Una libreria di miei fit grezzi per fare pratica

L’astronomia è condivisione, sia se la facciamo per hobby che per professione. La condivisione diventa necessaria quando parliamo di dati, di fotografie e di tutto ciò che può essere utile alla scienza o nell’apprendere nozioni in un campo nuovo. Se nessuno condividesse le proprie esperienze sarebbero molto pochi gli appassionati del cielo e ancora meno i progressi fatti dalla scienza negli ultimi secoli.

Spesso mi hanno chiesto quale fosse il segreto delle mie immagini, quale magica pozione utilizzassi per elaborarle. Molti sono infatti convinti che la magia di una foto la si crei nella fase di elaborazione, dove con qualche software potente come Photoshop potremo estrarre dettagli sorprendenti di una nebulosa, magari partendo da una sfocata fotografia a un segnale stradale. Certo, tutto è possibile, anche questo, ma credo che sarebbe bello partire da un’immagine reale e fare tutte quelle operazioni che non alterano il segnale catturato. L’obiettivo di un’elaborazione, sia pur estetica, di una fotografia astronomia dovrebbe essere quello di mostrare al meglio tutto il segnale catturato, senza cambiarlo, senza interpretare la realtà che resta quella che il nostro sensore digitale ha catturato. La tentazione di passare dalla fase di elaborazione a quella di fotoritocco può essere grande, soprattutto quando la nostra voglia di ottenere buoni risultati si trasforma in frustrazione vedendo in giro capolavori in apparenza irraggiungibili.

La fase fondamentale della realizzazione di un’ottima immagine astronomica si affronta sempre durante lo scatto, sul campo, spesso al freddo e all’umido. E’ una fase che spesso inizia prima dello scendere del buio, quando dobbiamo trovare il luogo adatto, privo di luci e di umidità, allineare il cercatore, collimare lo strumento (se serve), stazionare in modo perfetto la montatura verso il polo, scegliere il soggetto migliore per la serata e la strumentazione, che deve avere certe caratteristiche, impostare la guida, curare l’inquadratura, la messa a fuoco e poi sperare che per almeno 3-4 ore vada tutto bene, perché quando tutto funziona ed è stato ottimizzato l’unico segreto è questo: esporre, esporre ed esporre per 3-4-5 e più ore. Solo in rarissimi casi si possono ottenere splendide fotografie con un tempo di integrazione totale inferiore a un’ora e sempre la potenziale bellezza di uno scatto aumenta all’incrementare del tempo che gli dedichiamo, non di fronte al computer a elaborarlo ma sotto il cielo, a raccogliere fotoni che hanno viaggiato per migliaia o milioni di anni luce.

Proprio per dare un punto di riferimento a chi cerca di addentrarsi nel mondo della fotografia a lunga esposizione del profondo cielo o per tutti coloro che vogliono capire come migliorare i propri risultati, ho messo a disposizione una serie di fit scattati al cielo coon differenti strumenti e sensori. Per questioni di spazio non ho potuto mettere a disposizione i file singoli con i frame di calibrazione ma solo i file grezzi calibrati e sommati. Potete utilizzarli per fare pratica, divertirvi con gli amici, provare a scovare (e ce ne sono molti) i difetti. Potete pubblicarli per uso non commerciale citando sempre l’autore. Non dovete mai, in nessun caso, eliminare i riferimenti per l’autore o, peggio, spacciarli per vostri perché se vi becco sono cavoli amari 🙂 .

Alcune immagini non le ho elaborate neanche io ancora, per mancanza di tempo, quindi non ho la minima idea di come potranno venire. Molte altre, invece, le trovate elaborate nella mia gallaery su astrobin: http://www.astrobin.com/users/Daniele.Gasparri/collections/253/

Ecco l’elenco completo da cui poter scaricare le immagini. I file sono compressi in formato zip. All’interno troverete il file fit. Ho scelto questo formato, che Photoshop non legge a meno di scaricare il programma gratuito Fits Liberator, perché è lo standard internazionale per tutti i dati astronomici. Tutti i software appositi lo leggono, compreso Deep Sky Stacker, Nebulosity, Iris, Registax, MaxIm DL, PixInsight, AstroArt…

Mettete questo post tra i preferiti perché con il tempo verrà aggiornato con nuovi scatti, compresi quelli in alta risoluzione:

Sistemi portatili per la fotografia astronomica..a confronto!

Chi si dedica alla fotografia astronomica, sia i più esperti che chi è agli inizi, deve fare i conti con l’autoguida e con la necessità di collegare la camera di guida a un computer che gestisca questa importantissima fase. Un notebook è obbligatorio per chi usa una camera CCD per fare riprese, mentre chi impiega le reflex ha a disposizione una soluzione chiamata autoguida standalone che permette, previa molta pazienza e/o denaro, di non utilizzare il computer.

Qualsiasi sia la vostra situazione, a meno di non disporre di un osservatorio privato (magari), usare un computer durante le sessioni di fotografia astronomica ha molti inconvenienti, tra cui:

  • Dover trasportare un pesante e ingombrante notebook con noi e sistemarlo in un luogo sicuro, che nel buio della notte e nelle impervie situazioni in cui piazziamo i telescopi (erba alta, alberi, terreno scosceso…) non è proprio semplice;
  • L’alto consumo di corrente, che supera spesso i 3-4 ampere e costringe a essere dipendenti dalla corrente elettrica o a viaggiare con ingombranti e pesanti batterie da auto per non rimanere a secco durante la notte.
  • Inoltre i notebook di solito hanno un’alimentazione superiore a 12V, il che rende necessario collegare un inverter ad una batteria (= altro esborso economico)

Fino a qualche anno fa non c’erano molte alternative: o un notebook, magari piccolino, o un’autoguida standalone che spesso, però, rappresenta quasi un terno al lotto perché è sicuramente più difficile da gestire rispetto a quanto possano fare software come MaxIm DL o PHD.

Oltre un anno fa, PrimaLuceLab ha introdotto sul mercato Eagle, un sistema che racchiude all’interno di un unico case modulare, un bridge di alimentazione, un vero e proprio computer desktop con Windows 10 Enterprise modificato e ottimizzato per Eagle e quindi per l’uso astronomico e la possibilità di installarlo in diversi punti tra montatura e telescopio grazie al sistema Plus. Eagle non è solamente un “contenitore”, ma al suo interno contiene una suite di diversi software oltre al fatto che possiamo installare tutti i programmi che vogliamo, inoltre potendo essere montato in modo solidale con il nostro strumento, possiamo staccare tutto insieme, riporre e…in 2 minuti abbiamo smontato e rimontato! Ovviamente come in tutte le cose ci sono i pro ed i contro, andiamo ad analizzarli.

Se Eagle rappresenta, al momento attuale, la più avanzata soluzione dedicata per l’astrofotografo itinerante, è anche vero che il costo non è detto che sia alla portata di tutti vista la mole di caratteristiche avanzate implementate. La domanda posta è: si riesce ad alleggerire lo stesso il setup, perdendo ovviamente di funzionalità complessive, ma ad un minor prezzo?

Ora ci sono i Windows Tablet, dei tablet che montano una versione ottimizzata (=depotenziata) di Windows, ma che sono pratici quanto un normale tablet Android o iOS. Una soluzione del genere permette di avere una versatilità simile a quella di un di un pc, sul quale possiamo installare i nostri programmi per la gestione della ripresa e della guida, con la comodità di un tablet, compreso un consumo nettamente ridotto rispetto ai notebook. Di fatto possiamo trasformare, almeno la fase di autoguida, come se fosse fatta con una camera standalone, solo che avremo la potenza di un software installato come PHD, l’economicità di una camera usb  con porta ST4 e la comodità di uno schermo LCD da almeno 7 pollici, senza gli ingombri e i problemi tipici di un computer, anche se dobbiamo vedere dove sistemare il tablet dato che non prevede sei sistemi di montaggio nativi sul nostro telescopio.

Ma se invece vogliamo tenerci il nostro PC/Tablet e abbiamo solo l’esigenza di ottimizzare il più possibile il setup (cavi, hub usb, bridge di alimentazione..), abbiamo una reale alternativa senza doverci autocostruire qualcosa noi?  Per fortuna si, ci ha pensato Geoptik con il Various power supply, che è un bridge di alimentazione avanzato con un hub usb integrato. Offre 4 prese USB 2.0, 1 uscita da 5A (jack 2.1×5.5), 2 uscite jack da 2A (2.1×5.5), 2 uscite per fasce anticondensa kendrik compatibili, 2 prese accendisigari, 1 uscita con regolazione del voltaggio (ideale per alimentare le reflex usando una falsa batteria) e di serie viene fornito con un cavo di alimentazione che si collega direttamene ad una batteria da auto, dato che il Varius alimenta tutto, dalla montatura alle camere CCD. Il various si può installare sul telescopio (non in modo solidale come Eagle, ma comunque ha una basetta per rimuoverlo facilmente) e tutti i device sono connessi a lui. Quindi esce un cavo usb che andrà al nostro PC/Tablet.

Per scrivere questo post mi sono indirizzato sul tablet più economico che si possa trovare in giro: si chiama Mediacom WinPad W700, un oggetto con schermo da 7 pollici, dotato di Windows 10 e dal prezzo di circa 40 euro (sì, 40 euro!). Dopo averlo provato per più di un mese posso dare qualche consiglio per farlo funzionare al meglio e per gestire, proprio come se fosse un normale pc, le fasi di guida e persino di acquisizione delle immagini, sebbene con qualche limite.

Il tablet ha un processore quadcore da 1,33 GHz, un GB di RAM e solo 16 GB di spazio disco, che può essere aumentato grazie allo slot per una microSD. Il punto debole di questa soluzione è la presenza di una sola porta micro-usb, quella che in pratica si usa per ricaricarlo. Come facciamo allora per farlo funzionare? E un GB di RAM basta per la nostra sessione di riprese?

Le risposte sono affermative, a patto di comprare qualche altro economico accessorio e di ottimizzare un poco il sistema operativo.

Il tablet Windows Winpad W700: la soluzione più economica per gestire le nostre sessioni di fotografia astronomica

Il tablet Windows Winpad W700: la soluzione più economica per gestire le nostre sessioni di fotografia astronomica

Ottimizzazione del sistema operativo

Windows 10, al contrario degli immediati predecessori, è un sistema leggero e stabile, che non ha problemi anche con driver vecchi (ci ho fatto girare camere SBIG del 2005). Il GB di RAM di cui è dotato il tablet è più che sufficiente se si disattivano servizi inutili come l’assistente vocale Cortana e si eliminano le (poche) animazioni grafiche. In questo modo il sistema operativo usa solo mezzo GB di RAM; il restante è tutto per noi e vista la leggerezza dei programmi di guida e di acquisizione è una quantità più che sufficiente. A meno che non si abbiano dei problemi di instabilità nativa che però non ho riscontrato sui due esemplari che ho testato, ci sono tre operazioni importanti da fare per rendere Windows ancora più veloce e stabile:

  • Disattivare l’avvio rapido del sistema operativo, che è attivato di default e che a volte può causare il riavvio improvviso del tablet poco dopo che è stato acceso (nelle opzioni di risparmio energia, alla voce Scegliere cosa fanno i pulsanti di accensione, si clicca su Modifica le impostazioni attualmente non disponibili e su Impostazioni di arresto deselezionare Avvio Rapido);
  • Se si utilizza solo per le sessioni fotografiche, il consiglio è di tenerlo scollegato dalla rete internet e in questo modo NON fargli mai scaricare gli aggiornamenti di Windows, che tendono a essere pesanti e a riempire il poco spazio disponibile. Questo non toglie che sul campo potremo collegarlo via wireless a una rete locale e così controllare con il nostro smartphone da dentro la macchina o dentro casa come sta andando la sessione di ripresa (su questo tornerò alla fine del post);
  • Disattivare la sospensione automatica dopo qualche minuto e attivare solo lo spegnimento dello schermo. In questo modo eviteremo la possibile sospensione dell’attività durante le sessioni di fotografia e allo stesso tempo faremo spegnere lo schermo al tablet quando tutto andrà bene durante la serata e non ci sarà bisogno di toccarlo;
  • Attivare la modalità Desktop di default (Impostazioni à Sistema à Modalità tablet e alla voce All’accesso impostare Vai al desktop). Windows può essere usato anche in modalità tablet ma questa soluzione per i nostri scopi è molto scomoda; meglio usare il classico ambiente che abbiamo a disposizione su ogni computer.

 

A confronto:

  • Eagle: è un sistema completo e modulare, che si monta direttamente sul nostro telescopio, ottimizzando trasportabilità, funzionalità e possibilità di automazione
  • Tablet: può gestire solamente ed in modo “basilare” le funzionalità di acquisizione e autoguida, inoltre non si può montare sul nostro telescopio in modo solidale.
  • Varius: essendo un bridge avanzato di alimentazione con hub usb integrato, esce solo un cavo verso il nostro PC/Tablet (il Tablet può essere anche quello proposto, per dire). Il Varius ha una basetta per poterlo installare sul nostro strumento, ma poi va rimosso, non essendo solidale come Eagle.

 

L’ alimentazione

La batteria del tablet dura poco, circa 3 ore se si utilizza in modo normale e per di più non ci sono porte usb per collegare la nostra strumentazione. Come facciamo? C’è una soluzione rapida, leggera ed economica.

Per l’alimentazione possiamo comprare un economico power bank. Il tablet in autoguida e con schermo spento consuma circa 0,7 Ampere. Un power bank da 5 Volt (il tablet va a 5 Volt) e 13-15 Ampere costa una ventina di euro (https://www.amazon.it/EasyAcc-Brilliant-Caricatore-15000%C2%A0mAh-Smartphone/dp/B00M8UFTQA/ref=sr_1_2?s=electronics&ie=UTF8&qid=1474975624&sr=1-2&keywords=power+bank+15000) e consente di avere l’alimentazione per circa 18 ore, a cui aggiungere le tre ore della batteria del tablet, per un totale di almeno 20 ore, a essere piuttosto conservativi: in pratica ci possiamo fare tranquillamente due notti senza ricaricarlo. Ovviamente questo calcolo si applica solamente alla batteria del tablet, se ci colleghiamo altri device (montatura, etc) la durata si ridurrà.

A confronto:

  • Eagle: avendo un bridge di alimentazione integrato, alimenta dalla montatura alla camera ccd raffreddata, basta collegarlo ad una fonte di alimentazione adeguata. Tutti i cavi di alimentazione dei nostri device partono da Eagle. Può fornire una potenza di alimentazione di 3A e 5A a seconda della porta utilizzata.
  • Tablet: non prevede nativamente di alimentare il nostro setup, quindi dobbiamo prevedere di creare un sistema per alimentare i device che però non richiedono un’assorbimento di oltre 500mAh, dato che saranno collegati all’hub usb esterno, mentre se richiedono alimentazione superiore (camere ccd raffreddate, montatura, etc) dovremo prevedere di aggiungere un altro sistema di alimentazione.
  • Varius: basta collegare il cavo fornito ad una batteria da auto con un Amperaggio adeguato (consiglio minimo 50Ah per una nottata fredda di astrofotografia) e collegare tutti i device al Varius, che li alimenterà oltre a collegarli al nostro PC/Tablet.

 

Porte USB e collegamenti

Come facciamo invece per le porte usb? E magari tenere il tablet collegato al power bank contemporaneamente? C’è un piccolo trucco. Dobbiamo comprare, per pochi euro un cavo OTG a Y, come questo: https://www.amazon.it/gp/product/B00M1H5348/ref=oh_aui_detailpage_o01_s00?ie=UTF8&psc=1 (io ho esattamente questo modello).

Agganciato alla presa micro usb del tablet, permette di collegare delle periferiche e di alimentare sia queste che il tablet. Il cavo funziona solo se alimentato da una fonte esterna: dal tablet non esce corrente come nei normali cavi OTG (ma vi può entrare). La fonte esterna sarà il nostro power bank. All’unica porta USB di questo cavo possiamo collegare un piccolo hub a 4 o 6 porte e il gioco è fatto. L’hub riceve infatti l’alimentazione dal power bank, che alimenterà tutte le periferiche che ci collegheremo, compresa una camera di guida e potremo quindi usare la nostra configurazione come se fosse un normale computer. Il consiglio è quello di acquistare anche mouse e tastiera wireless: per circa 20 euro avremo un piccolo ricevitore da collegare a una delle porte USB, che ci permetterà di usare mouse e tastiera al posto del touch, che è pure piuttosto impreciso (per 40 euro non si può pretendere di più). L’uso di mouse e tastiera wireless, oltre a eliminare due cavi, consente di occupare solo una delle porte usb del nostro hub e quindi di avere a disposizione una maggiore potenza di fuoco per collegarci quello che vogliamo.

A questo punto il nostro setup è pronto: il tablet funziona esattamente come un normale computer, quindi non c’è molto altro da aggiungere. Possiamo collegare le periferiche che vogliamo e installare driver e programmi, scaricandoli da internet o, meglio, importandoli da una chiavetta USB (così teniamo il tablet sempre scollegato dalla rete per impedire installazione di aggiornamenti e/o rallentamenti vari: non vorremo mica che si blocchi installando degli aggiornamenti durante la serata con il cielo migliore della nostra vita, vero!?). Tenete conto che se collegate device che richiedono ulteriore alimentazione rispetto a quella fornita dalle porte USB, dovrete collegarci una fonte di alimentazione supplementare.

Ecco la configurazione con porte USB e alimentata da un power bank da 26 Ampere pronta per la serata di fotografia astronomica. Autonomia stimata: 40 ore

Ecco la configurazione con porte USB e alimentata da un power bank da 26 Ampere pronta per la serata di fotografia astronomica. Autonomia stimata: 40 ore

 

Risultati

Ho provato il WinPad W700 con diverse configurazioni e sottoponendolo anche a qualche stress. Ho installato senza problemi i driver delle camere CCD che utilizzo, una ST-7XME e un ST-2000XCM della SBIG e quelli di una camera planetaria che ho utilizzato come autoguida attraverso PHD. Ho fatto girare la versione 5 di MaxIm DL, che gestisce sia la fase di ripresa che di autoguida, senza particolari problemi, oltre a PHD. Anche i driver ascom funzionano, così come programmi quali Cartes du Ciel. Non ho provato Stellarium perché è troppo pesante e in generale non consiglio di installarci software per il fotoritocco come Photoshop e PixInsight: questo tablet infatti va bene solo per gestire l’autoguida e al limite la fase di ripresa, mentre Eagle permette di eseguire qualsiasi tipo di operazione, essendo un computer vero e proprio.

Non ho provato a utilizzarlo per l’imaging planetario ma posso affermare senza problemi che NON è indicato, sia per la poca RAM che per l’esiguo spazio di archiviazione. In ogni caso consiglio di acquistare una micro SD da 32GB, che si trova a una decina di euro, per avere così spazio a sufficienza per accumulare molti dati durante le serate di ripresa del profondo cielo.

Uno screenshot direttamente dal Winpad W700 di MaxIm DL durante l'acquisizione e la guida sul finire di una serata di fotografica.

Uno screenshot direttamente dal Winpad W700 di MaxIm DL durante l’acquisizione e la guida sul finire di una serata di fotografica.

In commercio ci sono tablet più performanti, naturalmente, ma ho voluto testare la soluzione più economica per capire quali fossero le sue potenzialità. Per chi usa una reflex digitale rappresenta un’alternativa molto economica e migliore rispetto alle camere autoguida standalone (che devono essere alimentate comunque!) e gestire quindi la sola fase di guida. In generale anche per gli astrofotografi itineranti che desiderano togliere peso e cavi dalla loro macchina è una valida alternativa per gestire anche la fase di acquisizione. Ovviamente dovremo vedere dove e come appendere i vari cavi, power bank, tablet, dove posizionare la tastiera, etc.

A confronto:

  • Eagle: ovviamente è molto più performante di un economico tablet e consente di svolgere tutte le operazioni desiderate, oltre a fornire la flessibilità di utilizzo grazie al bridge di alimentazione integrato. Non ha problemi per eseguire qualsiasi software, così come per elaborare e acquisire filmati planetari con camere dotate anche di porta USB 3.0.
  • Tablet: ideale se abbiamo un setup molto leggero anche in termini di assorbimento della corrente, infatti le ccd raffreddate andrebbero comunque alimentate a parte, così come anche la montatura va alimentata a parte. In sostanza dovremo prevedere di alimentare ogni device in modo autonomo tranne quelli puramente USB. Questo porta a preferire il tablet se si riprende con una reflex non raffreddata, gestendo solamente l’autoguida e al massimo le riprese tramite un programma di terze parti.
  • Varius: può gestire tranquillamente, come alimentazione, montatura, camere raffreddate, fasce anticondensa. E’ stato pensato per le sessioni deepsky, mentre l’uso con camere planetarie sarà limitato dalla presenza di un hub usb 2.0 e dalla lunghezza del cavo derivante, oltre al limite fisico del la nostra macchina di ripresa. I software da eseguire dipendono dalla potenza del nostro PC/Tablet

 

Bonus: controllare il tablet in remoto

Queste poche righe in realtà sono generiche e consentono di visualizzare il desktop del computer/tablet che sta facendo le riprese da qualsiasi dispositivo, anche uno smartphone. Ci sono diversi metodi, ma il mio preferito è il seguente. Quello che serve è una rete locale che può essere creata con un piccolo router wifi da collegare a una presa USB (non serve internet!) e il programma VNC. Sul computer/tablet si installerà il software gratuito chiamato tight VNC, mentre sullo smartphone un’applicazione gratuita chiamata VNC Viewer. Si collegano entrambi i dispositivi alla rete locale, sul computer che controlla la sessione di ripresa si avvia Tight VNC e ci si annota l’indirizzo IP che gli è stato assegnato (Nella finestra di ricerca digitare cmd e premere invio; poi dal prompt dei comandi che si apre digitare Ipconfig, premere invio e leggere la voce IPv4 Adress); questo indirizzo deve essere immesso nell’applicazione VNC Viewer quando si deve configurare il computer a cui vorremmo connetterci. Il WinPad W700 si controlla in remoto che è un piacere e non ha mai mostrato rallentamenti.

A confronto:

  • Eagle: genera di automatico una rete WiFi e basterà connettersi con il device che vogliamo usare per controllarlo. Il tempo di latenza è inferiore rispetto al VNC, perchè usa un sistema differente.
  • Tablet: dobbiamo creare noi la nostra rete VNC, operazione consigliata a chi ha almeno un po’ di esperienza informatica. Sicuramente per i meno esperti si può usare TeamViewer come alternativa al VNC.
  • Varius: stesso discorso del Tablet, possiamo scegliere se affidarci ad un cavo sub 2.0 con lunghezza max 3mt circa, oppure creare anche qui una rete per il controllo in remoto.

 

Il Tablet è il Sacro Graal per la fotografia astronomica? Non proprio

La soluzione proposta qui comporta una spesa minima ma ha naturalmente delle limitazioni. Il tablet ha una risoluzione dello schermo di soli 1024X600 pixel e con appena 7 pollici di diagonale richiede una buona vista. L’hardware funziona e sembra stabile, ma nulla si sa sulla sua durata nel tempo. Il touch screen su uno schermo così piccolo non è comodo da usare, tanto che è indispensabile una tastiera e un mouse esterni. I collegamenti sono affidabili ma richiedono un minimo di manualità ed è necessario seguire le indicazioni per l’assemblaggio e l’ottimizzazione del setup proposte nel post. Insomma, si tratta di una soluzione che funziona certamente ma che non si può sostituire a oggetti di maggiore potenza, eleganza e affidabilità, come il sistema Eagle di PrimaLuceLab, che è molto più potente, versatile e pronto all’uso e ha materiali di ben altra fattura rispetto alla plastica e allo schermo minuscono di un tablet economico. La soluzione di Eagle, per chi fa della fotografia itinerante il suo stile di vita, possiede camere CCD con grossi sensori e magari vuole controllare focheggiatori elettrici, plate solving e in generale una complessa sessione di fotografia astronomica è sicuramente da preferire a un tablet dalla limitata potenza di calcolo e di memoria che non ce la farebbe proprio se si carica oltre la gestione della guida e della semplice acquisizione delle immagini.

E’ anche vero che il Varius della Geoptik è una buona soluzione per avere tutti i nostri device alimentati, collegati e con solo 1 cavo che va verso il nostro PC/Tablet.

D’altra parte si tratta di due soluzioni molto diverse; sarebbe come confrontare una vecchia reflex Canon 350D che si trova usata a meno di 200 euro con una nuovissima full frame Canon 7D Mark II: entrambe sono in grado di produrre dei risultati, ma la 7D possiede una potenza inarrivabile per la vetusta 350D e con la seria possibilità che questa potrà durare per ben più a lungo della configurazione più economica. Il Varius si colloca a metà tra i 2, come prezzo, funzionalità e possibilità.

A confronto:

  • Eagle: in un unico oggetto racchiude un vero e proprio pc, un bridge di alimentazione per tutti i nostri device e la possibilità di montarlo sul nostro setup, senza poi smontarlo ad ogni utilizzo. E’ in grado di fare tutto, dal deepsky alle riprese planetarie, specie nella versione Observatory. Inoltre è tutto integrato a livello software.
  • Tablet: ha dalla sua l’economicità e la compattezza, ideale per operazioni di base come autoguida e gestire l’acquisizione, ma per alimentare i nostri device (tranne quelli USB) dobbiamo pensare ad altre fonti di alimentazione. Va bene per gestire sessioni “semplici” sul deepsky, mentre per le riprese planetarie il framerate della camera si abbasserà moltissimo per via dell’hardware economico.
  • Varius: essendo solamente un bridge di alimentazione con hub usb 2.0 integrato, richiede sempre e comunque di essere collegato al nostro PC/Tablet. Offre molte possibilità di alimentazione, in pratica può alimentare qualsiasi cosa vogliamo connetterci. Rispetto al tablet, se ci colleghiamo un PC performante, possiamo eseguire tutte le operazioni che vogliamo, con limitazioni per l’uso con camere planetarie in fase di acquisizione. Si può montare e rimuovere dal nostro setup con la basetta fornita di serie.

 

 

Testiamo la linearità del nostro sensore digitale

Uno dei grandi vantaggi dei sensori digitali è la cosiddetta linearità, o risposta lineare. Di cosa si tratta? In pratica un sensore produce un’immagine la cui intensità è direttamente proporzionale alla luminosità dell’oggetto o al tempo di esposizione. Se ad esempio facciamo una foto di una stella non variabile, questo implica che se si raddoppia l’esposizione raddoppierà il segnale (la luminosità) che il sensore avrà registrato dalla stella. Detto in questi termini sembra la scoperta dell’acqua calda e si fatica persino a capirne l’utilità; anzi, gli astrofotografi più esperti neanche lo vedono come un vantaggio e vedremo presto il perché.

Che i sensori abbiano una risposta lineare all’intensità luminosa che li colpisce non è una cosa scontata. L’altro strumento che usiamo per osservare il mondo, l’occhio, NON possiede una risposta di questo tipo, ma logaritmica: in pratica l’intensità percepita da tutti gli occhi umani cresce con il logaritmo dell’intensità luminosa che lo colpisce. In questo modo, quindi, quando vediamo una sorgente che ci appare il doppio più luminosa di un’altra, la reale differenza di luminosità non è di due volte ma molto più alta. Il caso classico è rappresentato dalla scala delle magnitudini, in cui tra una stella di magnitudine 2 e una di magnitudine 4 non c’è una differenza di 2 volte come suggerisce l’occhio ma di ben oltre 6 volte. Questa curva di risposta meno ripida di una retta consente al nostro occhio di sopportare enormi differenze di luminosità senza avere particolari problemi perché di fatto schiaccia le reali differenze di luminosità e ce le fa percepire come se fossero molto più ridotte di quanto siano. Di fatto, per chi conosce un po’ il gergo della fotografia astronomica, l’occhio umano opera uno stretch logaritmico automatico su ogni immagine che registra.

Perché allora i sensori digitali possiedono una risposta lineare, così differente da quella dell’occhio umano? E perché questa sembra così importante tanto da dedicarle un post? La risposta è semplice: la linearità nella risposta è fondamentale se si vogliono effettuare precise stime di luminosità degli astri. L’introduzione dei sensori digitali nell’astronomia (professionale) ha prodotto una grande rivoluzione che ha consentito di arrivare persino a scoprire la debolissima traccia lasciata da un pianeta extrasolare in transito di fronte al disco luminoso della propria stella.

In ambito prettamente astrofotografico questo che è un enorme vantaggio viene ribaltato e si trasforma in uno svantaggio: gran parte dell’elaborazione di una foto estetica si basa infatti sui cosiddetti stretch, ovvero sull’alterare la risposta portandola da lineare a logaritmica. Questa operazione consente di osservare sullo schermo del computer sia dettagli molto deboli che molto brillanti. Se si fosse avuto un sensore già con una risposta logaritmica come il nostro occhio sarebbe stato quindi più facile ottenere fotografie estetiche, in un certo senso!

In realtà la risposta lineare del sensore serve anche per chi fa fotografia estetica e permette di correggere i principali difetti delle immagini attraverso i dark frame e i flat field. Quest’ultimi sono importantissimi nel poter disporre di un’immagine da elaborare priva di difetti macroscopici e dalla quale potremo discernere molto bene dettagli reali da artefatti dovuti a polvere sul sensore o alla vignettatura del telescopio. Se il sensore non ha risposta lineare per certi livelli di luminosità, i flat field potrebbero non correggere le immagini e il risultato potrebbe essere disastroso.

Chi si dedica alla ricerca, anche in ambito amatoriale, soprattutto fotometrica, ha l’assoluta necessità di sapere se e quanto è lineare la risposta del proprio sensore, altrimenti rischia di misurare magnitudini del tutto sballate rispetto ai dati reali. Ecco allora che ho trasformato un argomento che poco interessava in uno dei mille problemi aggiuntivi che si trovano ad affrontare tutti coloro che usano camere digitali: i sensori hanno una risposta lineare? Se sì, per tutto l’intervallo di luminosità consentito? Come possiamo capire come si comporta il nostro sensore?

Come al solito parto con le notizie brutte: non è scontato che la risposta del sensore sia lineare su tutto l’intervallo di luminosità che riesce a darci, anzi, i sensori delle reflex e in generale tutti quelli dotati di un meccanismo chiamato porta antiblooming (ABG) hanno un ristretto intervallo di linearità. Questo si traduce nell’impossibilità di fare misure fotometriche e spesso anche nella difficoltà quasi estrema di ottenere flat field che correggano bene le immagini estetiche. Quindi, se avete fatto del flat field e avete notato che “non flattano” la risposta potrebbe essere questa: non li avete fatti nell’intervallo di linearità del sensore, che potrebbe essere molto limitato.

La prossima domanda allora è scontata: come misuro l’intervallo di linearità del sensore? Come faccio a capire quando smette di comportarsi bene e inizia a fornire valori sballati di luminosità?

È qui che arriva la bella notizia, perché possiamo fare un test rapido e molto semplice, di giorno e stando comodi dentro casa. Di modi per fare questo test ce ne sono diversi, qui spiego quello più facile, rapido e chiaro. L’idea alla base è chiara: disporre di una fonte di luce fissa e fare una serie di scatti con tempo crescente, in modo da coprire tutta (o quasi) la gamma di luminosità concessa dall’elettronica del sensore. Poi misureremo la luminosità della sorgente in funzione del tempo di esposizione e costruiremo un bel grafico. Se la risposta è lineare, i punti si disporranno su una retta, altrimenti inizieranno a fare strane curve e potremo così individuare l’intervallo di luminosità in cui potremo effettuare i nostri flat field o misurare la luminosità delle stelle senza problemi.

Ora che abbiamo capito l’idea alla base, cerchiamo di metterla in pratica. Intanto la fonte di luce: ideale è una lampada a led, anche una torcia. Se abbiamo una flatbox le cose saranno ancora più semplici. Non è necessario montare la camera su un telescopio ma è sicuramente più comodo. Se non abbiamo grossi problemi, possiamo montare il telescopio in casa e metterci sopra la flat box. L’idea è quella di ottenere dei flat field con diversi tempi di esposizione, idealmente da 1 a 20-30 o più secondi, in modo che la luminosità media dell’esposizione più breve sia attorno a 1000-1500 ADU e quella dell’esposizione più lunga raggiunga la saturazione, circa a 65000 ADU se usiamo camere da 16 bit. In questi casi visualizzare l’istogramma ci sarà molto utile. Se la luminosità della flatbox è troppo forte possiamo inserire un filtro nella nostra fotocamera (tanto la linearità non dipende dalla lunghezza d’onda) o schermare la luce della flatbox con qualche foglio bianco.

A questo punto, in binning 1 (cioè a piena risoluzione) e con il sensore raffreddato (per chi se lo può permettere) effettuiamo degli scatti a esposizioni crescenti, partendo da 1 secondo fino ad arrivare alla saturazione, incrementando di un secondo ogni volta. Ripetiamo questa procedura 3 volte per avere una buona statistica (in pratica alla fine costruiremo 3 grafici indipendenti e vedremo i risultati) che ci permetterà di escludere eventuali variazioni della sorgente di luce. In alternativa possiamo mediare 5-6 singoli scatti per ogni intervallo di esposizione (ognuno dei quali calibrato con dark o con bias), come ho fatto nei risultati che troverete alla fine di questo post. Se abbiamo tempo e un CCD raffreddato, sarebbe meglio catturare circa 3-5 dark frame per ogni esposizione. Naturalmente non servono flat field perché stiamo analizzando di fatto dei flat field. Se abbiamo sensori non raffreddati non facciamo i dark ma i bias: una ventina di scatti con camera al buio e il più breve tempo di posa concesso dall’elettronica.

In fase di elaborazione non dovremo far nulla se non calibrare le nostre esposizioni. Attenzione in questo punto: i bias frame vanno bene per tutti gli scatti, mentre i dark frame sono collegati a ogni esposizione, quindi NON usiamo dark da 5 secondi per correggere le immagini da 2 secondi. So che alcuni software applicano un dark frame adattivo, ma non dobbiamo neanche pensarci!

Con le immagini calibrate adesso passiamo alla fase più noiosa: dobbiamo scegliere un’area di circa 50X50 pixel, sempre la stessa per ogni scatto e illuminata in modo circa uniforme, e annotarci il valore medio di luminosità, espresso in ADU.

In alternativa, se non ci sono forti variazioni di luminosità nell’intero campo, potremo usare tutta l’immagine come area di misurazione. Questo ci evita di dover tracciare un riquadro su ogni esposizione ma la precisione ne risentirà. Se i nostri speciali flat field possiedono variazioni di luminosità superiori al 10% nelle varie zone dell’immagine, siamo costretti a scegliere una piccola area verso il centro e con un’illuminazione più uniforme. La richiesta di luminosità uniforme lungo l’area di cui vogliamo misurare l’intensità luminosa è fondamentale per evitare che la misura venga falsata da porzioni che si trovano già oltre il range di linearità rispetto ad altre.

I programmi per fare questa misura sono quelli tipicamente astronomici, come AstroArt e MaxIm DL. Con MaxIm DL basta aprire l’immagine calibrata che si vuole misurare, visualizzare la finestra “Information Window” (View –> Information Window), e poi da questa scegliere la modalità “Area”. Di default compariranno le informazioni relative a tutta l’immagine, compresa quella che a noi maggiormente interessa: il valore medio della luminosità (Average), espresso in ADU. Se vogliamo o dobbiamo restringere l’area di misurazione, si deve tracciare un rettangolo sull’immagine con il mouse, ciccando con il tasto sinistro, tenendo premuto e trascinando il rettangolo che si formerà. In questo caso è assolutamente necessario annotarsi la posizione e le dimensioni della finestra di misurazione perché dovrà essere identica per ogni immagine che vorremo misurare, nella medesima posizione. Una volta tracciata l’area, la finestra “Information Window” ci darà le sue coordinate (quindi potremo ridisegnarla uguale senza problemi anche sulle altre esposizioni) e naturalmente i valori di luminosità media.

Area di misurazione della luminosità media con MaxIm DL e rispettiva "Information Window".

Area di misurazione della luminosità media con MaxIm DL e rispettiva “Information Window” in cui possiamo trovare la sua posizione e la luminosità media (Average).

 

Analizziamo le immagini

Bene, per ognuna delle immagini calibrate con dark frame o bias frame annotiamoci il relativo tempo di esposizione e il valore medio di luminosità. Importiamo i dati in un foglio di calcolo e cominciamo con le nostre analisi.

Come programma possiamo usare Excel o il gratuito Gnumeric, che funziona sia per Windows che per Linux. In ogni caso le operazioni da fare sono poche e semplici: si tratta infatti di costruire qualche grafico e magari fare una regressione lineare sui dati. Niente paura, spiego tutto nei prossimi punti.

  • Il primo grafico che dobbiamo fare mette in correlazione il tempo di esposizione e il valore medio di ADU misurato per ogni immagine. Sull’asse x va quindi il tempo di esposizione dei nostri speciali flat field, sull’asse y i valori medi di ADU. Da questo grafico, se abbiamo fatto tutte le misure per bene, dovremo trovare dei punti che si dispongono su una retta perfetta: caspita, il sensore è perfettamente lineare allora! No, non necessariamente. Questo è il primo grafico e serve per vedere se ci sono stati errori macroscopici nella fase di acquisizione ed estrapolazione dei dati (o se il sensore fa proprio schifo!). Con il grande intervallo di luminosità sull’asse y è impossibile vedere piccole deviazioni dal comportamento lineare. Quando la situazione può ingannare l’occhio (cioè quasi sempre), ecco che subentra una cosa che gli uomini hanno inventato tanto tempo fa e che i più, ahimé, disprezzano: si chiama scienza, in questo caso un po’ di statistica. La domanda a cui vogliamo rispondere è la seguente: il grafico ci sembra perfetto perché è così o perché siano stati ingannati? La risposta l’ho già data implicitamente qualche riga sopra, meglio quindi procedere spediti per vedere che avevo ragione;
Di primo acchitto il grafico sembra molto bello, ma l'occhio inganna...

Di primo acchitto il grafico sembra molto bello, ma l’occhio inganna…

 

  • A dominare il grafico non sono le probabili piccole deviazioni dal comportamento lineare ma il fatto che la luminosità cambia di migliaia di ADU lungo l’asse Y. Per togliere questo comportamento e mettere a nudo le più piccole imperfezioni del nostro sensore, dobbiamo fare quella che viene chiamata regressione lineare o fit lineare e analizzare i residui. In pratica diciamo al software di “unire” i punti con la migliore retta che è possibile costruire, poi sottrarremo i valori della retta ai punti reali e analizzeremo quelli che vengono chiamati residui, ovvero i punti depurati dell’andamento principale che ci impediva di vedere nel dettaglio il loro comportamento. Se i punti sono davvero tutti sulla retta come sembra dal primo grafico, i loro residui saranno tutti nulli o disposti in modo casuale attorno allo zero, e noi saremo contentissimi perché avremo in tasca il sensore digitale più preciso dell’Universo intero. Tranquilli, non c’è pericolo di cadere in questa eventualità…
    Sembra tutto complicato ma non lo è. Ci sono diversi modi per fare un fit lineare e poi sottrarne i valori ai dati. Con il programma Gnumeric, ad esempio, un modo molto rapido e user friendly è farlo fare in modo grafico al programma. Nelle opzioni di costruzione del grafico (che si attivano quando vogliamo costruire un nuovo grafico o quando facciamo doppio click su uno già creato), se ci posizioniamo sulla serie di dati immessi e clicchiamo sul punsalte “Aggiungi” potremo scegliere una bella “Trend line to serie 1”, in particolare del tipo “Lineare”. Nel nuovo menù che si apre basta accertarsi che l’opzione “Affine” sia selezionata e già potremo vedere una bella retta sovrapposta ai nostri dati.
In gnumeric, in pratica un clone gratis di Excel, possiamo fare tutti i calcoli che vogliamo. In questo caso ci serve un fit lineare e poi magari di visualizzare l'equazione della retta.

In gnumeric, in pratica un clone gratis di Excel, possiamo fare tutti i calcoli che vogliamo. In questo caso ci serve un fit lineare e poi magari di visualizzare l’equazione della retta.

 

  • Non abbiamo ancora finito, però. Clicchiamo ancora su “Aggiungi” e selezioniamo “Equazione to Regressione lineare 1”. Confermiamo tutto e vedremo comparire nel grafico sia la retta di fitting che l’equazione che la descrive. A questo punto dobbiamo creare una nuova colonna nel nostro foglio di lavoro, alla quale applichiamo l’equazione a ogni tempo di esposizione. In questo modo invece di una retta troveremo dei punti che si sovrappongono a essa in modo perfetto. Non c’è bisogno di graficarli; questi ci servono per fare la successiva operazione: creare i residui. I punti appena ottenuti sono quelli che si avrebbero in una situazione ideale in cui la risposta è rappresentata da un’unica e perfetta retta. I nostri punti sperimentali, invece, non avranno questa bella proprietà. Per capire quanto se ne discostano basta creare una nuova colonna in cui calcoliamo la differenza Osservato – Calcolato per ogni tempo di esposizione.

dati_better

  • Proviamo ora a costruire un grafico di questi residui in funzione del tempo di esposizione o, meglio, del valore medio di ADU corrispondente e vedremo che quella che prima era una retta perfetta ora in realtà è molto diversa.
Ora le cose sono più chiare e i dati non sono poi così ben disposti su una retta, che in questo caso dovrebbe essere parallela all'asse x!

Ora le cose sono più chiare e i dati non sono poi così ben disposti su una retta, che in questo caso dovrebbe essere parallela all’asse x!

 

Questo è il grafico davvero importante, perché ci dice come cambia il comportamento del nostro sensore in funzione della luminosità. Nella migliore delle ipotesi vedremo un intervallo lungo fino ad almeno 30 mila ADU in cui i punti si trovano su una retta quasi perfetta e poi divergono. Questo è il caso classico delle camere CCD scientifiche, tipicamente monocromatiche e prive della porta antiblooming.

Nella peggiore delle ipotesi, ovvero nel caso di camere CCD o reflex dedicate all’imaging estetico, le cose saranno ben peggiori, con diversi andamenti di “linearità” prima della saturazione. In questi casi diventa impossibile fare fotometria di alta precisione e spesso è complicato anche fare corretti flat field per riprese con soggetti deboli.

 

Due esempi reali

Ho effettuato il test di linearità appena esposto per due sensori CCD. Il primo, un Kak-402 con microlenti che equipaggia una SBIG ST-7XME, è il tipico sensore scientifico: monocromatico e senza antiblooming. Il secondo, un Kaf-8300 che equipaggia molte camere CCD, in questo caso una Moravian G2-8300 monocromatica, dotato di porta antiblooming, quindi più adatto all’imaging estetico.

I risultati evidenziano molte differenze. Se a prima vista i grafici della luminosità media in funzione del tempo di esposizione sono identici, o addirittura sembrano migliori nella Moravian (ma solo perché non si è raggiunta la saturazione, cosa che è avvenuta con la SBIG):

 

Test di linearità per due sensori CCD. Questi i grafici degli ADU medi in funzione del tempo di esposizione. Ci dicono poco e potrebbero ingannare.

Test di linearità per due sensori CCD. Questi i grafici degli ADU medi in funzione del tempo di esposizione. Ci dicono poco e potrebbero ingannare.

 

 Il fitting lineare con conseguente analisi dei residui rivela la reale situazione:

 Analisi dei residui: ora è fin troppo evidente quale sia il sensore migliore quanto a risposta lineare. Il Kaf 8300 presenta delle vere e proprie montagne russe!

Analisi dei residui: ora è fin troppo evidente quale sia il sensore migliore quanto a risposta lineare. Il Kaf 8300 presenta delle vere e proprie montagne russe!

 

Come si può vedere, la SBIG, a partire da circa 2000 ADU e fino a 25000 presenta una linearità che sfiora la perfezione, con un comportamento da manuale. Gli scostamenti dalla retta ideale sono dell’ordine dello 0,01%, ovvero di una parte su 10 mila. Questo consente ad esempio di mettere in evidenza senza problemi differenze di magnitudine dell’ordine del millesimo e rivelare quindi anche pianeti extrasolari in transito. Oltre i 30 mila ADU il comportamento comincia lentamente a divergere dalla linearità, sebbene bisogna superare i 40 mila per avere una non linearità dell’ordine dell’1%.

D’altra parte il grafico dei residui del Kaf-8300 è molto meno regolare. Si possono vedere almeno tre zone indipendenti, ognuna approssimabile con una retta di diverso coefficiente angolare: la prima fino a 9 mila ADU, la seconda da 10 mila a circa 18 mila e la terza da 20 mila a 30 mila, prima della naturale deviazione asintotica verso i valori di saturazione.  Questo è un problema se si vuole fare fotometria di alta precisione, in pratica impossibile, ma anche per i flat field. Quale valore usare per fare corretti flat field? La risposta forse già l’abbiamo vista da qualche altra parte, ma ora ne abbiamo la prova: per correggere un fondo cielo che tipicamente ha valori di poche migliaia di ADU, occorre che il flat field sia fatto nel primo intervallo di linearità, ovvero quello fino a 9000 ADU. In pratica, un buon flat field per un sensore di questo tipo è la media di tanti singoli flat che hanno come luminosità di picco circa 8000, massimo 9000 ADU. Per la ST-7XME invece, e in generale per tutte le camere sprovviste di porta antiblooming, i flat field si possono fare attorno a 25 mila ADU, in modo da avere il maggior rapporto segnale/rumore pur rimanendo ancora entro la zona perfettamente lineare.

 

Il test può essere fatto anche con le reflex senza problemi: basta scattare in formato raw agli ISO che di solito si usano per fare riprese astronomiche. In questo caso sarebbe interessante capire se e quanto varia la linearità della risposta in funzione degli ISO e in generale come si comportano questi sensori. Basta provare!

QHY9 – problema di blocco dell’otturatore

In molti possessori della prima serie di QHY9 avranno sperimentato le difficoltà legate alla presenza di fastidiosi blocchi dell’otturatore meccanico, specie in presenza di temperature esterne non rigidissime.

Il problema affligge tutti gli otturatori delle camere QHY 9, dopo un certo periodo di tempo, e dopo una serie anche moderata di cicli di attuazione del sistema elettromeccanico; tale problema, tuttavia, può essere risolto con un intervento abbastanza semplice, a patto di disporre degli strumenti corretti per eseguirlo.

È sufficiente aprire la scocca, quindi disassemblare con cautela il wafer superiore di silicio, che è tenuto in posizione grazie ad una serie piuttosto numerosa di faston, dai 2 agli 8 pin, procedendo alla revisione del sistema di movimentazione meccanica.

In alcuni casi può essere sufficiente regolare o procedere alla sostituzione completa delle viti di ritenzione, adottando prodotti specifici per impedire alle stesse di soffrire a causa delle dilatazioni termiche o delle vibrazioni prodotte dall’otturatore all’impatto con il rispettivo fine corsa. In altri casi può rendersi necessaria una revisione completa dell’otturatore.

In tutti i casi, sia per proteggere le parti interne della camera da impurità ambientali, che per evitare di infliggere dannose scariche elettrostatiche ad una camera dotata di valore, consigliamo di rivolgersi a dei professionisti.

In nuovi servizi di assistenza e revisione camere CCD di Teleskop Service Italia, possono aiutarvi ad eseguire il procedimento al meglio, e con costi contenuti.

Ecco tutti i riferimenti TS:

– Scheda tecnica QHY9: http://www.teleskop-express.it/ccd-deep-sky/736-qhy9-qhy.html
– Servizio di revisione e pulizia CCD: http://www.teleskop-express.it/servizi/2520-revisione-pulizia-ccd-ts-optics.html
– Servizio di revisione e pulizia CCD con ritiro: http://www.teleskop-express.it/servizi/2525-revisione-pulizia-ccd-ts-optics.html