimuove parte della superficie (3); vengono alla superficie alcune cavità e l’area esposta aumenta creando un “effetto paracadute” (4); il frenamento improvviso determina la trasformazione di energia cinetica in calore (5), con conseguente esplosione del meteoroide (6) (disegno di Roberto Baldini, tratto da: Carbognani, Foschini “Meteore”, CUEN, 1999).

 

La probabilità per un meteoroide di giungere al suolo, oltre che dalle dimensioni, dipende dal materiale di cui è fatto il meteoroide stesso. Un meteoroide di ferro-nichel giungerà più facilmente al suolo di uno di pura roccia. Nell’impatto il meteoroide si conficca nel terreno creando una buca che può essere anche più larga delle dimensioni del corpo che la provoca. Per grandi meteoroidi o piccoli asteroidi la velocità può mantenersi elevata fino al suolo, l’ablazione non cessa, non esiste la fase di volo buio e nella caduta si forma un cratere da impatto. Generalmente il rapporto fra il diametro del cratere e il diametro dell’asteroide che lo genera è circa 20.

È chiaro che l’avvistamento di un bolide molto luminoso, implica l’entrata in atmosfera di un meteoroide di dimensioni tali da poter sperare che sopravviva all’ablazione e giunga fino al suolo. Da qui l’importanza del loro monitoraggio, tanto è vero che anche in Italia è nata la rete PRISMA, promossa dall’INAF-Osservatorio Astrofisico di Torino che ha come scopo primario il monitoraggio dei bolidi per il recupero delle eventuali meteoriti al suolo (http://prisma.oato.inaf.it/). Il progetto si colloca nell’ambito di una Collaborazione Internazionale con l’ Institut de Mécanique Céleste de Calcul des Ephémérides di Parigi e prevede la progressiva collocazione di camere automatiche all-sky in tutta Italia.

 

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Fig. 6 – Una ripresa del bolide diurno di Chelyabinsk del 15 febbraio 2013.

 

L’hardware e il software per la stazione

Dopo questa introduzione teorica ai bolidi veniamo ora alla parte più pratica e divertente, specie per gli studenti e gli astrofili. L’obiettivo è quello di costruire, con una spesa minima, una stazione casalinga in grado di monitorare una buona parte del cielo e di salvare su un HDD filmati e immagini di tutto quello che passa davanti all’obiettivo. L’elenco dell’hardware necessario è abbastanza breve:

  • Scatola a tenuta stagna, come quelle usate per gli elettricisti, di dimensioni minime 240×190×90 mm (10 €)

  • Cupola trasparente da 150 mm di diametro a tenuta stagna usata per le riprese subacquee (12 €)

  • Camera ASI 120 MM (B/N) + obiettivo grandangolare da 2,1 mm di focale (200 €)

  • Mini-PC Minix Z64 con Windows 10, SSD da 32 GB e 2 GB di RAM (150 €)

  • HDD esterno USB da 500 BG (50 €)

Acquistando tutto nuovo con circa 400 € potremo disporre di una stazione per il monitoraggio dei bolidi. Ovviamente si risparmia andando sul mercato dell’usato oppure riciclando hardware già disponibile in casa. La cosa importante è che la scatola di contenimento e la cupola trasparente siano a perfetta tenuta stagna, perché la stazione dovrà stare all’aperto. Sarebbe buona cosa aggiungere anche una serie di piccole resistenze interne alla base della cupola per evitare fenomeni di condensazione dell’umidità notturna.

 

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Fig. 7 – L’hardware necessario per la nostra stazione casalinga. Il alto il contenitore a tenuta stagna con dimensioni 240×190×90 mm, usato normalmente per cavi elettrici all’aperto, con montata la cupola di plastica trasparente da 150 mm di diametro usata, di solito, per le riprese nelle immersioni subacquee. In basso, da sinistra verso destra, l’HDD per lo storage dei filmati, la camera CMOS ASI 120 MM USB 2.0 + obiettivo grandangolare da 2,1 mm di focale e il mini-PC Minix Z64 per la gestione via Wi-Fi della stazione.

 

L’assemblaggio della stazione è abbastanza semplice. Prima di tutto bisogna installare i driver della ASI 120 MM in modo che venga riconosciuta dal mini-PC. Un software di gestione molto semplice da usare per la detectione dei bolidi è HandyAVI (http://www.azcendant.com/), che supporta senza problemi la ASI 120 mm. I file con i filmati e le immagini possono essere salvate direttamente sull’HDD esterno collegato al mini-PC in modo da non intasare la scheda di memoria dove si trova il sistema operativo e il software di gestione. Il coperchio della scatola a tenuta stagna va bucato in modo da inserire perfettamente la parte superiore della ASI 120 MM, con il suo piccolo obiettivo grandangolare in dotazione. Quest’ultimo ha una focale di soli 2,1 mm e abbinato al sensore CMOS della camera (1280×960 pixel da 3,75 µm di lato) è in grado di abbracciare una porzione di cielo di 131°×98°, con una risoluzione di 6 primi d’arco per pixel. A questa scala la Luna piena sottenderà circa 5 pixel. Al bordo del campo di vista le immagini fornite da questo obiettivo sono un po’ deformate, ma stiamo lavorando in economia, quindi può essere tollerato. Naturalmente, niente impedisce di sostituire l’obiettivo standard con un vero fish-eye di qualità migliore.

 

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Fig. 8 – Il prototipo della stazione per il monitoraggio dei bolidi assemblato e pronto all’uso. L’unico filo che esce è il cavo elettrico di alimentazione del mini-PC. L’antenna Wi-Fi può essere riposta all’interno senza che questo interferisca con le comunicazioni.

 

Sopra al foro da cui spunta l’obiettivo della ASI va avvitata la cupola trasparente di qualità ottica. La cupola usata nel nostro prototipo di stazione è solitamente usata per le immersioni subacquee e quindi dotata di una guarnizione per impedire l’ingresso dell’acqua, una caratteristica che si è rivelata molto utile per impedire l’ingresso dell’umidità notturna. Il mini-PC, l’HDD e la ASI vanno inseriti all’interno del contenitore. Fatti i collegamenti USB ASI-(mini-PC)-HDD, alla fine l’unico filo che deve uscire dal contenitore stagno è quello per l’alimentazione del mini-PC. Ovviamente il foro di uscita deve essere anch’esso a tenuta stagna e il tasto di accensione del mini-PC deve essere raggiungibile dall’esterno (almeno per la prima volta, poi può essere lasciato sempre acceso).

Nel prototipo costruito, all’avvio del mini-PC si apre direttamente il desktop dell’utente e parte uno script con estensione .bat collocato nella cartella “Programmi/Esecuzione Automatica” che crea una rete Wi-Fi ad hoc eseguendo i comandi:

netsh wlan set hostednetwork mode=allow ssid=nome key=xxxxxxxxxxxxxxx

netsh wlan start hostednetwork

Affinché questi comandi abbiano effetto bisogna concedere i privilegi di “amministratore” al prompt dei comandi di Windows. La creazione di questa rete Wi-Fi ad hoc è l’equivalente della connessione fra due PC mediante cavo di rete incrociato.

A questo punto, una volta che la stazione è accesa e il mini-PC ha creato la rete ad hoc, usando un normale PC ci si può collegare in remoto al mini-PC tramite “Desktop Remoto” e accedere alle sue funzioni. Se la versione di Windows del mini-PC non prevede la funzione di desktop remoto (come la edizione “Home”), ne andrà installata una di terze parti come la “RDP Wrapper Library”. Usando desktop remoto in Wi-Fi non è più necessario che il PC con cui interagiamo con la stazione sia collegato fisicamente a quest’ultima: noi con lui ce ne possiamo stare tranquillamente in casa al caldo, mentre la stazione sarà all’aperto, a monitorare il cielo. Peraltro lo stesso mini-PC può essere utilizzato anche per il controllo da remoto di un setup tipo telescopio GoTo + camera CCD.

Per lo spegnimento della stazione basterà premere il tasto “win+R”, digitare “shutdown -s -t 10” e dare invio. Il mini-PC si spegnerà automaticamente dopo 10 s. In questo modo si ha tutto il tempo per chiudere la sessione di desktop remoto. Se si agisce semplicemente sul pulsante “spegni” di Windows sul mini-PC si chiude la sessione di desktop remoto, ma il mini-PC resta acceso e il monitoraggio della stazione può continuare.

 

Meteor Trail Detect e Capture con HandyAVI

Come si sarà capito, mentre il “cuore” hardware della stazione di monitoraggio è la ASI 120 MM, una camera CMOS B/N molto sensibile e a basso rumore, quello software è AndyAVI. Vediamo più in dettaglio le caratteristiche principali di questo software che ha una apposita funzione proprio per la detection delle meteore.

Il modo operativo più semplice per il monitoraggio di meteore e bolidi sarebbe riprendere continuamente dal tramonto all’alba. Tuttavia con questa modalità 8 ore di video in B/N a 5 frame al secondo da 1280×960 pixel a 12 bit per pixel occuperebbero ben 265 GB! HandyAVI ha un algoritmo di motion detection che gli permette di registrare solo i frame in cui cambia qualcosa rispetto a quelli precedenti, in modo tale da risparmiare spazio su disco e facilitare le operazioni di recupero dei dati. Questo software può salvare anche fino a 250 frame prima e dopo l’evento luminoso che ha fatto scattare la motion detection, in modo tale che può registrare anche le parti più deboli della scia meteorica. L’algoritmo di motion detection è in grado di eliminare falsi allarmi dovuti a pixel caldi, raggi cosmici scintillazione stellare ecc. Ovviamente non è in grado di distinguere fra un aereo, la stazione spaziale, un Iridium flare o una autentica meteora. HandyAVI ogni volta che fa la detection di qualcosa che si muove in cielo salva i dati in un avi diverso e crea un file jpg con sovrapposti tutti i frame della detection in modo tale che, nel caso ideale, per ogni meteora c’è la corrispondente immagine della scia.

 

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Fig. 9 – La schermata per la “Meteor Trail Detect e Capture” di AndyAVI. In basso a destra si vede la scheda per la selezione del gamma, del guadagno e del tempo di esposizione della ASI. Per il manuale d’uso di HandyAVI 4.3 vedi: http://www.handyavi.com/HelpDoc/HandyAvi.pdf.

 

Cosa si può ottenere?

Con questa stazione gli eventi che si possono documentare variano a seconda del tempo di esposizione. Chiaramente si potranno osservare non solo meteore e bolidi ma anche eventi terrestri, come i passaggi degli aerei, della ISS (la Stazione Spaziale Internazionale), e dei satelliti artificiali.

Con soli 10 s di posa sono osservabili tutte le stelle visibili ad occhio nudo, ma meteore e bolidi appariranno come delle scie luminose in cielo perché hanno una durata inferiore. Diminuendo il tempo di posa, fino a 1/5-1/10 s, il numero di stelle visibili diminuisce in proporzione ma è possibile documentare la dinamica dei fenomeni luminosi. Naturalmente la stazione è autonoma, quindi si può andare a dormire ed esaminare con calma il giorno dopo quello che è stato “catturato”.

Nel caso dei bolidi una prima serie di informazioni quantitative che si possono ottenere sono la data, l’ora e la durata del fenomeno (ogni frame catturato da HandyAVI può riportare data e ora). Usando opportune immagini di calibrazione fatte sullo stesso campo stellare e nelle stesse condizioni di visibilità del fireball, ma con tempi di posa un po’ più lunghi in modo da avere un buon numero di stelle di confronto, si può ottenere la curva di luce della “testa” del fireball. Infine, per avere informazioni sulla traiettoria seguita sulla sfera celeste bisogna calibrare astrometricamente le immagini, cosa non semplice se le stelle di campo sono poche. Tutto questo però ricade nell’analisi quantitativa dei dati. Tutto sommato, una stazione casalinga come quella proposta fornisce informazioni qualitative in modo semplice ed immediato, non fosse solo per il monitoraggio della copertura nuvolosa. Nelle immagini che seguono sono mostrati alcuni esempi delle capacità di monitoraggio della stazione. Buon divertimento!

 

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Fig. 10 – Immagine di una meteora (in basso al centro sotto Polaris), ripresa il 4 ottobre 2016 alle 19:18:42 UT con HandyAVI ed esposizione di 10 s. Per una maggiore facilità di orientamento sono riportati i nomi delle stelle principali, si nota anche la fascia della Via Lattea estiva.

 

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Fig. 11 – Il passaggio della ISS del 15 ottobre 2016 alle 18:17 UT dalla Valle d’Aosta ripreso con HandyAVI. La sorgente luminosa in basso a sinistra è la Luna piena la cui luce è stata diffusa da un leggero velo di umidità notturna depositatosi sulla cupola. Questa immagine è stata ottenuta sommando alcune decine di immagini con tempo di esposizione di 1 s.

 

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Fig. 12 – Un simil-Iridium flare ripreso il 27 ottobre 2016 alle 18 UT con HandyAVI. Somma di immagini con pose singole da 5 s. La durata totale dell’evento è stata di 70 s. La debole striscia che attraversa da sinistra a destra è un aereo.

 

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Fig. 13 – Tracce di aerei riprese il 27 ottobre 2016 con HandyAVI. Somma di pose singole da 5 s ciascuna.

Albino Carbognani: piccoli punti di luce che si muovono in cielo

Quando si parla di nomi come questo, ogni presentazione risulta superflua; tuttavia non posso fare a meno di spendere alcune brevi parole su Albino Carbognani, che oltre ad essere uno dei grandi nomi dell’astronomia nel nostro paese, e un amico di vecchia data, si rivela essere persona sempre capace di sorprendere. Uno di quelli che riesce a mostrarti, a farti capire davvero, che chi nasce astrofilo, astrofilo rimane. Per tutta la vita! Al di là dei successi conseguiti nel mondo scientifico; al di là della ricerca professionale; al di là persino degli strumenti pazzeschi coi quali puoi operare ogni santo giorno, fino a renderli routine.

L’astrofilia, ci insegna Albino, è qualcosa in più, qualcosa che va oltre la semplice osservazione amatoriale del cielo.

L’astrofilia è contemplazione, l’astrofilia è stupore, l’astrofilia è passione; grande, che non si spegne mai. È quella strana forma di sana follia che ti fa svegliare nel cuore della notte, anche se qualcuno all’altro capo del letto ti invita a restare; anche se fuori c’è un mondo assonnato, avvolto dal gelo. Ti fa alzare, preparare, impegnare e faticare per ore, se serve, al solo scopo di poter osservare ancora una volta quel piccolo puntino luminoso lassù… È quell’istinto che ti spinge a fare e impegnarti ancora, con il cuore, con l’anima, con il poco tempo libero che hai, con i conti che non tornano mai, anche quando già in tanti, prima di te, si sono cimentati con quel CCD su quella galassia.

È un desiderio, una fame, che non passa mai; neanche quando sai, come il nostro Albino, che lo strumento che stai per usare, il TUO telescopio, l’estrinsecazione materiale di ciò che fa di te un astrofilo, all’osservatorio non farebbe nemmeno la funzione di guida.

Ecco, questo è il modo in cui voglio introdurre oggi lo splendido articolo di Albino, che pubblico qui sotto: un grande lavoro, di un grande amico, ma soprattutto di un grande astrofilo!

 

LUCA ZANCHETTA – TELESKOP SERVICE ITALIA

 

 


 

Piccoli punti di luce che si muovono in cielo

Come e perché fare la fotometria degli asteroidi

 

Albino Carbognani, Ph.D.

Spesso e volentieri gli astrofili che usano telescopio, montatura computerizzata e camera CCD hanno come obiettivo principale l’astrofotografia di oggetti deep-sky, cioè la ripresa di nebulose, ammassi stellari e galassie, principalmente per fini estetici con la rincorsa al dettaglio più tenue. Si tratta di una attività che può dare molte soddisfazioni, i sottili disegni delle nebulose e le delicate trame delle galassie hanno il loro indubbio fascino. Peraltro l’astrofotografa richiede un notevole investimento in attrezzatura piuttosto sofisticata, senza contare il tempo che richiede per ottenere buoni risultati.

Considerato l’investimento sulla strumentazione può essere interessante chiedersi come si possa svolgere anche una attività interessante dal punto di vista scientifico: l’imaging deep-sky non esaurisce sicuramente tutte le possibilità di utilizzo. Certo, quando si fa scienza si devono compiere delle misure e questo può complicare la strada da percorrere per ottenere dei risultati, ma la soddisfazione alla fine sarà veramente notevole. Sotto questo punto di vista gli asteroidi offrono diverse possibilità entusiasmanti!

 

L’astrometria dei NEA

La prima attività scientifica cui si può pensare quando si tratta di corpi minori è la caratterizzazione orbitale degli asteroidi near-Earth (NEA). Si tratta degli asteroidi che con la loro orbita possono passare a meno di 0,3 UA dalla Terra. Sulla scala dei milioni di anni le orbite dei NEA sono talmente instabili (cioè caotiche) che rappresentano un potenziale rischio impatto per il nostro pianeta. Complessivamente ne sono noti più di 15.600 e negli ultimi anni la media delle nuove scoperte è di circa 1000 ogni anno. Grosso modo è noto il 95% dei NEA con diametro pari o superiore al km, poco meno di 1000 oggetti. L’obiettivo ora è la scoperta e caratterizzazione della maggior parte degli oggetti con diametro superiore ai 140 m, attività che richiederà ancora parecchi anni per essere portata a termine perché più si scende con il diametro e maggiore è il numero degli oggetti. Il valore minimo di 140 m per il diametro può sembrare piccolo, in realtà non lo è affatto se si considera che la celebre Catastrofe di Tunguska del 30 giugno 1908 è stata provocata dalla caduta di un piccolo asteroide di soli 50 metri di diametro! In effetti il danno che un asteroide è in grado di provocare è sì proporzionale alla massa ma anche al quadrato della velocità di caduta. Essendo quest’ultima dell’ordine di svariate decine di km/s ecco che anche un piccolo oggetto può causare un danno rilevante.

Un tipico NEA è quindi un oggetto “piccolo” e anche molto scuro perché la superficie assorbe gran parte della luce solare. Per questo motivo un NEA può essere scoperto solo quando è già in prossimità della Terra e approssimativamente nella direzione opposta al Sole. A questo scopo è necessario impiegare grandi telescopi con ampi campi di vista, in grado di scansionare l’intera sfera celeste nel più breve tempo possibile e ripetere il processo in continuazione. Chiaramente attrezzature di questo tipo sono oltre le possibilità di un astrofilo. In effetti le survey che si occupano della scoperta dei NEA sono tutte statunitensi, fra quelle di maggior successo ci sono la Catalina Sky-Survey in Arizona, che utilizza due telescopi da 68 e 150cm di apertura, e Pan-STARSS nelle Hawaii con due telescopi da 180 cm di diametro.

Il contributo degli astrofili diventa importante nella fase successiva alla discovery, quando gli oggetti appena scoperti vengono inseriti nella NEO Confirmation Page (NEOCP) del Minor Planet Center per la conferma e la determinazione preliminare dell’orbita. Peraltro contribuire alla caratterizzazione astrometrica di un NEA, oltre al valore scientifico del lavoro, ha il suo indubbio fascino!

Purtroppo però, negli ultimi anni si è assistito ad un progressivo aumento della magnitudine dei NEA da confermare, come è logico aspettarsi visto che tutti gli asteroidi “grossi” oramai sono noti. Di conseguenza, mentre nel 2005 anche con un piccolo telescopio da 25-30 cm di diametro c’era solo l’imbarazzo della scelta perché gli oggetti avevano una magnitudine apparente attorno alla +18, ora si veleggia attorno alla +20 con tendenza a salire. Chiaramente se il diametro del telescopio è troppo piccolo, diventa difficile ottenere delle immagini misurabili per dare il proprio contributo.

Tuttavia la determinazione dell’orbita non esaurisce tutto quello che si può fare su un NEA o, meglio, su un asteroide di Fascia Principale (MBA). Infatti, una volta nota l’orbita, dell’asteroide in sé non conosciamo ancora niente. Per questo il passo successivo all’astrometria è la fotometria, che permette di studiare fisicamente l’asteroide: in primo luogo di determinare il periodo di rotazione. La buona notizia è che si tratta di un campo di ricerca dove anche con un piccolo telescopio si può dare il proprio contributo e che si possono fare delle scoperte del tutto inattese!

Attualmente, nel database del Minor Planet Center ci sono circa 474.000 asteroidi numerati, di cui appena 20.200 (circa il 4,3 %), hanno un nome. Dai dati presenti nell’Asteroid Lightcurve Database, uno dei punti di riferimento per chi si occupa di fotometria degli asteroidi, gli oggetti numerati di cui è noto il periodo di rotazione sono circa 16.000, pochissimi rispetto al totale dei numerati: solo il 3,4%. Considerate le magnitudini in ballo per un tipico MBA (da +14 alla +16), si tratta di un settore dove si può dare il proprio contributo originale anche con telescopi di piccolo diametro (20-30 cm). La caratterizzazione fisica degli asteroidi è un campo di ricerca con ampie possibilità di sviluppo, anche per i prossimi anni, e poi fare la fotometria degli asteroidi permette di caratterizzare fisicamente questi antichi testimoni dell’evoluzione del Sistema Solare.

 

La strumentazione per la fotometria

Vediamo qualche indicazione strumentale sul “setup ideale” da utilizzare per la fotometria degli asteroidi. Prima di tutto il telescopio deve avere almeno 20 cm di diametro e deve essere accessoriato con una buona camera CCD a 16 bit, cioè con circa 216 = 65.536 livelli di intensità possibili. La camera deve essere almeno raffreddata con una cella Peltier avente un delta T di 30-40 °C rispetto alla temperatura ambiente e deve essere del tipo non-ABG, cioè senza antiblooming. L’antiblooming, utile per l’estetica delle foto deep-sky, non deve essere presente perché con quest’ultimo si perde in sensibilità, risoluzione e risposta lineare tutte caratteristiche importanti quando si fa ricerca scientifica. Il sensore deve essere del tipo in bianco/nero per massimizzare l’efficienza quantica e la camera può essere dotata di una ruota portafiltri con filtri standard B, V, R e I di Johnson-Cousins. La scala dell’immagine CCD può oscillare da 1 a 2 secondi d’arco per pixel, dipende dalle condizioni di seeing locali, in modo tale che il diametro stellare sia descritto da almeno 2-3 pixel. In ogni caso, per questo tipo di lavoro non sono necessarie le lunghe focali tipiche delle riprese planetarie in alta risoluzione, o i lunghissimi tempi di posa caratteristici della fotografia deep-sky.

Per avere misure fotometriche attendibili è necessario che l’immagine dell’asteroide non sia in saturazione ed è obbligatorio fare i file di calibrazione standard da applicare alle immagini, riprese ovviamente nel formato FITS (Flexible Image Transport System) standard. Da evitare nel modo più assoluto formati compressi come il jpg perché si perde l’informazione fotometrica. I file di calibrazione necessari sono il master dark, ottenuto dalla mediana di alcune decine di dark frame presi alla stessa temperatura e identico tempo di esposizione delle immagini e il master flat, ottenuto dalla media di almeno alcune decine di flat frame singoli, ovviamente ciascuno corretto con il proprio master dark.

La presenza di un telescopio di guida e di una camera di autoguida con porta ST4 da collegare alla montatura può non essere necessaria se la montatura equatoriale è sufficientemente stabile e robusta, visto che i tempi di posa tipici sono al più di alcuni minuti. La montatura equatoriale deve essere preferibilmente del tipo a forcella per evitare i problemi fotometrici che può dare il meridian flip, l’inversione degli assi che avviene attorno al passaggio in meridiano e che, di solito, affligge le equatoriali alla tedesca. Per compensare il meridian flip si può ritardare il più a lungo possibile l’inversione della montatura in questo modo si possono ottenere curve di luce più continue, cioè senza “gradini”. Caldamente consigliata infine la presenza del computer per il puntamento automatico, per non perdere tempo prezioso nella fase di ricerca degli asteroidi in cielo.

Per quanto riguarda la scelta dei target interessanti, NEA o MBA, si possono consultare le ultime pagine del Minor Planet Bulletin (vedi http://www.minorplanet.info/mpbdownloads.html), la rivista scientifica internazionale liberamente disponibile in pdf e punto di riferimento per professionisti e non per quanto riguarda la fotometria degli asteroidi.

 

La fotometria d’apertura

In astrofisica con il generico termine fotometria si indica lo studio della radiazione ottica emessa da un corpo celeste, avente una lunghezza d’onda fra 400 e 700 nm (1 nm = 10-9 m). Si parla invece di radiometria quando si considera anche la radiazione emessa al di fuori dell’intervallo del visibile.

In una tipica immagine con una posa superiore alla decina di secondi, le sorgenti puntiformi (stelle, asteroidi ecc.), vengono convolute dagli effetti della turbolenza atmosferica, dall’ottica del telescopio, dalle vibrazioni del tubo ottico e così via. Il risultato è che la distribuzione della luce sul sensore può essere descritta da una superficie gaussiana. Di solito la fotometria che viene fatta sulle immagini CCD, dopo la correzione per master dark e master flat, è la fotometria d’apertura. Con questa tecnica si sovrappone al target un anulus di misura con un diametro pari a 3 volte la full width at half maximum (FWHM), cioè la larghezza a mezza altezza del tipico profilo gaussiano che ha la sorgente puntiforme. Prendere 3 volte la FWHM di una sorgente puntiforme equivale a prendere un anello con un diametro pari a circa 7,1 volte il valore di sigma della gaussiana (vale la relazione 1 FWHM 2,355), quindi con 3 FWHM si è sicuri di includere praticamente tutto il segnale proveniente dalla sorgente puntiforme e raccolto dai pixel del CCD.

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Figura 1. Gli anulus di misura di una sessione di fotometria d’apertura riguardante l’asteroide near-Earth 2002 WP. I cerchi gialli sono per il target, il verde è per la prima stella di confronto, i cerchi rossi sono per le altre quattro stelle di confronto.

Il CCD è un dispositivo a risposta lineare quindi l’intensità I di una stella (in unità arbitrarie), ottenuta sommando l’intensità di tutti i pixel che compongono l’immagine della stella (o dell’asteroide), all’interno dell’anello di misura sarà direttamente proporzionale al flusso luminoso ricevuto. All’intensità I del target va però tolto il valore del segnale proveniente dal fondo cielo e non dalla sorgente che ci interessa. Il valore della intensità del fondo cielo si ottiene leggendo il valore di intensità dei pixel posti in un anello più esterno ma concentrico a quello di misura della sorgente, possibilmente senza stelle di fondo (vedi Fig. 1). Se indichiamo con B il valore del fondo cielo (che si ottiene dal valore medio del pixel del fondo moltiplicato per il numero di pixel misurati del target), il segnale del solo target sarà dato da:

1  (1)

Noto il segnale S della sorgente, si può calcolare quella che è nota come magnitudine strumentale:

2  (2)

Qui t è il tempo di posa dell’immagine e S/t è una quantità proporzionale al flusso della sorgente. In questo modo si possono confrontare le magnitudini strumentali dello stesso target ma riprese con tempi di posa diversi.

Una volta misurata la magnitudine strumentale del target e delle stelle di confronto si può ottenere la variazione di magnitudine del target in funzione del tempo usando la tecnica della fotometria differenziale. La fotometria differenziale consiste essenzialmente nel misurare la differenza di magnitudine strumentale fra il target e la media delle magnitudini strumentali di due o più stelle di confronto scelte nello stesso campo di vista. Rispetto alla fotometria calibrata quella differenziale non richiede particolari condizioni di trasparenza costante del cielo e fornisce una buona accuratezza quando si tratta di misurare piccole variazioni di luminosità (inferiori al decimo di magnitudine), perché sia la luce del target sia delle stelle di confronto attraversano la stessa air-mass e, se hanno colore simile, subiscono anche gli stessi effetti di estinzione atmosferica.

In effetti, volendo essere pignoli, la differenza delle magnitudini strumentali differisce di una quantità proporzionale alla differenza degli indici di colore CI dalla differenza delle magnitudini apparenti vere secondo l’equazione:

3  (3)

Tuttavia, nel caso degli asteroidi che riflettono la luce del Sole gli indici di colore sono grossomodo simili a quelli della nostra stella (B-V = 0,66 e V-R = 0,53), e se anche si osserva senza filtri ma si usano come stelle di confronto quelle di tipo solare, allora le differenze delle magnitudini strumentali saranno praticamente uguali alle differenze delle magnitudini apparenti perché il secondo termine della Eq. (3) si annulla o è molto piccolo.

Ovviamente, visto che gli asteroidi si spostano in cielo sia per effetto del moto orbitale attorno al Sole sia per effetto del moto eliocentrico della Terra, il set di stelle di confronto utilizzabile per la fotometria differenziale cambia da una sera all’altra (o da un’ora all’altra nel caso di NEA veloci), e una delle prime difficoltà da superare sarà il “raccordo” fra le curve di luce appartenenti a sessioni diverse, specialmente se il periodo di rotazione è molto lungo. Il problema del raccordo delle sessioni è evidente nel caso della semplice fotometria differenziale, mentre si riduce notevolmente con la fotometria assoluta, calibrata usando come riferimento fotometrico le stelle di confronto del campo di vista. Non entreremo nel dettaglio della fotometria calibrata, ma i cataloghi stellari utilizzabili, entro alcuni centesimi di magnitudine e per target fino alla mag +15, come riferimento per le magnitudini sono l’UCAC4 (USNO CCD Astrograph Catalog), il CMC15 (Carlsberg Meridian Catalogue) e l’ultima release dell’APASS (AAVSO Photometric All-Sky Survey).

La selezione dell’asteroide da osservare avviene in base agli obiettivi che ci si propone di raggiungere, alla magnitudine apparente, alla velocità angolare, al range di air-mass e al numero di ore che un asteroide può essere osservato (in generale più sono e meglio è). Anche in condizioni di bassa turbolenza atmosferica, il target deve essere ad almeno 25° di altezza sull’orizzonte (air-mass = 2,4), in modo da minimizzare gli effetti deleteri del cattivo seeing e dell’assorbimento atmosferico che abbassano il rapporto segnale/rumore.

Gli asteroidi si spostano sulla sfera celeste, non sono target statici specialmente i near-Earth, di conseguenza il tempo di esposizione è determinato in base alla necessità di avere una immagine del target relativamente puntiforme sull’immagine, anche se in campo fotometrico una certa elongazione è ben tollerata dai software di misura. Un tempo di esposizione ragionevole (in minuti) sarà dato dalla FWHM (in secondi d’arco) diviso per la velocità angolare del target (secondi d’arco/minuto). In questo modo si raddoppiano le dimensioni della FWHM nella direzione del moto dell’asteroide, una elongazione ancora facilmente misurabile. Le esposizioni tipiche sono di 30-240 s per i MBA, la cui velocità angolare tipica è di 0,5 arcsec/minuto, e di 5-120 s per i NEA con velocità tipiche di 5-10 arcsec/minuto.

Fissato il tempo di esposizione bisogna verificare su immagini di prova che il valore del rapporto segnale/rumore (o SNR, Signal to Noise Ratio), sia adeguato alla incertezza fotometrica che si vuole raggiungere. Questo è un punto importante, spesso sottovalutato: non basta che l’asteroide sia genericamente visibile sull’immagine per avere automaticamente una buona fotometria. Facendo qualche stima si trova che per avere una precisione fotometrica con una incertezza di 0,02 mag è necessario avere SNR 50. Un valore eccellente è SNR 100, perché l’incertezza scende a 0,01 mag mentre un valore ancora accettabile, specialmente per asteroidi con una discreta ampiezza della curva di luce, è SNR 25 a cui corrisponde una incertezza di circa 0,04 mag. Di solito il SNR viene stimato direttamente dal software fotometrico quindi non è necessario avventurarsi in calcoli complessi.

Uno dei software di riferimento per la fotometria degli asteroidi, sia differenziale sia calibrata, è MPO Canopus (http://www.minorplanetobserver.com/MPOSoftware/MPOCanopus.htm) di Brian Warner. Per la verità con Canopus è possibile anche la fotometria delle stelle variabili anche se non è il suo utilizzo principale. Questo programma richiede un certo periodo per l’apprendimento del corretto utilizzo, fase che non va saltata pena il rischio di ottenere risultati fotometrici errati o poco attendibili. Caldamente consigliata anche la lettura del libro “A Practical Guide to Lightcurve Photometry and Analysis”, scritto dallo stesso Warner ed edito dalla Springer, in cui vengono illustrati in dettaglio i principi della fotometria asteroidale. Sono diversi i settori dove la fotometria degli asteroidi può dare un contributo, fra questi vedremo in dettaglio:

  1. La determinazione del periodo di rotazione

  2. La spin-barrier e la “caccia” ai large super-fast rotator

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Figura 2. Una tipica sessione di MPO Canopus dopo l’analisi di Fourier, con la curva di luce dell’asteroide in fase e il corrispondente spettro dei periodi.

 

Determinazione del periodo di rotazione di un asteroide

Una tipica sessione di fotometria differenziale per la determinazione del periodo di rotazione di un asteroide vede la ripresa di immagini in modalità “fitta”, cioè una dietro l’altra, per una durata di diverse ore. Nel caso di asteroidi con periodo di rotazione completamente sconosciuto l’osservazione fotometrica deve essere fatta su almeno 2-3 notti consecutive prima di sperare di avere una buona misura (a meno che l’asteroide non sia un rotatore lento!). Generalmente, i periodi sono di 6-8 ore quindi almeno due-tre sessioni lunghe sono il minimo per avere una buona probabilità di successo. A questa segue la fase di riduzione dei dati: scelta delle stelle di confronto nel campo di vista, misura della magnitudine strumentale del target e delle confronto, calcolo della media delle magnitudini strumentali delle stelle di confronto da sottrarre al target e, infine, plot della magnitudine differenziale in funzione del tempo. Può capitare che una delle stelle scelta per il confronto non sia costante, in questo caso ci potrebbe scappare anche la scoperta di una nuova stella variabile. Per togliersi il dubbio è bene consultare il catalogo VSX, il Variable Star indeX, dell’AAVSO.

Da una o più sessioni della durata di alcune ore si otterrà la tipica curva di luce in fase di forma genericamente bimodale, cioè con due massimi e due minimi, come ci si aspetta da un generico corpo irregolare di forma allungata in rotazione attorno al proprio asse (Fig. 3). Ovviamente non sempre è così, ci possono essere curve trimodali o più complesse. In generale, vale la regola statistica che maggiore è l’ampiezza della curva di luce e più è probabile che la curva sia bimodale.

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Figura 3. La curva di luce di un asteroide in rotazione attorno al proprio asse è una funzione periodica di periodo P e la forma più probabile è quella bimodale, cioè con due massimi e due minimi a seconda della superficie, più o meno estesa, illuminata dal Sole e rivolta verso la Terra. L’ampiezza della curva di luce si misura dal massimo al minimo assoluto.

Per la determinazione del periodo di rotazione degli asteroidi si usa l’analisi di Fourier. In MPO Canopus i dati fotometrici con le magnitudini ridotte di ogni sessione vengono fittate con una serie di Fourier di grado m finito a scelta. La stima del miglior periodo P che fitta tutti i dati è quello che fornisce il minore scarto fra la curva di Fourier teorica e i valori osservati della magnitudine (spettro dei periodi). Attenzione però: minimizzare lo scarto non garantisce l’unicità della soluzione per il periodo P, specie se la curva di luce è simmetrica, cioè massimi e minimi sono uguali fra loro o i dati non coprono una intera rotazione dell’asteroide! E ora vediamo perché può essere interessante determinare il periodo di rotazione di un asteroide.

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Figura 4. La curva di luce in fase, il fit di Fourier al 4° ordine e lo spettro dei periodi per l’asteroide di fascia principale 3433 Fehrenbach. L’ampiezza del curva di luce è abbastanza elevata e l’incertezza sui singoli punti è di circa 0,02 magnitudini. Lo spettro dei periodi mostra un minimo principale attorno alle 4 ore (soluzione bimodale) ed un minimo secondario attorno alle 2 ore (soluzione monomodale).

 

La cohesionless spin-barrier e gli asteroidi Large Super-Fast Rotator

Gli asteroidi sono corpi celesti soggetti ad interazione collisionale e la popolazione che vediamo oggi nella Fascia Principale (o main-belt), la zona di spazio compresa fra le orbite di Marte e Giove, è il risultato di miliardi di anni di evoluzione con gli asteroidi che si sono ripetutamente scontrati fra di loro. Questo ha portato alla distruzione parziale dei corpi maggiori, che sono in grado di resistere meglio alle collisioni, e alla distruzione parziale o totale dei corpi più piccoli. La scoperta delle famiglie di asteroidi fatta dall’astronomo giapponese Hirayama nel 1918 supporta questo quadro evolutivo.

L’analisi dei periodi di rotazione dei MBA e dei NEA che da essa derivano, mostra un comportamento che, a prima vista, non ci si aspetterebbe. Se si riporta su un grafico il periodo di rotazione di ciascun asteroide in funzione del diametro si scopre un comportamento affascinante: al di sopra di circa 150-200 metri di diametro i periodi di rotazione sono pari o superiori a circa 2,2 ore, mentre per i corpi più piccoli si possono avere valori anche di molto inferiori (Fig. 6).

Il valore limite di circa 2,2 ore è noto come “cohesionless spin-barrier”, cioè barriera rotazionale senza coesione. Per spiegare la presenza di questa “soglia di sbarramento” si ipotizza che gli asteroidi più piccoli di circa 150-200 m di diametro siano blocchi monolitici, le “schegge” createsi nella collisione di asteroidi con diametro maggiore, mentre i corpi più grandi sarebbero oggetti fratturati dalle collisioni e composti di blocchi più piccoli, non coesi fra di loro, ma tenuti semplicemente insieme dalla reciproca forza di gravità (struttura a “rubble-pile” senza coesione). Un notevole esempio di asteroide rubble-pile è il NEA (25143) Itokawa, esplorato nel 2005 dalla sonda giapponese Hayabusa (Fig. 5).

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Figura 5. L’asteroide (25143) Itokawa ripreso dalla sonda giapponese Haybusa nel 2005. Itokawa è lungo circa 500 m e non presenta crateri da impatto sulla superficie, segno che si tratta di un aggregato di rocce e polveri risultato di una collisione catastrofica che ha smembrato l’asteroide progenitore (ISAS, JAXA).

Che le cose stiano così è dimostrato dal fatto che, se si calcola teoricamente il periodo limite di un asteroide sferico con una struttura a rubble-pile e una densità media di 2,2 g/cm3, si trova proprio un periodo limite di circa 2,2 ore. Per ottenere la formula che ci serve basta osservare che il periodo limite teorico per un asteroide rubble pile senza coesione (che chiameremo Plim), si trova imponendo che l’accelerazione superficiale dovuta alla rotazione dell’asteroide di raggio R e massa totale M sia pari a quella di gravità dell’asteroide stesso (condizione di moto circolare). In questo modo si impone la condizione che i blocchi superficiali di cui è fatto l’asteroide rubble-pile seguano un’orbita circolare con raggio pari a quello del corpo stesso. Per il periodo limite si trova:

4  (4)

Nella Eq. (4) G è la costante di gravitazione universale e vale G = 6,674x10-11 m3 kg-1 s-2, mentre ρ è la densità media dell’asteroide. Si può verificare che per ρ = 2200 kg/m3 (equivalenti a 2,2 g/cm3), si ottiene un periodo limite di circa 2,2 ore. Se il periodo di rotazione diminuisce al di sotto di Plim, l’equilibrio si rompe e l’asteroide si separa nei blocchi distinti di cui è composto. Notare come questo risultato sia indipendente dal diametro stesso dell’asteroide: che sia grande o piccolo un asteroide rubble-pile che ruota troppo veloce si sfascia comunque! Secondo questo modello un asteroide rubble-pile che si trova con un periodo di rotazione al di sotto di quello della spin-barrier si frammenterà dando vita, ad esempio, ad un sistema binario. In effetti uno dei meccanismi più noti per la formazione degli asteroidi binari vede la fissione rotazionale di asteroidi rubble-pile che, a causa dell’effetto YORP, sono scesi con il periodo di rotazione al di sotto del valore della spin-barrier. Questo meccanismo spiega abbastanza bene le caratteristiche rotazionali dei primari fra le coppie di asteroidi, oggetti che hanno orbita eliocentrica simile ma che non sono legati gravitazionalmente.

Abbiamo detto che gli asteroidi con diametri più piccoli di 150-200 metri sono invece considerati veri e propri blocchi monolitici, cioè frammenti collisionali, in grado di ruotare più velocemente del valore limite dato dalla spin-barrier a causa delle intense forze di coesione interne che tengono unito il corpo. Tuttavia ci sono delle eccezioni a questa “regola”, cioè esistono alcuni asteroidi con un diametro superiore ai 200 m (quindi rubble-pile secondo il modello precedente), che però hanno un periodo di rotazione al di sotto della spin-barrier.

Il primo oggetto scoperto a violare palesemente la cohesionless spin-barrier è stato l’asteroide 2001 OE84 nel 2002. Si tratta di un asteroide near-Earth che ruota in 0,4865 ore con un diametro di circa 700 metri. Altro notevole oggetto è l’asteroide main-belt (335433) 2005 UW163 che ha un periodo di rotazione di 1,290 ore e una dimensione di 600 metri, scoperto nel 2014. Uno degli ultimi asteroidi scoperti di questo tipo è il near-Earth 2011 UW158, che ha un periodo di rotazione di 0,6107 ore e una dimensione di 300×600 metri determinata tramite osservazioni radar. Ad ora però nessun asteroide con un diametro maggiore di 1 km ruota più rapidamente di 2,2 ore.

Gli asteroidi che violano la spin-barrier sono chiamati Large Super-Fast Rotator (LSFR). La loro esistenza è stata teorizzata per la prima volta da Holsapple nel 2007 e la teoria è stata successivamente arricchita e perfezionata da Sánchez e Scheeres nel 2014. Questi ultimi autori hanno esplorato la possibilità che, grazie alle forze di van der Waals che si esercitano fra i grani di regolite interstiziali, un asteroide con una struttura a rubble-pile possa avere una forza coesiva diversa da zero. In questo teoria i grani di regolite agirebbero come una specie di “colla” in grado di tenere coesi i blocchi di maggiori dimensioni.

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Figura 6. La frequenza di rotazione degli asteroidi (espressa in rotazioni al giorno), in funzione del diametro in km. La linea tratteggiata orizzontale è la spin-barrier, che equivale a circa 10 rotazioni/giorno. I triangoli rossi sono i sistemi binari, mentre quello verdi sono gli asteroidi con precessione dello spin (tumbler). Per spiegare l’andamento del periodo vs. diametro per gli asteroidi si ipotizza che gli oggetti più piccoli di circa 150-200 m di diametro siano blocchi monolitici, mentre i corpi più grandi sarebbero oggetti fratturati dalle collisioni composti di blocchi più piccoli, non coesi fra di loro, tenuti insieme dalla reciproca forza di gravità (struttura a “rubble-pile” senza coesione). Immagine tratta dall’Asteroid Lightcurve Photometry Database (http://alcdef.org/).

 

La “caccia” agli asteroidi LSFR

La forza di coesione della regolite inizia a diventare importante solo per corpi inferiori ai 10 km di diametro, quindi la ricerca di LSFR va fatta su asteroidi relativamente piccoli. Risulta chiaro che la fotometria degli asteroidi è una tecnica essenziale per andare a caccia degli asteroidi LSFR. Tuttavia l’osservazione dei piccoli MBA può essere difficoltosa. Ad esempio, se consideriamo un tipico asteroide di tipo S con 1 km di diametro posto a 2,5 UA dal Sole, all’opposizione avrà una magnitudine apparente di +20,3. Questo valore è piuttosto alto e fare la fotometria con piccoli strumenti diventa difficile. Per questo motivo è molto più facile andare alla ricerca di LSFR nella popolazione degli asteroidi near-Earth quando fanno il loro flyby con la Terra. I NEA hanno dimensioni che rientrano in quelle tipiche in cui si possono trovare i LSFR e possono diventare sufficientemente luminosi da essere osservati agevolmente anche in piccoli strumenti. L’unica “pecca” di questa strategia osservativa è che il moto proprio di un NEA può essere elevato e una sessione con le stesse stelle di confronto può diventare davvero breve se il campo di vista non è sufficientemente ampio. Per non avere troppi problemi con la durata della sessione ci si può limitare a considerare oggetti con un moto proprio non superiore ai 10 arcsec/minuto. Si tratta di osservazioni non facili ma che possono dare informazioni preziose sulla costituzione fisica dei piccoli asteroidi. Vale la pena andare a caccia di LSFR!

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Figura 6. L’asteroide 2014 VQ è un NEA candidato ad essere un LSFR scoperto nel novembre 2014. Ha un periodo di rotazione di soli 7minuti e una dimensione che può andare da 165 metri (se di tipo V) a 267 metri (se di tipo S).

 

Conclusioni

Come abbiamo visto in questo breve articolo la fotometria degli asteroidi può portare a dei risultati davvero molto interessanti, sia per quanto riguarda lo studio dei singoli oggetti sia per quanto riguarda lo studio di intere popolazioni. Non abbiamo esplorato tutte le possibilità di studio ma quanto detto dovrebbe dare un’idea di quello che si può ottenere. Gli asteroidi meritano di essere studiati, come amo ripetere la migliore motivazione per fare la fotometria di un asteroide è che “non si può mai sapere quello che si troverà osservando quei piccoli punti di luce che si muovono in cielo!”.