Come fotografare una bellissima Mineral Moon

La Luna è l’oggetto celeste più fotografato e fotogenico. A piccoli o alti ingrandimenti, di notte e persino di giorno, in fase sottile o quando è quasi piena, è un obiettivo che garantisce sempre un grande spettacolo.

L’unico problema del nostro satellite sono i colori. Illuminato dalla luce del Sole, quel pezzo di roccia che ci orbita intorno da 4,5 miliardi di anni mostra una colorazione priva delle bellissime sfumature che invece possiamo trovare facilmente su Marte, Giove, Saturno, per non parlare degli oggetti del profondo cielo. La sua superficie scura, dalla brillanza simile a quella dell’asfalto appena steso, sembra essere priva di quei contrasti cromatici che incantano i nostri occhi e ci consegnano un Universo pieno di colori.

La Luna ha dei colori? Ha tonalità reali? E nel caso, come possiamo superare le limitazioni dei nostri occhi e osservare queste sfumature?
La risposta è affermativa e prevede di applicare una semplice tecnica chiamata Mineral Moon. Prima, però, dobbiamo capire quali sono i veri colori della Luna, se ne ha.

La superficie selenica è composta da rocce simili a quelle terrestri e, proprio come qui sulla Terra, ci sono zone in cui la composizione chimica può cambiare, a seconda del tipo di minerali prevalenti. Ogni minerale ha una colorazione tipica, anche se questa è spesso molto più tenue di quella che può percepire l’occhio. Se varia l’abbondanza di un certo minerale, è allora scontato pensare che possa cambiare, in modo leggero, il colore. Sulla Terra possiamo capire meglio la situazione: le zone del deserto del Sahara sono rosate, mentre quelle del deserto australiano appaiono rosse. Sulla Luna accade una cosa simile, anche se le differenze cromatiche sono molto tenui e visibili solo attraverso un’opportuna tecnica fotografica.

La Mineral Moon è una tecnica molto semplice di fotografia che prevede di catturare immagini a grande campo del nostro satellite con sensori a colori e di applicare una semplice tecnica di elaborazione che ci permetterà di estrapolare la grande quantità di informazione contenuta nelle nostre fotografie.

 

La strumentazione

La strumentazione adatta è costituita da una normale reflex, anche non modificata, al fuoco diretto di un telescopio che NON sia un rifrattore acromatico, poiché questi soffrono di cromatismo. Tutti i catadiottrici e i telescopi Newton sono perfetti allo scopo (e anche i rifrattori apocromatici veri, cioè con almeno 3 lenti). Non importa il diametro perché non siamo interessati, almeno all’inizio, a una stratosferica risoluzione. Le foto più spettacolari, infatti, si ottengono includendo tutto il disco lunare nel campo inquadrato, magari in prossimità della Luna piena, così sappiamo anche cosa fare in quelle notti di solito poco prolifiche per le osservazioni astronomiche.

 

Tecnica di ripresa

L’acquisizione delle immagini non è dissimile da quella necessaria per fotografare i pianeti. Si catturano tanti frame, in formato grezzo (raw) tutti identici. È importante raccogliere tanti scatti per aumentare la dinamica dell’immagine e ottenere così un’immagine in cui i colori saranno ben visibili. Non c’è un limite ma in generale sarebbe meglio catturare almeno 100 frame, scattando a bassa sensibilità, magari 100 ISO. Non aumentare la sensibilità di scatto perché si incrementa il rumore e diminuisce la dinamica, che è l’unica cosa che davvero conta in questo caso.

I momenti migliori per fare gli scatti sono quando il nostro satellite si trova molto alto sull’orizzonte. Questa richiesta è fondamentale per evitare che la nostra atmosfera alteri in modo irreversibile i tenui colori che vogliamo estrapolare.

 

Elaborazione

Dopo aver allineato e sommato i singoli scatti con programmi come Registax o Autostakkert, cercando di scartarne il meno possibile, tanto la risoluzione effettiva non conta molto, dobbiamo lavorare sull’immagine grezza in due fasi, una dedicata esclusivamente al colore e l’altra alla risoluzione.

Creiamo due copie identiche della nostra immagine grezza. Useremo una di queste come canale di crominanza, al quale quindi cercheremo di estrarre al meglio i colori tralasciando i contrasti. L’altra versione la trasformeremo in bianco e nero e applicheremo delle maschere di contrasto, concentrandoci solo sul lato dei contrasti e della risoluzione. Questa sarà la base di “luminanza” che poi coloreremo con la versione a cui avremo estrapolato i colori. Agendo in questo modo possiamo sfruttare sia l’informazione cromatica che quella spaziale, senza sacrificare nulla del segnale che abbiamo raccolto con tanta fatica.

Sulla copia dedicata al colore non dobbiamo applicare alcuna maschera di contrasto ma agire in due modi. Prima di tutto dobbiamo eliminare la dominante giallastra tipica del nostro satellite, che rappresenta solo il contributo della luce solare. Per fare questo possiamo operare un bilanciamento del bianco, selezionando come punto campione una zona dalla colorazione neutra (di solito NON nei piatti mari, che tendono a essere azzurri). A volte anche la funzione “colore automatico” di Photoshop aiuta molto e restituisce un’immagine priva di dominante generale. L’obiettivo è avere un’immagine che sembra (ma non lo è) in bianco e nero, senza dominanti.

A questo punto possiamo passare alla fase successiva: aumentare la saturazione del colore fino a far comparire i colori ma senza creare artefatti. In generale è meglio procedere a piccoli passi, aumentando la saturazione di circa il 30% ogni volta invece che farlo in un’unica soluzione. Piano piano vedremo la Luna colorarsi. Ci fermeremo solo quando cominceremo a vedere il rumore di fondo e l’immagine diventerà molto granulosa. Non bisogna applicare altri strani filtri, come quelli fotografici, che fanno più danni che altro: ricordiamo infatti che stiamo cercando di rappresentare la realtà come è e non come vorremmo che fosse!

Ecco i colori della Luna! L’immagine, però, non è proprio bella a livello estetico, ecco perché abbiamo a disposizione l’altra copia trasformata in bianco e nero e a cui abbiamo applicato qualche maschera di contrasto per renderla bella.

I colori ci sono ma l'immagine è molto granulosa. Non importa, per questo abbiamo creato una versione di luminanza che coloreremo con questa.

I colori ci sono ma l’immagine è molto granulosa. Non importa, per questo abbiamo creato una versione di luminanza che coloreremo con questa.

Prendiamo allora la nostra crominanza, un po’ brutta, e copiamola sulla versione di luminanza, trasformata in immagine a colori. Allineiamo i due livelli e impostiamo il modo di unione su “colore”. Come per magia, l’informazione del colore viene trasferita sulla versione esteticamente più gradevole e la nostra Mineral Moon è pronta!

Le due versioni a confronto. A sinistra ci siamo concentrati solo sulla luminanza e sui dettagli. A destra solo sul colore. Ora dobbiamo unire al meglio le due informazioni.

Le due versioni a confronto. A sinistra ci siamo concentrati solo sulla luminanza e sui dettagli. A destra solo sul colore. Ora dobbiamo unire al meglio le due informazioni.

 

Sovrapponendo il file di crominanza a quello di luminanza e unendo con il metodo "colore" ecco che la magia è completa: una foto che mostra i dettagli e i veri colori della Luna!

Sovrapponendo il file di crominanza a quello di luminanza e unendo con il metodo “colore” ecco che la magia è completa: una foto che mostra i dettagli e i veri colori della Luna!

La Mineral Moon

La Mineral Moon

I colori sono reali? Certo! Anche se l’occhio non li percepisce, non vuol dire che non esistono, piuttosto che il nostro apparato visivo non ha la sensibilità sufficiente a restituirceli, come d’altra parte accade a tutti gli oggetti del profondo cielo. La realtà è molto più ampia del piccolo spicchio accessibile al nostro occhio. In un certo senso, allora, è più corretto dire che è la versione monocromatica che noi possiamo vedere di solito, della Luna e delle nebulose, a non essere reale, perché la realtà, indagata con strumenti più sensibili e oggettivi, mostra un Universo pieno di colori!

Immagini di questo tipo, oltre a essere belle per la vista, contengono dati interessanti dal punto di vista geologico. Certo, la precisione nel determinare gli elementi prevalenti non è elevatissima ma possiamo dire, ad esempio, che le zone rosse sono povere di ferro e in generale più antiche, mentre quelle blu rivelano aree ricche di titanio. Chissà che un giorno anche queste nostre foto non serviranno ai primi minatori lunari come indicazione su dove trovare maggiori quantità dei preziosi minerali che cercheranno di estrarre.

Fotografiamo la superficie di Venere!

Venere sta dominando queste serate di fine inverno e dominerà le albe di tutta la primavera, quindi non possiamo non parlare di questo faro del cielo. Non sarà però il solito post che ci insegna a osservare le solite fasi di Venere, anzi, tutt’altro!

Il nostro gemello, con dimensioni e massa molto simili, è in realtà una vera e propria Nemesi: l’atmosfera è decine di volte più densa, composta quasi per intero da anidride carbonica e con minacciose nuvole di acido solforico. Sulla superficie la temperatura, di giorno come di notte, ai poli come all’equatore, è stabile, da chissà quanto tempo, allo stratosferico valore di +460°C. Venere è un forno inospitale per qualsiasi forma di vita e per di più la sua superficie è del tutto nascosta alla nostra vista da chilometri di nuvole che non lasciano mai neanche uno spiraglio ai nostri telescopi.

Per centinaia di anni dopo l’invenzione del telescopio, nessun essere umano è riuscito a capire cosa si nascondesse sotto le nuvole venusiane, fino a quando negli anni ‘60 le prime sonde sovietiche giunsero sull’inospitale superficie.

La mappatura completa di Venere è stata effettuata dalla sonda Magellano che negli anni ’80, grazie a un radar, ha composto la prima mappa geologica e altimetrica del pianeta. Anche se noi non lo possiamo vedere, Venere ha crateri da impatto, montagne, pianure, colline, scarpate e valli. Ma siamo sicuri che non ci sia alcun modo per sbirciare la superficie venusiana senza dover friggere a bordo di un’improbabile astronave che tenta di superare quelle fitte nuvole? La Natura in questo caso ci dà una grossa mano.

La superficie di Venere, a causa dell’enorme temperatura, emette radiazione elettromagnetica, proprio come un pezzo di ferro rovente. Con un picco verso i 4 micron ma una coda di emissione che arriva anche a 800 nm, questa radiazione termica riesce a uscire in parte dalla spessa atmosfera. Attorno alla lunghezza d’onda di 1000 nm (1 micron), infatti, l’atmosfera venusiana diventa trasparente e il calore della superficie può uscire nello spazio ed essere quindi osservato. La radiazione termica di Venere è molto più debole della luce solare riflessa dall’alta atmosfera ma se ci concentriamo sul lato non illuminato quando il pianeta mostra una fase molto sottile, allora l’impossibile diventa possibile.

Con un filtro infrarosso da un micron (1000 nm) e una camera planetaria, meglio se monocromatica, o una camera CCD per profondo cielo e un telescopio da almeno 15 cm su montatura motorizzata, è possibile fare una serie di fotografie a lunga esposizione, bruciando la falcetta di Venere e lasciando che la più debole radiazione termica del lato non illuminato venga alla luce. Non potremo mai osservarla all’oculare del telescopio perché i nostri occhi non sono sensibili agli infrarossi, ma abbiamo appena scritto la ricetta per una fotografia molto speciale.

La tecnica migliore prevede di acquisire immagini a una focale non troppo elevata, poiché si tratta a tutti gli effetti di una ripresa deep-sky e non più in alta risoluzione. Focali comprese tra i 2 e i 3 metri sono ottime per questo scopo. Dobbiamo aumentare l’esposizione e/o il guadagno, senza curarci della luminosità della parte illuminata.
La magnitudine superficiale del lato non illuminato è di circa 12 su ogni secondo d’arco quadrato, circa come quella del pianeta Nettuno e molto più alta di ogni oggetto del profondo cielo. Sebbene quindi si possa osservare la debole radiazione anche con tempi di posa brevi, di circa 0,2 secondi, per avere un ottimo segnale è meglio fare tante esposizioni con tempi compresi tra 2 e 5 secondi. Se la montatura è ben stazionata al polo non si avranno neanche problemi di inseguimento. Più frame si acquisiscono e meglio è, tanto non ci sono problemi di rotazione del pianeta. L’unica limitazione è rappresentata dal fatto che è necessario fare una ripresa del genere con il Sole tramontato e con il fondo cielo scuro.

Luce cinerea? Sì, ma di Venere e non è riflessa!

Luce cinerea? Sì, ma di Venere e non è riflessa!

Se siamo bravi e pazienti e magari disponiamo di una camera CCD per le riprese del profondo cielo, oltre al suggestivo chiarore della parte non illuminata, che renderà Venere simile alla luce cinerea lunare, potremo mettere in evidenza anche strutture superficiali. Il principio è semplice: le montagne e gli altopiani avranno temperature minori rispetto alle valli e alle grandi pianure, quindi emetteranno meno radiazione termica.

In effetti, con esposizioni lunghe, telescopi da almeno 15 centimetri, una fase della parte non illuminata inferiore al 25%, un cielo ormai scuro e acquisendo qualche centinaio di frame, è possibile mostrare la traccia inequivocabile di dettagli superficiali. Questa è una piccola rivoluzione per noi: con la nostra strumentazione possiamo fotografare la superficie di Venere, in barba a tutti quei tossici e infernali strati nuvolosi!

Non ci credete? E allora osservate questa foto che ritrae i principali dettagli superficiali, che ho composto con le immagini ottenute nel 2009 e il 18-19 febbraio scorsi. Questo è l’aspetto del nostro pianeta gemello e questo è quello che si potrà vedere da qui a pochi giorni prima della congiunzione con il Sole del 23 Marzo. Ma poi, all’alba, i giochi potranno ricominciare di nuovo e almeno fino alla metà di maggio potremo ancora cacciare questa elusiva “luce cinerea” venusiana con i nostri strumenti. Non lasciamoci sfuggire questa ghiotta occasione, altrimenti dovremo aspettare più di un anno per riprovare l’impresa!

Dettagli superficiali di Venere

Dettagli superficiali di Venere

 

La regina delle notti invernali: la costellazione di Orione

Le notti invernali sono molto fredde, ma allo stesso tempo hanno due grandi vantaggi: 1) Il cielo tende a essere più trasparente che nelle altre stagioni (se è sereno!) e 2) La notte scende presto, così non dobbiamo fare le ore piccole per gustarci un po’ di stelle. C’è anche un terzo vantaggio, ed è quello di poter osservare la costellazione a mio avviso più bella di tutto il cielo: Orione.
Si tratta di un gruppo di stelle riconosciuto come una costellazione sin dalle prime civiltà della Terra. Per i Greci Orione era un grande cacciatore che fece innamorare di lui persino Artemide, dea della Luna e della caccia. La dea era così persa per il gigante cacciatore che trascurò il suo compito di illuminare le notti. Una notte, Apollo, fratello gemello di Artemide, vide Orione nuotare in mare e sfidò la sorella a colpire con una freccia quello che da lontano sembrava un cane. Artemide raccolse la sfida, scoccò la freccia e uccise il cacciatore. Solo dopo, quando il suo corpo venne portato a riva dalla corrente, Artemide riconobbe il suo amato Orione e distrutta dal dolore decise di porlo nel cielo insieme ai suoi cani. Il dolore della dea è ancora visibile nella fredda e triste luce della Luna, che ogni notte viene fatta sorgere e tramontare dalla dea.

Orione è la costellazione più appariscente di tutto il cielo, impossibile da non individuare nelle notti invernali, proprio a cavallo dell’equatore celeste. Anche la forma somiglia a un gigante, il cui corpo è individuato dal grande quadrilatero dominato da Betelgeuse e Rigel, stelle molto brillanti e suggestive. Al centro vi sono 3 stelle quasi allineate e di luminosità simile, che vanno a formare la famosa cintura di Orione. In basso altre tre stelle, più deboli, poste in senso verticale, formano la spada del gigante. In alto, da Betelgeuse si diparte un braccio che sorregge una clava e dall’altra parte, a destra, l’altro che sostiene la pelle di un Leone. Orione contiene al suo interno alcune delle nebulose più belle e suggestive dell’emisfero boreale. Il mitologico cacciatore domina il cielo invernale sin dal pomeriggio, quando si può osservare verso l’orizzonte est. Con il passare delle ore la sua inconfondibile sagoma guadagna sempre più spazio, fino a svettare verso sud poco prima della mezzanotte.

Betelgeuse, la stella di color arancio nell’angolo superiore a sinistra del quadrilatero, è un astro che sta giungendo a grandi passi verso la fine della propria vita. Al suo centro l’idrogeno, il combustibile più appetibile e duraturo con cui le stelle si mantengono in vita, è terminato da tempo. Betelgeuse, allora, da astro azzurro si è espansa all’inverosimile fino a superare il diametro di un miliardi di chilometri e si è trasformata in una supergigante rossa, l’ultimo stadio prima di terminare la propria vita con un’immensa esplosione chiamata supernova. Quando accadrà diventerà per qualche mese più luminosa della Luna piena e sarà visibile persino di giorno. L’appuntamento è fissato in un giorno qualsiasi da qui ai prossimi 50 mila anni. La probabilità di assistere all’esplosione di Betelgeuse, quindi, non è superiore a una su 500 per una persona che vive 100 anni. Non è tanto ma è di certo molto, molto più elevata che vincere a una qualsiasi lotteria.
Le stelle che formano la cintura sono tutte giganti blu. Da sinistra a destra troviamo Alnitak, Alnilam e Mintaka. Citate in tantissime mitologie, antiche e moderne, queste stelle, come tutti gli astri, se ne fregano delle nostre insignificanti vicende e brillano perché così hanno deciso le leggi dell’Universo, non per inviare chissà quale strano messaggio a esseri posti su un pianeta che diventa inivisibile già dalla periferia del Sistema Solare.
Più in basso, nella spada di Orione, si nasconde il tesoro più bello della costellazione e, forse, di tutto il cielo. La stella centrale in realtà non è una stella ma la splendida grande nebulosa di Orione, parte più brillante di un enorme sistema nebulare che avvolge tutta la costellazione. Vale la pena andare sotto un cielo scuro, senza la Luna, e puntare questo piccolo gioiello anche con un modesto binocolo. Ci stupiremo nell’osservare quelle tenui trame di gas dalle quali stanno nascendo ancora oggi centinaia di stelle e chissà quanti pianeti. Non vedremo la distesa di gas in apparenza impenetrabile e colorata che mostrano tutte le fotografie, perché il nostro occhio non è abbastanza sensibile. Noteremo una tenue e delicatissima distesa di quello che il nostro cervello proverà a collegare a un banco di nebbia o a una debole nuvola, ma mai interpretazione è più lontana dalla realtà. Quella nube cosmica ha un diametro di almeno 250 mila miliardi di chilometri (25 anni luce), una densità milioni di miliardi di volte inferiore all’aria che stiamo respirando e brilla perché il gas di cui è composta ha una temperatura di circa 10 mila gradi, a causa della potente energia sprigionata dalle calde stelle nate all’interno. Quattro di queste sono facili da osservare perché sono di buona luminosità: si tratta del famoso trapezio, il cuore caldissimo della nebulosa di Orione. È proprio da ambienti come questo che ha inizio l’avventura di tutte le stelle dell’Universo, dei pianeti e persino della vita.

Un bellissimo disegno della nebulosa di Orione osservata da Giorgio Bonacorsi attraverso un telescopio Newton da 130 mm di diametro e 100 ingrandimenti, da un cielo molto scuro.

Un bellissimo disegno della nebulosa di Orione osservata da Giorgio Bonacorsi attraverso un telescopio Newton da 130 mm di diametro e 100 ingrandimenti, da un cielo molto scuro. Al centro si notano le quattro calde stelle che formano il Trapezio.

Conil nostro piccolo telescopio, magari ricevuto in regalo per Natale, non potremo farci quindi regalo migliore che puntare la grande nebulosa di Orione da un posto scuro e senza la Luna nel cielo, mettersi seduti, osservare per almeno una decina di minuti e godersi il viaggio più veloce ed entusiasmante che abbiamo mai fatto fino a questo momento. In pochi secondi ci siamo spinti a più di 1000 anni luce di distanza, alla scoperta di uno dei tanti tesori nascosti di un fantastico Universo.

Campionamento e focale equivalente nella fotografia astronomica

Nelle osservazioni visuali le immagini vengono ingrandite attraverso gli oculari. Nella fotografia astronomica non ha più senso parlare di ingrandimento, perché al posto dell’occhio si inserisce un sensore digitale senza obiettivo e l’immagine, a rigor di logica, non viene ingrandita. In questi casi si parla di scala dell’immagine o campionamento, le grandezze che determinano “l’ingrandimento” delle immagini digitali.

Il campionamento, o scala dell’immagine, rappresenta la dimensione angolare di cielo che riesce a riprendere un singolo pixel del sensore. Quindi, questo determina anche il più piccolo dettaglio che è possibile, in teoria, risolvere. Una scala dell’immagine di 2”/pix (secondi d’arco su pixel) indica che ogni pixel inquadra una porzione di cielo con lato di 2”. Poiché i pixel sono i punti che formeranno l’immagine digitale, tutto quello che ha dimensioni inferiori a 2” non sarà mai risolto dal sensore. Questo prescinde dalla turbolenza atmosferica e da diametro dello strumento e rappresenta una specie di potenziale. È infatti certo che un’ipotetica scala dell’immagine di 40”/pixel non risolverà mai delle strutture di galassie o nebulose inferiori a questo valore. D’altra parte non è detto, anzi, non è proprio possibile dai nostri cieli, che un campionamento di 0,5”/pixel riesca a mostrarci dettagli di questa dimensione angolare perché saranno rovinati dalla turbolenza atmosferica, anche se usassimo un telescopio in grado di mostrarceli. Il campionamento, quindi, non determina direttamente la risoluzione dell’immagine ma ci permette di capire parametri fondamentali come il campo di ripresa che si ha con una certa accoppiata telescopio – sensore, quindi dà indicazioni su quali soggetti possiamo riprendere al meglio e se saremo limitati o meno dalla turbolenza atmosferica.

Calcolare il campionamento di un’immagine è facile utilizzando la seguente formula:

C = (Dp /F) x 206265,

dove C = campionamento (in secondi d’arco su pixel) , Dp = dimensioni dei pixel del sensore utilizzato e F = focale del telescopio. Dp e F devono avere le stesse unità di misura; 206265 è il fattore di conversione tra radianti e secondi d’arco. Di solito le dimensioni dei pixel sono espresse in micron, mentre quelle della focale in millimetri. Niente paura: un micron corrisponde a 0,001 millimetri.

 

Campionamento ideale nelle fotografie a lunga esposizione

Un principio, detto criterio di Nyquist, applicato al campo ottico afferma che per sfruttare una determinata risoluzione occorre che il più piccolo dettaglio visibile cada almeno su due pixel adiacenti. Se consideriamo che nel mondo reale è meglio se il più piccolo dettaglio risolvibile cada su almeno 3 pixel, possiamo giungere a importanti conclusioni su quale possa essere il massimo campionamento efficace nella fotografia a lunga esposizione. Se la risoluzione massima a cui possiamo ambire è determinata dalla turbolenza media ed è intorno ai 2,5-3”, a prescindere dal diametro del telescopio, significa che le scale dell’immagine più basse che possiamo usare prima di avere l’effetto delle stelle a pallone e dettagli sempre sfocati sono dell’ordine di 0,8”-1”/pixel. Nelle condizioni medie, di fatto non conviene quasi mai lavorare con scale più piccole di 1”-1,5”/pixel.

L’effetto più grave di quello che si chiama sottocampionamento, cioè lavorare con scale più grandi, è mostrare stelle così piccole che potrebbero diventare quadrate, perché questa è la forma dei pixel, ma d’altra parte avremo sempre dettagli degli oggetti estesi ben definiti e contrastati, con una profondità in termini di magnitudine ancora ottima. L’effetto di un sovracampionamento, cioè di una scala dell’immagine più bassa di quella limite, è quello di restituire stelle sempre molto grandi e dettagli degli oggetti estesi sfocati e indistinti. Come se non bastasse, un sovracampionamento produce anche una perdita, a volte notevole, di profondità perché la luce si espande su più pixel invece di venir concentrata in una piccola area. Il mio consiglio, quindi, è di non esagerare con la scala dell’immagine e di preferire immagini “meno ingrandite” ma più definite a improbabili zoom che mostrerebbero nient’altro che un campo confuso e molto rumoroso. Questo ragionamento vale sia per le riprese telescopiche, in cui si dà per scontato che il seeing sia il limite alla risoluzione rispetto al diametro dello strumento, che per le fotografie attraverso obiettivi e teleobiettivi, in cui il limite deriva dal potere risolutivo dell’ottica.

Conoscendo il campionamento e il numero di pixel dei lati del sensore, possiamo subito comprendere quanto sarà grande il nostro campo di ripresa e capiremo se sarà possibile riprendere al meglio un’estesa nebulosa o una debole galassia.

Districandosi in questa specie di giungla, potremo costruire un setup più specifico per la tipologia di oggetti che più ci piace. A livello generale e personale, finché useremo delle semplici reflex digitali non vale la pena farsi troppi conti perché tanto per queste non c’è molta scelta a livello di dimensioni dei pixel e del formato del sensore. Quando invece parliamo di CCD (o CMOS) astronomici, che dobbiamo scegliere con molta attenzione, il campionamento che otterremo con il nostro setup rappresenta il punto più importante per la scelta. Sarà infatti inutile, e frustrante, usare un sensore con pixel di 5 micron su un telescopio Schmidt-Cassegrain da 1,5-2 metri di focale, che ci darà un campionamento di 0,70-0,50”/pix e potrebbe venir sfruttato in pieno solo dal deserto di Atacama. Nelle nostre località otterremo sempre stelle a “pallone” e oggetti diffusi molto deboli e rumorosi, tanto da richiedere ore e ore di integrazione per mostrare dettagli interessanti. Un risultato simile si sarebbe ottenuto con una scala dell’immagine anche tre volte superiore e un tempo di integrazione totale dalle 4 alle 9 volte inferiore.

Avere pixel molto piccoli comporta anche una perdita di sensibilità e dinamica, perché un pixel più piccolo raccoglie meno luce e può contenere molti meno elettroni di uno più grande, con la conseguenza che il range dinamico del sensore si può ridurre anche di 5 volte tra pixel da 5,6 micron e da 9 micron. Poiché un sensore astronomico è qualcosa che dovrebbe durare per molti anni e le serate buone si possono contare in un anno sulle dita di due mani, è meglio sceglierne uno che si accoppi in modo perfetto al nostro telescopio. Se ci piacciono primi piani di galassie è meglio ingrandire le immagini in elaborazione che lavorare a una scala piccolissima.

 

Campionamento ideale nell’imaging in alta risoluzione

Quando parliamo di fotografia in alta risoluzione le cose cambiano drasticamente perché, grazie a pose molto brevi e un enorme numero di frame catturati, possiamo sperare di abbattere il muro eretto dalla turbolenza atmosferica media e spingerci verso la risoluzione teorica dello strumento, fino a un limite di circa 0,3” nelle zone più favorevoli e nelle migliori serate. Quando il seeing collabora, quindi, possiamo impostare la scala dell’immagine sui limiti di risoluzione teorica dello strumento che stiamo utilizzando. Una buona relazione per determinare la risoluzione alle lunghezze d’onda visibili è quella di Dawes:

PR = 120/D

Dove PR = potere risolutivo, in secondi d’arco, e D = diametro del telescopio espresso in millimetri.

Come già detto, affinché il sensore sia in grado di vedere questa risoluzione occorre che questa cada su 3-4 pixel: né molto più, né molto meno. In queste circostanze, allora, il nostro obiettivo sarà quello di lavorare a cavallo del campionamento ottimale, che può essere espresso dalla semplice formula:

Cott= 37/D

Dove D = diametro del telescopio espresso in millimetri e Cott = campionamento ottimale, espresso in secondi d’arco su pixel. Come possiamo vedere dal confronto con la formula di Dawes, cambia di fatto solo il coefficiente numerico, che è inferiore di poco più di tre volte, proprio come abbiamo detto con le parole. Il valore ottenuto, come quello della formula di Dawes, rappresenta un punto di riferimento alle lunghezze d’onda visibili e non un numero da rispettare in modo rigoroso. Scostamenti del 10-20% sono ancora accettabili e, anzi, incoraggiati, poiché ogni sensore, telescopio e soggetto possono preferire valori leggermente diversi dalla semplice teoria con cui abbiamo ottenuto questi.

I valori che raggiungiamo sono tutti piuttosto piccoli ed ecco spiegato il motivo per cui nell’imaging planetario è preferibile usare sensori con pixel di dimensioni ridotte, tra i 3 e i 7 micron al massimo: l’opposto di quanto si preferisce fare nella fotografia a lunga esposizione.

Nonostante questo, i rapporti focale tipici si aggirano tra f20-22 (per pixel da 3,7 micron) e f 30-35 (per pixel da 5,6 micron) e si rende necessario inserire oculari o lenti di Barlow per aumentare la focale nativa del telescopio. Invece di fare complicati calcoli sul rapporto focale raggiunto con un certo oculare o Barlow, per capire a quale campionamento reale si sta operando il modo migliore è fare dei test riprendendo un pianeta, ad esempio Giove. Misurando l’estensione in pixel e confrontandola con il diametro apparente che si può leggere da ogni software di simulazione del cielo, possiamo trovare il campionamento reale della ripresa applicando questa formula:

Ccalc = dang/dlin

Dove dang  sono le dimensioni angolari (in secondi d’arco) e dlin  il diametro misurato dell’immagine, espresso in pixel. Il campionamento restituito sarà in secondi d’arco su pixel. A questo punto la focale con cui è stata fatta la ripresa sarà:

Feq = (Dp/ C) x 206265

Dove Dp  sono le dimensioni dei pixel del sensore, espresse in millimetri e C il campionamento (calcolato sull’immagine o stimato, non cambia). La focale restituita sarà in millimetri. Il rapporto focale sarà dato dalla semplice relazione Feq / D, con D = diametro del telescopio, in millimetri. Queste formule sono valide in generale, quindi anche per le riprese del profondo cielo.

Anche in questa circostanza, avere a disposizione miliardi di pixel è dannoso, e molto più rispetto alla fotografia del profondo cielo (in cui il danno principale è l’esigenza di avere telescopi dall’enorme capo corretto, quindi molto costosi). Poiché il campionamento ideale è fissato e i pianeti hanno dimensioni angolari ridotte, per ottenere ottime immagini non potremo avere, ad esempio, Giove esteso per 4 milioni di pixel. Il sovracampionamento nell’imaging in alta risoluzione è distruttivo e sarebbe sempre da evitare, molto più che nella fotografia a lunga esposizione nella quale, almeno, possiamo sperare di allungare il tempo di integrazione per sopperire in parte al danno che abbiamo fatto.

Nella fotografia in alta risoluzione “ingrandire” troppo l’immagine ci allontanerà sempre da un risultato ottimo. Anche se all’inizio potrebbe sembrare che ottenere delle “pizze” ingrandite a dismisura possa essere entusiasmante, in barba ai teorici del campionamento ideale, stiamo osservando un risultato che è sempre peggiore rispetto a quanto avremmo ottenuto con “l’ingrandimento” giusto. Non è un’opinione, è un fatto e anche se non piace non si può cambiare.

Se i pianeti saranno estesi al massimo qualche centinaio di pixel (se abbiamo strumenti oltre i 20 cm), che ce ne facciamo di un sensore che ne possiede diversi milioni? Niente, a meno che non ci vogliamo dedicare espressamente a panorami lunari, ma anche in queste circostanze ci sono comunque dei limiti. Usare sensori con più di 2-3 milioni di pixel per fare imaging in alta risoluzione non è una buona soluzione perché si riduce di molto il framerate, cioè la frequenza con cui si acquisiscono le immagini, che in alta risoluzione è fondamentale avere almeno a 15-20 frame al secondo (fps).

La calibrazione delle immagini digitali

Per fare ottime fotografie a lunga esposizione degli oggetti del cielo profondo servono pochi ingredienti ma ben amalgamati: 1) Un cielo ottimo lontano dalle luci della città, 2) Una montatura equatoriale precisa che possa fare anche autoguida, 3) Una camera digitale, 4) Una buona tecnica di ripresa. In questa ricetta non trova posto l’elaborazione e non è un caso, perché una buona tecnica di elaborazione si impara con il tempo e può solo far uscire al meglio tutto il segnale raccolto durante la fase di acquisizione. Se non abbiamo fatto tutto per bene potremmo essere anche i maghi di Photoshop ma dai nostri scatti non uscirà niente di buono.

Una delle fasi più importanti della fotografia astronomica a lunga esposizione (quindi no imaging planetario) è la cosiddetta calibrazione, una tecnica che prevede di acquisire due – tre set di particolari immagini che hanno il compito di correggere gli inevitabili difetti del sensore e del campo. Sono passaggi che si potrebbero fare anche in fase di elaborazione, si potrebbe pensare, ma non daranno mai e poi mai gli stessi risultati di frame di calibrazione genuini ottenuti sul campo. Volenti o nolenti dobbiamo imparare come ottenere questi scatti perché fanno parte integrante della tecnica di ripresa. Ecco allora quali sono i frame di calibrazione e le loro caratteristiche. In seguito vedremo come applicarli.

 

Dark frame: sono immagini ottenute con il CCD al buio, con la stessa sensibilità, temperatura e durata delle immagini del cielo (che chiameremo anche immagini di luce) e servono per eliminare parte del rumore, cosiddetto termico, che si ripete uguale da una foto all’altra, spesso come pixel più luminosi della media. Il rumore termico si riduce con l’abbassarsi della temperatura del sensore, ma non sparirà mai a meno di usare l’azoto liquido e arrivare ad almeno -100°C. I dark frame, quindi, vanno ripresi (quasi) sempre, anche se sembra che non ve ne sia bisogno. Ce ne potremo pentire quando vedremo comparire, sulle immagini di luce sommate, il temutissimo rumore a pioggia anche con CCD molto evolute. Se il sensore ha il controllo della temperatura possiamo riprendere i dark frame anche con calma a casa e creare una vera e propria libreria da rinnovare una volta l’anno, risparmiando quindi molto tempo. Con le reflex digitali, che non hanno il controllo di temperatura del sensore, fare i dark frame è difficile e creare una libreria impossibile, per questo motivo si potrebbero preferire altri frame di calibrazione.

Un master dark frame ottenuto con una camera CCD ST-2000XCM, temperatura di -10°C e 720 secondi di esposizione.

Un master dark frame ottenuto con una camera CCD ST-2000XCM, temperatura di -10°C e 720 secondi di esposizione.

 

Bias frame: sono immagini ottenute con la stessa sensibilità dei frame da calibrare e con tempo di esposizione pari a zero o comunque il più basso possibile, con il sensore al buio. Questi frame hanno lo scopo di catturare solo il rumore introdotto dall’elettronica del sensore. Possono sostituire i dark frame in quelle circostanze in cui a dominare non è il rumore termico ma quello elettronico (pose brevi, sensore raffreddato a oltre -30°C, riprese fatte con reflex senza controllo di temperatura).

Un master bias ottenuto mediando 50 frame. Da notare il confronto con il master dark precedente. ebbene nascoste dai pixel caldi, anche in quello sono presenti le colonne di pixel caldi tipici del rumore dell'elettronica. Questa è la prova che un dark frame contiene anche l'informazione catturata dai bias e che i due set di calibrazione sono complementari.

Un master bias ottenuto mediando 50 frame. Da notare il confronto con il master dark precedente. ebbene nascoste dai pixel caldi, anche in quello sono presenti le colonne di pixel caldi tipici del rumore dell’elettronica. Questa è la prova che un dark frame contiene anche l’informazione catturata dai bias e che i due set di calibrazione sono complementari.

 

Flat field: sono essenziali per ogni fotografia, a volte persino quando si fanno riprese in alta risoluzione di oggetti estesi come il Sole, o riprese a grande campo con obiettivi grandangolari. Pochi astrofotografi sono consapevoli della trasformazione che subisce la propria foto quando viene corretta con degli ottimi flat field. Di questi, comunque, ne abbiamo già parlato, quindi non mi dilungherò. Sono delle speciali immagini ottenute con la stessa configurazione di quelle che vogliamo calibrare, in cui si punta una sorgente di luminosità fissa e uniforme su tutto il campo. I flat field mappano la sensibilità del campo inquadrato, includendo la differente risposta dei pixel, vignettatura e polvere lungo il treno ottico. Non possono quindi essere ripresi con calma a casa perché necessitano dell’identica configurazione ottica delle immagini di luce, compresa messa a fuoco ed eventuali filtri. Un buon flat field si ottiene con la sensibilità al minimo e impostando un tempo di esposizione tale per cui il picco di luminosità nell’immagine cada a circa 1/3 della scala per le reflex, a ½ per le CCD senza antiblooming (25-30 mila ADU) e circa 1/7 (8000 ADU) per le camere CCD (e CMOS) dedicate all’imaging estetico, quindi con porta antiblooming. L’unico legame con le immagini di luce è la stessa configurazione ottica: esposizione, sensibilità e temperatura possono variare, anche se per le camere CCD dotate di otturatore meccanico è meglio esporre per almeno 4-5 secondi ed evitare di riprendere quindi parte dell’otturatore che si apre.

Master flat field ottenuto facendo la media di 37 scatti da 5 secondi calibrati con master bias. I flat field devono essere sempre calibrati con i relativi dark o con i bias.

Master flat field ottenuto facendo la media di 37 scatti da 5 secondi calibrati con master bias. I flat field devono essere sempre calibrati con i relativi dark o con i bias.

 

Come nel caso delle immagini di luce, non si acquisisce una sola esposizione per ogni set di calibrazione, piuttosto almeno 10, meglio 20 immagini per ogni categoria. Il numero dipende da noi e non ha alcun legame con la quantità di immagini da correggere. Questo è molto importante per non introdurre nuovo rumore nei frame che vogliamo calibrare. La media (o mediana, nel caso di dark e bias) dei frame di calibrazione va a comporre quello che si chiama master. Ogni singolo scatto di luce deve venir calibrato, prima che sia combinato, con i relativi master (dark e/o bias, flat). Anche i flat field, che sono speciali immagini di luce, devono venir calibrati, prima di essere mediati e creare il relativo master, con un master dark frame o master bias frame. Di solito a questo intricato intreccio ci pensa il software usato ma meglio essere consapevoli di quello che andrà a fare.

Come si usano i frame di calibrazione? Quali servono per le nostre esigenze? Ci sono diverse combinazioni possibili. Ecco quelle consigliate, anche se ognuno di noi può fare le prove che vuole.

 

  • Camera CCD raffreddata con controllo della temperatura, con pose di luce più lunghe di 5 minuti e flat field esposti per non più di 20 secondi.

In questa situazione la combinazione migliore è quella di acquisire tutti i frame di calibrazione. I dark frame correggeranno le immagini di luce e i bias frame correggeranno i flat field. Poi i flat field calibrati verranno mediati e il master flat verrà applicato alle immagini di luce a cui sarà stato sottratto il master dark. I dark frame contengono anche l’informazione dei bias frame, cioè il rumore dell’elettronica, quindi quando li sottraiamo stiamo togliendo anche il bias. Il bias frame può sostituire i dark frame su pose di breve durata come quelle tipiche dei flat field. In questo modo evitiamo di dover riprendere dei dark frame anche per correggere i flat e possiamo usare i bias che sono sempre uguali poiché non dipendono dalla durata dell’esposizione, né dalla temperatura;

  • Camera CCD raffreddata con controllo temperatura, pose di luce più lunghe di 5 minuti e flat field più lunghi di 3 minuti.

Un’eventualità del genere si verifica quando si fanno riprese in banda stretta. In questi casi è meglio lasciar perdere i bias e riprendere dark frame sia per le pose del cielo che per i flat field. I due set sono indipendenti perché legati alla temperatura e al tempo di posa delle rispettive immagini da correggere. Si correggeranno quindi i flat field con i relativi dark frame e le immagini di luce con gli altri, poi si applicherà il master flat field a ogni singola immagine di luce;

  • Camera CCD raffreddata con esposizioni più brevi di 3-5 minuti. In questi casi i dark frame possono essere superflui, se la camera lavora a temperature molto basse. Flat field e immagini di luce possono quindi venir calibrati solo con i bias frame.
  • Reflex digitale.
    In queste circostanze i dark frame potrebbero non essere la scelta migliore perché se la temperatura del sensore cambia, anche di un paio di gradi, i benefici saranno sostituiti dai danni. L’unico rimedio è riprendere sempre flat field e bias frame, in buone quantità, e affidarsi anche alla tecnica del dithering in fase di acquisizione delle immagini di luce, per evitare il rumore a pioggia tipico di queste situazioni.

Sembra tutto molto complicato ma in realtà non lo è, grazie anche ai software che ci evitano di dover creare noi stessi i file master. L’importante, comunque, è prendere mano con la tecnica di acquisizione perché una mancanza sul campo ci potrebbe far buttare l’intera sessione. Per capire come fare poi la calibrazione attraverso i programmi astronomici avremo tante, troppe, notti nuvolose per studiare, tanto i file acquisiti non scapperanno dal pc.

 

 

Una libreria di miei fit grezzi per fare pratica

L’astronomia è condivisione, sia se la facciamo per hobby che per professione. La condivisione diventa necessaria quando parliamo di dati, di fotografie e di tutto ciò che può essere utile alla scienza o nell’apprendere nozioni in un campo nuovo. Se nessuno condividesse le proprie esperienze sarebbero molto pochi gli appassionati del cielo e ancora meno i progressi fatti dalla scienza negli ultimi secoli.

Spesso mi hanno chiesto quale fosse il segreto delle mie immagini, quale magica pozione utilizzassi per elaborarle. Molti sono infatti convinti che la magia di una foto la si crei nella fase di elaborazione, dove con qualche software potente come Photoshop potremo estrarre dettagli sorprendenti di una nebulosa, magari partendo da una sfocata fotografia a un segnale stradale. Certo, tutto è possibile, anche questo, ma credo che sarebbe bello partire da un’immagine reale e fare tutte quelle operazioni che non alterano il segnale catturato. L’obiettivo di un’elaborazione, sia pur estetica, di una fotografia astronomia dovrebbe essere quello di mostrare al meglio tutto il segnale catturato, senza cambiarlo, senza interpretare la realtà che resta quella che il nostro sensore digitale ha catturato. La tentazione di passare dalla fase di elaborazione a quella di fotoritocco può essere grande, soprattutto quando la nostra voglia di ottenere buoni risultati si trasforma in frustrazione vedendo in giro capolavori in apparenza irraggiungibili.

La fase fondamentale della realizzazione di un’ottima immagine astronomica si affronta sempre durante lo scatto, sul campo, spesso al freddo e all’umido. E’ una fase che spesso inizia prima dello scendere del buio, quando dobbiamo trovare il luogo adatto, privo di luci e di umidità, allineare il cercatore, collimare lo strumento (se serve), stazionare in modo perfetto la montatura verso il polo, scegliere il soggetto migliore per la serata e la strumentazione, che deve avere certe caratteristiche, impostare la guida, curare l’inquadratura, la messa a fuoco e poi sperare che per almeno 3-4 ore vada tutto bene, perché quando tutto funziona ed è stato ottimizzato l’unico segreto è questo: esporre, esporre ed esporre per 3-4-5 e più ore. Solo in rarissimi casi si possono ottenere splendide fotografie con un tempo di integrazione totale inferiore a un’ora e sempre la potenziale bellezza di uno scatto aumenta all’incrementare del tempo che gli dedichiamo, non di fronte al computer a elaborarlo ma sotto il cielo, a raccogliere fotoni che hanno viaggiato per migliaia o milioni di anni luce.

Proprio per dare un punto di riferimento a chi cerca di addentrarsi nel mondo della fotografia a lunga esposizione del profondo cielo o per tutti coloro che vogliono capire come migliorare i propri risultati, ho messo a disposizione una serie di fit scattati al cielo coon differenti strumenti e sensori. Per questioni di spazio non ho potuto mettere a disposizione i file singoli con i frame di calibrazione ma solo i file grezzi calibrati e sommati. Potete utilizzarli per fare pratica, divertirvi con gli amici, provare a scovare (e ce ne sono molti) i difetti. Potete pubblicarli per uso non commerciale citando sempre l’autore. Non dovete mai, in nessun caso, eliminare i riferimenti per l’autore o, peggio, spacciarli per vostri perché se vi becco sono cavoli amari 🙂 .

Alcune immagini non le ho elaborate neanche io ancora, per mancanza di tempo, quindi non ho la minima idea di come potranno venire. Molte altre, invece, le trovate elaborate nella mia gallaery su astrobin: http://www.astrobin.com/users/Daniele.Gasparri/collections/253/

Ecco l’elenco completo da cui poter scaricare le immagini. I file sono compressi in formato zip. All’interno troverete il file fit. Ho scelto questo formato, che Photoshop non legge a meno di scaricare il programma gratuito Fits Liberator, perché è lo standard internazionale per tutti i dati astronomici. Tutti i software appositi lo leggono, compreso Deep Sky Stacker, Nebulosity, Iris, Registax, MaxIm DL, PixInsight, AstroArt…

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