Filtri anti IL – un’analisi senza precedenti

Il nostro grande amico Fabio Di Giorgio ci presenta un’analisi dei filtri per inquinamento luminoso senza precedenti! Un ricerca approfondita fatta sul campo che siamo sicuri sarà di grande aiuto a tutti gli appassionati afflitti da questo problema.

A lui la parola!

L’astrofotografia dal centro di una grande città è probabilmente uno degli hobby più frustranti, al giorno d’oggi! Posso immaginare davvero poche attività più complesse della ripresa di deboli oggetti a migliaia o milioni di anni luce da noi, quando perfino le stelle più luminose sono difficili da scorgere nel cielo notturno.

E, beh, vivere nel centro di Roma porta questa complessità ad un livello completamente diverso: qui sotto una foto della cupola di San Pietro ripresa dal tetto del mio palazzo. Questo dovrebbe dare un’idea del luogo da cui osservo; notate la tonalità dello sfondo.

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Penso che questo possa rendere bene l’idea della mia passione per l’unica misura contro l’inquinamento luminoso: i filtri astronomici. Nel corso del tempo, mentre le stelle venivano progressivamente sbiadite dal cielo, i produttori hanno iniziato a sviluppare filtri sempre più efficaci per riguadagnare opportunità di osservare il cielo notturno e i suoi deboli oggetti. Ne ho molti nella mia collezione personale.

E, purtroppo, nel frattempo è cambiata anche la caratteristica dell’inquinamento luminoso: dalle vecchie luci calde e giallastre così ben trattate dai filtri a banda larga – ne parleremo più avanti – l’illuminazione urbana è progressivamente passata ai LED. Più economici e con un consumo ridotto, ma decisamente più difficili da combattere a causa del loro spettro continuo.

Io, così come migliaia di altri amici astrofili in tutto il mondo, abbiamo iniziato a notare un aumento dell’inquinamento luminoso quando è stata introdotta questa nuova fonte di luce. Ed allora ho iniziato a chiedermi: qual è il filtro “migliore” per ottenere nuovamente l’accesso al cielo notturno?

Ma, qual è la definizione di “migliore”?

  • È il filtro che fornisce il massimo aumento di contrasto?

  • È quello che mantiene meglio il bilanciamento del colore?

  • È quello che lavora sul maggior numero di oggetti (galassie, nebulose, ammassi…)?

  • O quello che potrebbe essere impiegato nella maggior parte delle condizioni osservative (rurali, urbane, montane, …)?

Temo che non ci sia modo di convergere su un’unica definizione di migliore, né “SUL” miglior filtro; motivo per cui alla fine ho fatto ricorso all’utilizzo di più filtri.

Vi prego di seguirmi nella mia ricerca della migliore combinazione di filtri per uso astronomico. E, già che ci siamo, lasciatemi iniziare con un disclaimer: non sono vincolato a nessun produttore o rivenditore, la maggior parte dei filtri analizzati qui sono miei e non ho guadagnato soldi nell’eseguire questa analisi e condividere i risultati. Fondamentalmente, questo è il modo in cui ho scelto come effettuare le mie riprese.

OK, ma come funzionano questi filtri? Qual è la magia che permette loro di combattere l’inquinamento luminoso? Una trattazione dettagliata potrebbe benissimo riempire un libro di matematica, con un generoso annesso su Ottica, Chimica e così via, quindi affrontiamo solo le basi: la radiazione degli oggetti celesti, dopo aver viaggiato per anni luce, entra nel nostro obiettivo e finalmente raggiunge il nostro sensore. Qui i fotoni vengono convertiti in elettroni e la tensione risultante viene letta, elaborata e memorizzata in un file.

Ma, man mano che il sensore acquisisce la luce del target, riprende anche la luminosità circostante. E, se non c’è differenza nei fotoni da una sorgente o dall’altra, non esiste un modo per il nostro sensore di “discriminare”. Quindi, ora iniziamo a capire che abbiamo bisogno di un po’ di magia che ci aiuti a separare la luce spaziale da quella dell’ambiente. Partiamo dal caso più semplice: le nebulose emettono solo a lunghezze d’onda (colori) molto specifiche; quindi, se riuscissimo a far passare solo quelle, il contrasto tra bersaglio e inquinamento luminoso aumenterebbe. Questo è il modo in cui funzionano i filtri, grazie a una serie di strati sottilissimi di materiali assorbenti e riflettenti: più luce diffusa viene respinta preservando la luce del target, maggiore è l’aumento di contrasto; e i filtri a banda stretta sono molto efficienti in questo processo.

Ma, aspettate un secondo prima di acquistare il filtro più stretto sul mercato! La luce delle stelle è più o meno un continuum, quindi quale sarebbe l’effetto di questo filtro sulle stelle stesse o, ahimè, sulle galassie che sono composte da stelle? Sfortunatamente, la riduzione sarebbe quasi esattamente la stessa dell’inquinamento luminoso (questa semplificazione non è accurata al 100% ma nemmeno così sbagliata). È vero, se riuscissimo a filtrare l’inquinamento luminoso più della luce stellare, funzionerebbe comunque: e questo è il principio dei filtri a banda larga. Non sono così selettivi come quelli a banda stretta, ma cercano di rimuovere le lunghezze d’onda dove l’inquinamento luminoso è maggiore, lasciando le altre – per lo più – intatte. Forniscono comunque un aumento del contrasto, anche se inferiore, ma conservano anche i colori delle stelle. Beh, più o meno.

Il mio viaggio nell’astrofotografia “seria” è cominciato con una SkyWatcher ED80 e una DSLR Canon 350d e, mentre oggi (spoiler alert!) utilizzo una camera astronomica raffreddata e monocromatica, con filtri a banda stretta (e ruota portafiltri elettronica, e autofocuser, … ma ricordate da dove scatto?), uso ancora una DSLR quando sono in viaggio, e capisco perfettamente le persone che desiderano soluzioni meno complesse – e costose – e sono felici di acquisire tutti i colori in un singolo scatto, sia esso con una DLSR o un CMOS One Shot Colour (OSC).

Quindi, ho preso un treppiede, la mia Canon 650d modificata Full Spectrum (il che significa che tutti i filtri di serie sono stati rimossi e non può più scattare foto “normali”) con un obiettivo Jupiter 135 f 3.5 e un reticolo Paton Hawksley Education ltd Star Analyzer 100, ho stampato in 3D un semplice adattatore per tenere il reticolo davanti all’obiettivo; poi ho guardato fuori dalle mie finestre e ho affrontato alcuni dei lampioni che mi stavano facendo impazzire.

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Questo è il setup che ho utilizzato per acquisire gli spettri per confrontare i vari filtri: in questa configurazione, la lunghezza focale di 135 mm e i pixel da 4,3um della DSLR producono una risoluzione spettrale di 0,316 nm/px (leggi nanometri per pixel). Più che sufficiente per confrontare i diversi filtri che ho accumulato in questi anni!

Le due immagini successive mostrano la posizione di alcuni lampioni di giorno e di notte. Alcuni di loro utilizzano ancora vecchie luci al mercurio e altri sono già stati convertiti ai LED.

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L’immagine successiva mostra lo spettro della luce del mercurio, acquisito con il filtro Astronomik L2: la luce infrarossa è stata soppressa. Sono raffigurati due livelli di esposizione, per mostrare sia i picchi molto evidenti (in alto) sia la componente continua molto più contenuta (in basso). Oltre a un piccolo contributo blu, l’emissione principale è tra il verde e l’arancione, che produce una tonalità molto calda.

Ovviamente, usando un filtro che elimini queste lunghezze d’onda, l’effetto inquinante di questa luce può essere facilmente ridotto.

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Ed ora, lo spettro di un lampione a LED, anche questo acquisito con il filtro Astronomik L2 per rimuovere la luce infrarossa. Stesse due esposizioni di prima, anche se l’intensità non può essere confrontata direttamente, in quanto proveniente da due lampade diverse.

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L’immagine successiva mostra lo spettro e l’istogramma di un lampione a LED: sull’asse orizzontale la lunghezza d’onda, su quello verticale l’intensità per ogni colore/lunghezza d’onda

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E ora, il primo risultato: questo è un confronto tra il vecchio e il nuovo spettro dei lampioni, questo è ciò contro cui gli astrofotografi urbani devono lottare.

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La prima evidenza è: la vecchia luce a vapore aveva delle righe di emissione molto ben definite, mentre quella nuova a LED ha un picco nel blu ma poi un’emissione continua dal verde intenso all’infrarosso. Ciò rende il LED molto più difficile da contrastare con i filtri.

E infine – per ora – la prossima immagine raccoglie le “bande passanti” di diversi filtri commerciali per la soppressione dell’inquinamento luminoso.

In alto ho riportato le principali righe di emissione interessanti, l’elemento chimico, il loro colore e le lunghezze d’onda. Quando riprendiamo le nebulose, siamo interessati solo a: Ossigeno (colore verde acqua), Idrogeno (infrarosso, con una componente verde acqua molto minore) e Zolfo (di nuovo, infrarosso). Nel grafico sono rappresentati anche il mercurio (HG) e il sodio (Na).

A destra le marche e le tipologie a confronto.

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Ogni riga di questa immagine è stata ottenuta riprendendo la vista panoramica con i filtri nel treno ottico e confrontando la risposta alla luce dei LED, per misurare quali parti dello spettro continuo siano maggiormente bloccate (o ridotte). L’Optolong L-eXtreme è solo stimato, perché la sua banda estremamente stretta (7 nm) non può essere riprodotta fedelmente a causa delle lampade troppo vicine alla fotocamera (e, dall’analisi seguente, la sua banda passante potrebbe essere piuttosto imprecisa in questa immagine ). Il nuovo Optolong L-Ultimate, con la sua doppia banda passante da 3 nm, sarebbe simile ma avrebbe solo la metà circa di quella larghezza.

Un ulteriore test potrebbe essere eseguito utilizzando una stella bianca o il nucleo di una galassia (per ottenere un’approssimazione ancora migliore di uno spettro continuo), ma mi sembra che l’immagine qui sopra mostri già chiaramente le differenze, in termini qualitativi se non quantitativi.

Dalla selezione sopra, possiamo distinguere chiaramente tre tipi di filtro:

UV-IR cut: come l’Astronomik L2, questi filtri sono utilizzati per ridurre la luce “invisibile” e per rendere un’immagine simile alla visione umana con sensori la cui risposta spettrale si estende nell’UV e nell’IR. Lo scopo principale è sopprimere le frequenze che non sono focalizzate correttamente attraverso un sistema di lenti. NON si tratta di filtri anti inquinamento luminoso!

Filtri a banda larga: sono concepiti per contrastare l’inquinamento luminoso rimuovendo solo alcune lunghezze d’onda associate alle emissioni artificiali. Purtroppo sono molto efficienti con le “vecchie” luci fashion, ma lasciano molto a desiderare – lasciano passare molta luce – con quelle a LED. Questi filtri applicano un taglio morbido, consentendo un aumento del contrasto ma mantenendo i colori delle stelle (beh, più o meno).

Filtri a banda stretta: questi filtri utilizzano l’approccio della forza bruta! TUTTA la luce viene filtrata, ad eccezione delle lunghezze d’onda di emissione delle nebulose. Ciò consente un enorme aumento del contrasto, ma il colore delle stelle va sostanzialmente perso. E ci si può dimenticare di riprendere qualsiasi galassia, ovviamente. Esistono diversi tipi di filtri, con larghezze di banda decrescenti fino a 3 nm: più stretta la banda, maggiore risulta il contrasto. Ma nessuno ci regala nulla: le stelle verranno di conseguenza attenuate e il loro colore alterato.

L’immagine successiva confronta il filtro UV/IR Cut e quelli a banda larga con i due spettri di luce: chiaramente il filtro L2 non fornisce alcun tipo di riduzione dell’inquinamento luminoso, mentre è evidente che l’Optolong L-Pro e l’Hutech IDAS D1 sono stati progettati per gestire la luce del mercurio (e del sodio), e lo fanno molto bene, poiché rimuovono solo queste lunghezze d’onda. Hanno un comportamento molto simile, con due differenze principali, descritte di seguito.

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L’Optolong L-Pro ha una banda passante più ampia nell’infrarosso, mentre l’IDAS D1 ha un taglio più netto subito dopo la riga dello zolfo. Questo suggerisce una tonalità più “rossastra” nel filtro Optolong. Il D1 rimuove anche leggermente di più il profondo blu e UV.

Ma, cosa più notevole, l’L-Pro trasmette un po’ di giallo, mentre il D1 è MOLTO più selettivo su queste frequenze.

Da tutto quanto sopra, la luce delle stelle è meglio conservata dall’Optolong rispetto al filtro Hutech, che sostanzialmente rimuove tutto il colore giallo; ma questo al costo di un effetto di filtraggio inferiore e di una dominante rossa, mentre il D1 è fondamentalmente neutro dal punto di vista cromatico e non richiede quasi nessun bilanciamento del colore in fase di elaborazione.

Entrambi i filtri possono essere impiegati per ridurre l’inquinamento in zone non critiche; dove l’IL non pregiudica troppo la vista del cielo, la scelta dell’uno rispetto all’altro è principalmente questione di gusto soggettivo (e di budget!). Possono anche essere impiegati per visualizzare le galassie, ma sfortunatamente entrambi sono inadatti a gestire un forte inquinamento luminoso.

Beh, basta teoria, passiamo alla pratica: quello che segue è un vero e proprio test su una nebulosa, il target principale gestito da tutti i filtri.

L’immagine successiva confronta un’esposizione di 60” sulla Nebulosa di Orione, scattata con tutti i filtri sopra descritti; stessa ora, stessa posizione, stesso setup, nessuna elaborazione: a parità di condizioni, questa immagine ci dice quali filtri migliorano maggiormente la qualità dell’immagine e come lo fanno.

Si tenga presente che, al momento di questo primo confronto, non avevo ancora a disposizione un Optolong L-eXtreme. E prima di riceverlo, ho venduto lo Sharpstar 72ED che è stato utilizzato in questo primo set di immagini, quindi, non avendo modo di aggiungere l’eXtreme al confronto, non è incluso nel test in questa fase.

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Dall’alto: Astronomik L2 e Optolong L-Pro, IDAS D1 e IDAS V4, Optolong L-eNhance e Astronomik H-Alpha (12 nm), Astronomik OIII (12 nm) e Explore Scientific OIII

Un primo risultato è chiaramente visibile: i filtri a banda stretta forniscono un’immagine decisamente più scura in modo che il target non venga attenuato, rendendo tuttavia lo sfondo molto meno invadente.

Ma, mentre il confronto di cui sopra ci fornisce una prima idea del miglioramento, questo NON è il modo in cui dovrebbero essere impiegati i filtri! In effetti, sotto determinate ipotesi, non utilizzeremo lo stesso tempo di esposizione indipendentemente dal filtro scelto: se lo sfondo viene attenuato, possiamo aumentare il tempo di esposizione e catturare più fotoni, consentendo di evidenziare dettagli più deboli.

Quindi, ripetiamo il confronto aumentando l’esposizione per filtri più stretti, e vediamo il risultato.

Ho ripreso una serie di pose da 30″, 60″, 120″ e 180″ con ciascun filtro. L’immagine successiva confronta i fotogrammi non elaborati a diverse esposizioni cercando di avere livelli di sfondo compatibili tra i diversi filtri. I filtri più stretti consentono esposizioni più lunghe e forniscono maggiori dettagli sulla nebulosa.

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Da questo confronto, l’Optolong L-eNhance sembra la soluzione più promettente da un sito pesantemente inquinato.

Dopo aver ricevuto un L-eXtreme, ho effettuato un confronto approfondito tra questi due filtri, con una sorpresa piuttosto sorprendente! Qui sotto, la nebulosa Nord America è stata acquisita con i due filtri Optolong a banda stretta: negli scatti con l’eNhance il target era più basso sul centro di Roma, e la luna era alta in entrambi i casi: sono rimasto scioccato quando ho visto le immagini appena riprese (con solo autostretching di PixInsight). Tuttavia, effettuata l’elaborazione, non c’è quasi differenza tra i risultati.

Entrambe le immagini sono l’integrazione di 14 pose da 240” @ ISO1600. Dark frames, nessun flat field. Tutte le successive immagini sono state acquisite con un TecnoSky 60 APO (rifrattore 60mm f6, FPL53 / Lantanio) con spianatore 1x.

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Nebulosa Nord America: L-eNhance a sinistra, L-eXtreme a destra. La riga superiore mostra solo un autostretch, quella inferiore l’immagine completamente elaborata

Ho quindi ripreso la nebulosa di Orione, e il suo nucleo luminoso ha limitato la quantità di autostretch mostrando un’immagine migliore già prima dell’elaborazione: qui, L-eXtreme mostra il suo miglior bilanciamento del colore rispetto a L-eNhance che ha una dominante verde. Eppure, anche in questo caso, le immagini elaborate sono molto simili, e preferisco addirittura quella dell’eNhance dove l’OIII nella nebulosa Running Man è più visibile.

Entrambe le immagini sono l’integrazione di sole 5 pose da 180” a ISO1600, corrette con Darks e Flats. L’oggetto è luminoso, ma il risultato non è affatto male per soli 15 minuti da una città molto inquinata!

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Nebulosa di Orione: L-eNhance a sinistra, L-eXtreme a destra. La riga superiore presenta solo un autostretch, quella inferiore l’immagine completamente elaborata

Le tabelle successive riportano le statistiche di una patch di sfondo per entrambe le immagini prima e dopo il bilanciamento dei canali: si conferma il miglior bilanciamento del colore dell’eXtreme, così come lo sfondo ben più scuro.

Per sfruttare al meglio questo filtro sono necessarie acquisizioni decisamente più lunghe.

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Il confronto successivo è stato fatto tra pose acquisite con L-eNhance a 180” e L-eXtreme a 300”, cercando di sfruttare la banda passante più stretta e lo sfondo più scuro di quest’ultimo filtro. Il risultato sulla Crescent non è molto diverso, ma la nebulosità circostante è meglio evidenziata dall’eXtreme: questo è il risultato principale di questo confronto, che mostra il vantaggio di pose più lunghe.

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Crescent Nebula: Enhance (pose da 180″) a sinistra, Extreme (pose da 300″) a destra. La riga superiore presenta solo un autostretch, quella inferiore l’immagine completamente elaborata

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Confronto M1: L-eNhance e L-eXtreme, diverse lunghezze di esposizione

Sorpreso dalla migliore visibilità della nebulosa Running Man e dall’apparente maggiore dettaglio in M1, dopo una discussione con Luca di TS Italia Astronomy, ho dato uno sguardo più dettagliato alla risposta spettrale dei due filtri dichiarata dal produttore. Ora, tutto questo deve essere preso con le pinze perché:

  • Questi grafici potrebbero non avere una risoluzione sufficiente per un’analisi precisa

  • La variazione da un esemplare all’altro potrebbe compromettere l’accuratezza: questo si applica sia alla scheda tecnica (dichiarazione esplicita: This curve is only for reference, and is not used as the final product data) sia al MIO SPECIFICO campione di L-eXtreme…

Tuttavia, ho sovrapposto le due figure delle bande passanti (immagini estratte direttamente dal sito Optolong) ed ecco alcune considerazioni:

  • Il filtro L-eNhance sembra avere una trasmissione più alta, circa il 96%, mentre l’eXtreme mostra solo il 93%. Il filtro preserva leggermente meglio il segnale: questo potrebbe essere spiegato dal processo di produzione più semplice per il filtro con larghezza di banda maggiore.

  • Inoltre, le due immagini sono state coregistrate e tutte le altre righe di emissione corrispondono perfettamente, ma quella dell’OIII mostra un disallineamento. Questa potrebbe essere la risposta principale: l’Ossigeno III emette in una riga principale a 500,7 nm e una secondaria a 495,9 nm (4959 angstrom e 5007 angstrom). Eppure l’immagine L-eXtreme mostra la linea leggermente a destra di quella L-eNhance, il che potrebbe significare che il primo ha come target SOLO la linea 500.7, mentre il secondo trasmette ENTRAMBE le linee, in aggiunta a quella H-Beta a 486 nm.

Infatti, con la sua larghezza di banda di 7 nm centrata su 500.7, la limite inferiore della banda passante dell’eXtreme sarebbe a 497.2, quindi la linea 495.9 sarebbe fortemente attenuata.

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La domanda sembra essere se lasciare passare la linea secondaria, insieme a una quantità leggermente maggiore di inquinamento luminoso (e H-Beta, ovviamente) abbia un vantaggio. E dalle immagini reali la risposta è SI per i due filtri che ho testato; e intendo proprio i due ESEMPLARI che ho testato, poiché questo risultato potrebbe variare a causa delle tolleranze di produzione o in caso di inquinamento luminoso ancora maggiore.

In sostanza, il miglioramento del fondo ottenuto dalla banda passante più stretta non sembra compensare il segnale perso dal filtro L-eXtreme, almeno nelle per le mie condizioni di cielo.

Un’altra spiegazione potrebbe essere che ciò che appare nell’immagine è il minuscolo contributo di H-Beta, una lunghezza d’onda che viene trasmessa dall’eNhance ma eliminata dall’eXtreme. Un test con questo tipo di filtro risponderebbe a questa domanda, ma io non l’ho effettuato (non ho un H-Beta in quanto solo pochissimi oggetti hanno un contributo H-Beta significativo, per il resto molto marginale).

Ad ogni modo, qualunque sia la spiegazione, il risultato mostra la presenza di due effetti opposti:

  • Il segnale addizionale (fisso) passato dall’eNhance, sia esso OIII o H-Beta: questo non varia con il livello di inquinamento luminoso ma è costante e dipende solo dal rapporto tra la riga dell’OIII a 501 nm e quella a 496 nm; la migliore informazione che ho trovato è che la riga a 496 è tra un terzo e la metà dell’intensità della linea principale a 501.

  • D’altra parte, il miglioramento del contrasto fornito dalla larghezza di banda ridotta del filtro L-eXtreme dipende dall’inquinamento luminoso del luogo specifico: è molto limitato per un luogo buio e aumenta linearmente con il livello di sfondo. Dal datasheet, la larghezza di banda OIII dell’eXtreme è circa il 25% di quella dell’eNhance (che è già piuttosto stretta!).

Mancando qualsiasi dato quantitativo, la figura successiva spiega lo stato in termini qualitativi: esiste un valore per il quale inquinamento luminoso e perdita di segnale si compensano completamente. Per un cielo migliore di questo, L-eNhance è la scelta migliore, altrimenti la selettività dell’L-eXtreme (o anche L-Ultimate) diventa un guadagno.

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Diverse recensioni e segnalazioni online menzionano una maggiore presenza di aloni con l’eXtreme che con l’eNhance: non posso affermarlo, sulla base dei miei test, poiché nelle mie immagini (ad esempio quella dell’M42, raffigurata sopra) non compare alcun alone. Ma non ho testato specificamente i filtri su stelle molto luminose solo per misurare quel comportamento.

Conclusioni:

La scelta dei filtri dovrebbe partire dalle condizioni di inquinamento luminoso dei siti di osservazione: non esiste un filtro per tutti gli usi. E, mentre la riduzione del segnale trasmesso porta a un maggiore contrasto sulle nebulose, rimuove anche il colore delle stelle e sostanzialmente inibisce l’imaging delle galassie.

Ricordando che il focus è solo sulle nebulose (le galassie non beneficiano di questi filtri), proporrò le mie soluzioni nel seguito, ma alcuni elementi possono già essere evidenziati:

  • I filtri a banda stretta producono il massimo aumento di contrasto per far fronte a siti fortemente inquinati e l’esperienza mostra che l’H-alfa è la banda meno impattata dall’IL: ma quando si utilizza una camera OSC (one shot colour) basata su una matrice di Bayer, i filtri Ha hanno un grande svantaggio; solo un pixel su quattro è sensibile al rosso, quindi questa configurazione è molto inefficiente. In questo caso è fortemente consigliato un filtro multibanda, i filtri H-Alpha sono impiegati al meglio con sensori monocromatici.

  • Un’altra considerazione è relativa ai filtri a banda stretta: scurendo lo sfondo, questi filtri, consentono di utilizzare esposizioni più lunghe per evidenziare i dettagli più deboli; ma, per sfruttare al meglio questa opportunità, la montatura deve inseguire accuratamente per questo tempo di esposizione; inoltre, esposizioni più lunghe aumentano anche il rumore termico e le fotocamere raffreddate possono gestirlo meglio rispetto alle Reflex.

  • Un ulteriore elemento da tenere in considerazione: più la banda è stretta, più l’immagine sarà scura, quindi inquadrare il target e mettere a fuoco usando L-eXtreme (e sono sicuro che L-Ultimate sarà anche peggio!) È DAVVERO DIFFICILE. Solo stelle molto luminose possono essere utilizzate per questo scopo con una maschera di Bathinov.

I filtri a doppia banda (es. Optolong L-eNhance, L-eXtreme o L-Ultimate) possono essere utilizzati anche con sensori monocromatici: in questo caso forniscono un’immagine di “luminanza” (sempre in scala di grigi) raccogliendo H-Alpha ed OIII, che può essere integrata con acquisizioni di colore separate. Il vantaggio rispetto ai tre colori separati è che il canale di luminanza raccoglie tutta la luce insieme e può migliorare il rapporto segnale/rumore mentre le singole bande possono quindi essere utilizzate solo per colorare l’immagine.

Quindi, alla fine, la mia scelta è: sensore monocromatico con filtri a banda stretta (HSO) dal centro città, Monocromatico con filtri a banda larga e LRGB PIÙ una DSLR Full Spectrum e Hutech IDAS D1 da cieli buoni. Ma, ovviamente, ciò richiede nel mio caso due configurazioni totalmente diverse (che poi associo anche a due diversi telescopi, montature, ecc.). Ma, focalizzandoci su sensori OSC (ovvero sensori a colori con matrice di Bayer), qual è il miglior compromesso?

La soluzione proposta:

  • Riprendendo solo da siti a basso inquinamento luminoso Hutech IDAS D1 (o L-Pro, la mia seconda scelta)
  • Se si effettuano riprese solo da siti con inquinamento luminoso medio Optolong L-eNhance
  • Se si riprende solo da siti con inquinamento luminoso alto/molto alto Optolong L-eNhance o L-eXtreme
  • Se si effettua l’imaging sia da siti ad alto che a basso livello di inquinamento, L-eNhance è la scelta più flessibile, altrimenti è possibile utilizzare due filtri: uno tra Optolong L-eNhance o L-eXtreme più Hutech IDAS D1 (o L-Pro in alternativa al D1).

Disclaimer: tutti i filtri utilizzati in questo test sono i miei, acquistati nel tempo per far fronte all’inquinamento luminoso, ad eccezione degli Optolong L-eNhance e L-eXtreme che ho preso in prestito da TS Italia Astronomy. Non ho ricevuto alcun pagamento per questo report e non ho pagato i filtri, che sono stati rispediti al termine del test.

Tutte le considerazioni contenute in questo test sono solo mie, e nessuna modifica è stata richiesta da TS Italia Astronomy in cambio del prestito dei filtri.

Infine, nel vasto oceano di altre soluzioni disponibili sul mercato, sembra esserci un’alternativa molto interessante che non ho testato: l’IDAS NBZ sembra avere una risposta simile agli Optolong L-eNhance e L-eXtreme, e potrebbe essere ancora meglio, ad un costo molto simile all’eXtreme.

Fotografiamo la superficie di Venere!

Venere sta dominando queste serate di fine inverno e dominerà le albe di tutta la primavera, quindi non possiamo non parlare di questo faro del cielo. Non sarà però il solito post che ci insegna a osservare le solite fasi di Venere, anzi, tutt’altro!

Il nostro gemello, con dimensioni e massa molto simili, è in realtà una vera e propria Nemesi: l’atmosfera è decine di volte più densa, composta quasi per intero da anidride carbonica e con minacciose nuvole di acido solforico. Sulla superficie la temperatura, di giorno come di notte, ai poli come all’equatore, è stabile, da chissà quanto tempo, allo stratosferico valore di +460°C. Venere è un forno inospitale per qualsiasi forma di vita e per di più la sua superficie è del tutto nascosta alla nostra vista da chilometri di nuvole che non lasciano mai neanche uno spiraglio ai nostri telescopi.

Per centinaia di anni dopo l’invenzione del telescopio, nessun essere umano è riuscito a capire cosa si nascondesse sotto le nuvole venusiane, fino a quando negli anni ‘60 le prime sonde sovietiche giunsero sull’inospitale superficie.

La mappatura completa di Venere è stata effettuata dalla sonda Magellano che negli anni ’80, grazie a un radar, ha composto la prima mappa geologica e altimetrica del pianeta. Anche se noi non lo possiamo vedere, Venere ha crateri da impatto, montagne, pianure, colline, scarpate e valli. Ma siamo sicuri che non ci sia alcun modo per sbirciare la superficie venusiana senza dover friggere a bordo di un’improbabile astronave che tenta di superare quelle fitte nuvole? La Natura in questo caso ci dà una grossa mano.

La superficie di Venere, a causa dell’enorme temperatura, emette radiazione elettromagnetica, proprio come un pezzo di ferro rovente. Con un picco verso i 4 micron ma una coda di emissione che arriva anche a 800 nm, questa radiazione termica riesce a uscire in parte dalla spessa atmosfera. Attorno alla lunghezza d’onda di 1000 nm (1 micron), infatti, l’atmosfera venusiana diventa trasparente e il calore della superficie può uscire nello spazio ed essere quindi osservato. La radiazione termica di Venere è molto più debole della luce solare riflessa dall’alta atmosfera ma se ci concentriamo sul lato non illuminato quando il pianeta mostra una fase molto sottile, allora l’impossibile diventa possibile.

Con un filtro infrarosso da un micron (1000 nm) e una camera planetaria, meglio se monocromatica, o una camera CCD per profondo cielo e un telescopio da almeno 15 cm su montatura motorizzata, è possibile fare una serie di fotografie a lunga esposizione, bruciando la falcetta di Venere e lasciando che la più debole radiazione termica del lato non illuminato venga alla luce. Non potremo mai osservarla all’oculare del telescopio perché i nostri occhi non sono sensibili agli infrarossi, ma abbiamo appena scritto la ricetta per una fotografia molto speciale.

La tecnica migliore prevede di acquisire immagini a una focale non troppo elevata, poiché si tratta a tutti gli effetti di una ripresa deep-sky e non più in alta risoluzione. Focali comprese tra i 2 e i 3 metri sono ottime per questo scopo. Dobbiamo aumentare l’esposizione e/o il guadagno, senza curarci della luminosità della parte illuminata.
La magnitudine superficiale del lato non illuminato è di circa 12 su ogni secondo d’arco quadrato, circa come quella del pianeta Nettuno e molto più alta di ogni oggetto del profondo cielo. Sebbene quindi si possa osservare la debole radiazione anche con tempi di posa brevi, di circa 0,2 secondi, per avere un ottimo segnale è meglio fare tante esposizioni con tempi compresi tra 2 e 5 secondi. Se la montatura è ben stazionata al polo non si avranno neanche problemi di inseguimento. Più frame si acquisiscono e meglio è, tanto non ci sono problemi di rotazione del pianeta. L’unica limitazione è rappresentata dal fatto che è necessario fare una ripresa del genere con il Sole tramontato e con il fondo cielo scuro.

Luce cinerea? Sì, ma di Venere e non è riflessa!

Luce cinerea? Sì, ma di Venere e non è riflessa!

Se siamo bravi e pazienti e magari disponiamo di una camera CCD per le riprese del profondo cielo, oltre al suggestivo chiarore della parte non illuminata, che renderà Venere simile alla luce cinerea lunare, potremo mettere in evidenza anche strutture superficiali. Il principio è semplice: le montagne e gli altopiani avranno temperature minori rispetto alle valli e alle grandi pianure, quindi emetteranno meno radiazione termica.

In effetti, con esposizioni lunghe, telescopi da almeno 15 centimetri, una fase della parte non illuminata inferiore al 25%, un cielo ormai scuro e acquisendo qualche centinaio di frame, è possibile mostrare la traccia inequivocabile di dettagli superficiali. Questa è una piccola rivoluzione per noi: con la nostra strumentazione possiamo fotografare la superficie di Venere, in barba a tutti quei tossici e infernali strati nuvolosi!

Non ci credete? E allora osservate questa foto che ritrae i principali dettagli superficiali, che ho composto con le immagini ottenute nel 2009 e il 18-19 febbraio scorsi. Questo è l’aspetto del nostro pianeta gemello e questo è quello che si potrà vedere da qui a pochi giorni prima della congiunzione con il Sole del 23 Marzo. Ma poi, all’alba, i giochi potranno ricominciare di nuovo e almeno fino alla metà di maggio potremo ancora cacciare questa elusiva “luce cinerea” venusiana con i nostri strumenti. Non lasciamoci sfuggire questa ghiotta occasione, altrimenti dovremo aspettare più di un anno per riprovare l’impresa!

Dettagli superficiali di Venere

Dettagli superficiali di Venere

 

Un filtro indispensabile in fotografia: l’infrarosso

Chiunque si diverta a fare foto ai pianeti, dai neofiti ai più esperti, deve fare i conti con un nemico comune: la turbolenza atmosferica. Si possono possedere gli strumenti più potenti, padroneggiare le tecniche più sopraffine, utilizzare le camere più sensibili, ma la turbolenza atmosferica è così democratica che non guarda in faccia nessuno e ci ricorda, fin troppo spesso, quanto in astronomia ogni successo debba essere sudato.

Con Marte ancora padrone dei nostri cieli, ma anche molto basso sull’orizzonte, le serate con buon seeing, ovvero con bassa turbolenza, in cui ottenere scatti ad alta risoluzione, saranno davvero scarse. Anche la Luna si presenterà generalmente più bassa sull’orizzonte rispetto alla stagione primaverile o invernale, con il rischio concreto di fare la fine del dio della guerra: entrambi affogati nel ribollire atmosferico.

In fotografia planetaria possiamo arginare l’effetto nefasto della turbolenza atmosferica con un filtro che a volte fa davvero miracoli: un passa infrarosso, detto IR-pass.

Tutti i sensori fotografici sono sensibili alle lunghezze d’onda infrarosse. In generale questa parte dello spettro viene eliminata usando il classico filtro taglia infrarosso, ma quando la turbolenza è alta bisogna ricorrere a misure drastiche: non più un filtro taglia infrarosso ma un PASSA infrarosso, in modo da lavorare alle lunghezze d’onda invisibili al nostro occhio ma alle quali la turbolenza migliorerà, a volte anche molto. Con un filtro passa infrarosso ci si dovrà accontentare di immagini in bianco e nero, che però potremo “colorare” con una ripresa a colori ottenuta poco prima o dopo, se proprio non vogliamo rinunciare all’effetto cromatico, anche se questa fosse di scarsa qualità.

Un filtro IR-pass su Marte ha anche il privilegio di aumentare di molto il contrasto dei dettagli superficiali: il pianeta si arricchirà di chiaroscuri che prima, sul monitor, non si sarebbero visti.

marte

Quando il seeing non è perfetto, il filtro passa infrarosso su Marte può fare la differenza tra vedere e non vedere dettagli superficiali.

 

Nel caso della Luna, un filtro passa infrarosso riduce leggermente i contrasti ma questo non è un danno, anzi, è un vantaggio quando si riprendono zone vicine al terminatore che spesso presentano forti differenze di luminosità. I bordi dei crateri saranno più difficili da saturare e la ripresa fotografica ne guadagnerà molto.

Il filtro passa infrarosso si può usare solo in fotografia e non in visuale e solo su dispositivi che non possiedono incorporato un filtro taglia infrarosso, come il caso delle reflex non modificate. Con camere planetarie come le ASI, sia a colori che monocromatiche, e in generale con ogni camera CCD per astronomia, il problema non si pone e questo filtro potrebbe salvare una serata fotografica altrimenti rovinata.

I sensori digitali sono sensibili fino a 1000 nm di lunghezza d’onda, ma con la sensibilità che diminuisce progressivamente a partire dai 700 nm, lunghezza d’onda alla quale inizia, convenzionalmente, l’infrarosso. Di conseguenza, nonostante esistano in commercio filtri infrarossi di diverse bande passanti, il consiglio è di iniziare con uno più facile da domare, ovvero che abbia una banda passante che inizia tra i 680 e i 700 nm.

Non è finita qui. Nell’infrarosso, inoltre, il fondo cielo diventa così scuro che è possibile persino fare fotografie dei corpi del Sistema Solare anche di giorno. L’emblema di questa rivoluzione è rappresentato dalla Luna, che pochi giorni dopo la fase nuova mostra con il massimo contrasto regioni altamente spettacolari, come il grande mare Crisum. Se aspettiamo di fare fotografie con il Sole sotto l’orizzonte, il nostro satellite sarà troppo basso per garantirci una risoluzione accettabile. Il problema viene quindi risolto facendo foto di giorno, con la Luna alta sull’orizzonte e con il filtro passa infrarosso che ci regalerà lo straordinario effetto di una normale ripresa notturna e mostrerà dettagli lunari che pochi osservatori hanno ripreso con tale dettaglio.

L’occultazione di Venere da parte della Luna ripresa il 18 giugno 2007 alle 17:54 del pomeriggio. Il filtro passa infrarosso da 700 nm ha aumentato in contrasto come se la foto fosse stata fatta di notte.

L’occultazione di Venere da parte della Luna ripresa il 18 giugno 2007 alle 17:54 del pomeriggio. Il filtro passa infrarosso da 700 nm ha aumentato in contrasto come se la foto fosse stata fatta di notte.

Un filtro passa infrarosso è il grande segreto che ci permetterà anche di fare ottime fotografie di Mercurio, il piccolo pianeta che purtroppo non si allontana più di 20° dal Sole. Ogni volta che proveremo a osservarlo o fotografarlo di notte lo troveremo bassissimo sull’orizzonte e privo di qualsiasi dettaglio. Con un filtro infrarosso, invece, il pianeta diventa visibilissimo anche di giorno, quando si trova alto sull’orizzonte. E’ in queste condizioni che ho trovato le migliori occasioni per fotografarlo in alta risoluzione e scoprire che anche questo elusivo corpo celeste mostra fini e interessantissimi dettagli, che troppo spesso vengono nascosti dalla turbolenza atmosferica.

Mercurio ripreso di giorno, quando è alto sull’orizzonte e con un filtro passa infrarosso: questo è l’unico metodo per ottenere immagini in alta risoluzione di questo elusivo pianeta.

Mercurio ripreso di giorno, quando è alto sull’orizzonte e con un filtro passa infrarosso: questo è l’unico metodo per ottenere immagini in alta risoluzione di questo elusivo pianeta.

Non solo pianeti, a dire la verità.

Un filtro passa infrarosso permette anche di spingerci verso un campo entusiasmante della fotografia astronomica del cielo profondo. A queste lunghezze d’onda, infatti, molti oggetti, in particolare le nebulose a emissione, cambiano aspetto: le polveri, presenti in grande quantità, diventano quasi trasparenti e nelle fotografie compariranno decine, centinaia di piccole stelle che alla lunghezza d’onda del visibile non saranno mai visibili.

Ci sono vaste zone di cielo in cui l’assorbimento causato dalle polveri presenti nella nostra Galassia oscura tutto quello che c’è dietro, tra cui altre galassie. È proprio alla lunghezza d’onda dell’infrarosso che il compianto Professore Paolo Maffei scoprì due galassie nella costellazione di Cassiopea, tanto vicine quanto invisibili normalmente a causa del forte assorbimento della Via Lattea. Alle lunghezze d’onda infrarosse le galassie Maffei diventano tra gli oggetti extragalattici più brillanti del cielo e possono essere fotografate anche con modesti strumenti da 70-80 mm di diametro. Possiamo quindi dire che un filtro infrarosso è un potente fendinebbia cosmico, che consente di vedere anche oltre l’impenetrabile cortina di polveri che permea gran parte del cielo, soprattutto nei pressi del disco galattico.

Maffei 1, a sinistra, e Maffei 2, a destra, sono galassie impossibili da notare alle lunghezze d’onda visibili, ma nell’infrarosso appaiono magicamente dalle dense polveri della Via Lattea.

Maffei 1, a sinistra, e Maffei 2, a destra, sono galassie impossibili da notare alle lunghezze d’onda visibili, ma nell’infrarosso appaiono magicamente dalle dense polveri della Via Lattea.

Se ci piace sperimentare e abbiamo a disposizione un telescopio da almeno 20 centimetri, possiamo acquistare, oltre al passa-infrarosso da 680-700 nm, anche un filtro più “spinto” da 800 o addirittura 900 nm. A queste lunghezze d’onda il cielo diurno diventa così scuro che è persino possibile fotografare al telescopio tutte le stelle che vedremmo di notte a occhio nudo, i satelliti di Giove e persino qualche brillante cometa che si avvicina molto alla nostra stella e che in condizioni normali non sarebbe mai visibile.

Incredibile come l’astronomia, anche amatoriale, possa sorprendere, vero? E pensare che tutto dipende dalla nostra voglia di esplorare e provare. Avete altre idee per usare con profitto un filtro passa infrarosso?

Giove e i suoi satelliti, di giorno, grazie all’uso di un filtro passa infrarosso molto spinto, addirittura da 1000 nm (1 micron). Non serve spingere la banda così in là: risultati del genere si possono ottenere anche con filtri da 700-800 nm.

Giove e i suoi satelliti, di giorno, grazie all’uso di un filtro passa infrarosso molto spinto, addirittura da 1000 nm (1 micron). Non serve spingere la banda così in là: risultati del genere si possono ottenere anche con filtri da 700-800 nm.

 

Incredibile ma vero: un filtro passa infrarosso diminuisce così tanto la luminosità del fondo cielo da rendere visibili persino brillanti comete a pochi gradi dal Sole. In questo caso stiamo osservando la cometa McNaught del 2007.

Incredibile ma vero: un filtro passa infrarosso diminuisce così tanto la luminosità del fondo cielo da rendere visibili persino brillanti comete a pochi gradi dal Sole. In questo caso stiamo osservando la cometa McNaught del 2007.